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La lectio magistralis di Remo Bodei al festival della filosofia di Modena (14-16 settembre 2012)

settembre 23, 2012

La lectio magistralis di Remo Bodei al festival della filosofia di Modena (14-16 settembre 2012)

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di Giovanni Ghiselli

Ho seguito il primo pomeriggio del festival della filosofia sulle cose: una festa di popolo e di studiosi che parlano, nelle piazze, a tante persone che vengono a Modena, Carpi e Sassuolo per imparare. Ascoltano con attenzione, poi, dopo gli applausi, fanno domande generalmente pertinenti. Ero nella piazza grande del capoluogo e ho pensato all’agorà di Atene con i discorsi di Pericle e al suo “amiamo il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza (filokalou’mevn te ga;r met j eujteleiva” kai; filosofou’men a[neu malakiva”, Tucidide, II, 40, 1).

Gli studiosi che conoscono bene e possiedono l’argomento con la mente, ne hanno una visione chiara e sanno parlarne con semplicità competente, quella prudens simplicitas che è complessità risolta in frasi belle e piene di significato.

Remo BodeiMi è piaciuta in modo particolare la lectio magistralis di Remo Bodei (nella foto), che è professore di filosofia presso la UCLA e Presidente del Comitato Scientifico del festival.
Espone con chiarezza le sue vaste conoscenze, le riflessioni che ne ricava, e parla con entusiasmo suscitando entusiasmo.
Bodei ha distinto la cosa dall’oggetto attraverso dotte e interessanti etimologie.
Ha collegato “cosa” con il latino causa, come una questione che ci dà un motivo e ci sta a cuore, mentre “oggetto” viene da obiectum che è participio passato di obicio, “getto davanti”, “contrappongo”. Quindi l’obiectus, nel latino medievale obiectum, è un impedimento, una barriera.
Bodei ha poi ricordato che un significato analogo ha il greco provblhma, da probavllw, “getto davanti”.
L’oggetto dunque ci ostacola, mentre la cosa-causa ci dà motivi, ci spinge. Causa rimanda anche a responsabilità e a causa legale, a discussione, e richiama il tribunale, l’assemblea, la dimensione pubblica, la discussione, al pari di res il significato della cosa che, mentalmente posseduto, suggerisce le parole, secondo il motto di Catone “Rem tene, verba sequentur” : la res divenuta cosa mentale fornisce i verba che sono collegati etimologicamente a rhetorica, all’arte del parlare in pubblico e a parrhsiva, la libertà di parola senza la quale non c’è democrazia. Anche dal nome latino dello Stato, res publica, si vede come la “cosa” faccia parte della collettività della politica e della storia
Nelle cose infatti si depositano le idee e le azioni degli uomini. Conservano le nostre res gestae e quelle di chi ci ha preceduto.
Le rovine sono ancora cosa viva, certo più viva dei troppi oggetti che vanno a finire nelle discariche.
Se riusciamo a liberare le cose, a farle emergere dal fango dei luoghi comuni, a ripulirle dalla polvere della banalità, i nostri orizzonti, il mondo stesso si allarga. Le cose conservano e mostrano gli affetti umani in loro riposte. Allora possiamo redimere gli oggetti in cose salvandoli dalla loro insignificanza. Tante cose sono simboli (suvmbola): segni di riconoscimento, metà di tessere che rappresentano periodi della nostra vita, mantengono vivi ricordi di persone, di affetti, di gioie, di dolori anche, dai quali possono sempre nascere intelligenza e comprensione. Queste metà di tessere vanno riuniti con l’altra metà che è dentro di noi. Così la nostra visione si amplia e la memoria, la vita stessa si allunga.

Le parole di Bodei evocano alcune “cose” della letteratura piene di significati: il letto di Odisseo che vale come chiaro segno di riconoscimento tra due coniugi separati da vent’anni; il tappeto rosso dell’Agamennone di Eschilo l’ ambiguo segno teatrale che, steso davanti al re vincitore,albun “non è affatto, come egli immagina, la consacrazione quasi troppo alta della sua gloria, ma un modo di consegnarlo alle potenze infere, di votarlo senza remissione alla morte, questa morte “rossa” che viene a lui nella stessa “sontuosa stoffa” preparata da Clitennestra per prenderlo in trappola come in una rete”.
Altro oggetto ambiguo, simbolico di guerra cavalleresca e di morte disperata è la spada a borchie d’argento che Aiace riceve in dono da Ettore. Con questa stessa arma il Telamonio si ucciderà nella tragedia di Sofocle dopo averla ricordata come e[cqiston belw’n (Aiace, v. 658), la più odiosa tra le armi, e avere sentenziato che sono non doni, i doni dei nemici e non sono vantaggiosi:”ejcqrw’n a[dwra dw’ra koujk ojnhvsima” (v. 665).
Virgilio riprende il topos con l’ensis lasciata da Enea e impiegata da Didone, quale dono richiesto non per essere usato in quel modo, ossia per il suicidio. L’ambiguità di questa spada è totale: infatti essa è “oggetto” in quanto si oppone alla vita ed è nello stesso tempo “cosa” carica di ricordi anche belli.
Le armi hanno spesso questa funzione simbolica: si può pensare pure allo scudo di Archiloco che non si pente di averlo abbandonato se ha salvato la vita , o a quello dei Germani di Tacito che viceversa si impiccano dalla vergogna se lo hanno abbandonato.
Alcune di queste cose, come abbiamo visto per la spada, vengono impiegate in vari testi da autori diversi, come topoi o loci, ossia “argumenta quae transferri in multas causas possunt”.
Anche le vesti possono assumere significati simbolici.
Il Cristo tribolato, l’ecce homo già prossimo alla morte, quando viene esposto da Pilato è vestito di porpora, e Dario III, mentre si trovava a capo dell’ esercito persiano schierato a Isso contro Alessandro, era riconoscibile per il suo sfarzo cui non mancava la porpora, ancora una volta un segno sinistramente ominoso: “purpurae tunicae medium album intextum erat”, la tunica di porpora era intessuta d’argento nel mezzo. Il grande re di lì a poco si sarebbe capovolto in farmakov~, come Edipo e altri personaggi della tragedia greca. Si potrebbero fare tanti esempi di cose piene di significato, dalla veste di lino e di lana, volendo restare ai tessuti, alle coppe di Alceo colme di vino e simboliche di amicizia conviviale.
Ma preferisco tornare a Bodei, il quale del resto quando sono intervenuto, in fase di dibattito, con una rassegna breve di tali “cose” in letteratura, mi ha signorilmente ringraziato per il contributo. Un contributo suggerito da lui.
La seconda parte della lectio magistralis è stata più politica.
Dobbiamo riscoprire il valore degli affetti che il PIL e i suoi fautori fanatici hanno la pretesa di inumare. Ritrovare i piaceri della convivialità, i conforti della solidarietà e della carità.
Il PIL non può crescere all’infinito, e, fissare un’attenzione totale, esclusiva, sui dati economici, può farci dimenticare la quintessenza della nostra umanità che è l’amore per gli altri uomini. Marco Aurelio scrive che il compito dell’uomo, come quello degli alberi, degli uccelli, delle formiche, dei ragni e delle api è contribuire all’ordine del cosmo (sugkosmei`n kovsmon), ebbene l’auspicata crescita infinita del PIL può invece provocare il caos.
I devoti guardiani del PIL mortificano le cose, le svuotano di bellezza, storia e poesia trasformandole in oggetti da discarica. I nostri governi sii comportano come il Prometeo del Protagora di Platone (322d). Il Titano distribuiva agli uomini oggetti e tecnica, senza fornire arte politica, rispetto e giustizia. I mortali si uccidevano a vicenda finché Zeus impose la presenza di questi valori politici.

Bodei ha denunciato con forza l’espropriazione operata dall’economia nei confronti della politica oramai esautorata.
La stessa democrazia viene avvelenata dal predominio tirannico del mercato e del capitale. L’infezione è già in fase avanzata.
Nello stesso tempo la tecnica dilagante tende a cambiare il mondo allontanando l’uomo dalla natura con danno di tutti.
Aleggia un mivasma, una contaminazione, come nella Tebe dell’Oijdivpou~ Tuvranno~ di Sofocle, o peggio dell’Oedipus di Seneca che ammette: Fecimus coelum nocens” (v. 36), io ho reso colpevole il cielo.
Mi fanno sperare Bodei e altri studiosi che hanno parlato a tante persone desiderose di ascoltarle, attente e partecipi.

© Letteratitudine

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