In esclusiva per Letteratitudine, pubblichiamo uno stralcio del romanzo UNA TERRA IMPERFETTA, di Delia Morea
Napoli durante gli anni fulgidi della Belle Epoque e dei Caffè Concerto. Momento di cambiamenti epocali che prelude al Novecento. Un prologo inquadra l’epidemia di colera che colpì Napoli nel 1884, e sottolinea la dolenza e la contraddizione di una città preda di grandi sconvolgimenti e di grandi entusiasmi. La vicenda si snoda, poi, attraverso gli anni che connotarono Napoli, al pari di Parigi, come capitale del divertimento, delle chanteuse ma soprattutto dei grandi poeti e del trionfo della canzone napoletana romantica. Nel libro alcuni personaggi realmente esistiti nella Napoli di fine Ottocento e degli inizi del Novecento convivono con altri puramente inventati. Tra le figure reali che popolano il romanzo: Elvira Donnarumma, Gennaro Pasquariello, Salvatore di Giacomo, Eduardo Scarpetta, Matilde Serao, Gilda Mignonette, descritte seguendo un filo di memoria storica collettiva che dà conto della traccia indelebile che tali nomi hanno impresso all’arte e alla creatività napoletana. Una città che tira a lucido la sua immagine con una legge sul Risanamento dei quartieri degradati, con la costruzione dell’imponente Galleria Umberto I, con l’edificazione di nuovi eleganti quartieri. Napoli con le sue miserie e il luccichio del varietà: terra imperfetta e, forse proprio per questo, affascinante. Nel libo ricorrono elementi dialettali e termini ormai fuori uso che permettono di risentire il suono di un tempo passato, tutto da riscoprire.
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Uno stralcio del romanzo UNA TERRA IMPERFETTA, di Delia Morea (Avagliano editore, pagg. 380, euro 16)
Via Toledo quella mattina brulicava di gente di tutte le razze. Un sole leggero riscaldava l’aria che profumava di fiori e salsedine. Il primo tepore della primavera, dopo un inverno tra i più piovosi, induceva la gente a riversarsi per le strade. Carrozze ondeggiavano sugli antichi basoli di piperno stretti e sconnessi che lastricavano Toledo; dai confinanti vicoli dei Quartieri Spagnoli calavano decine di scugnizzi vocianti. L’unico divertimento di questi ragazzini costituiva nell’aggrapparsi alle ruote delle carrozze, tentando una improbabile scalata per cercare una comoda sistemazione, mentre i cocchieri che tenevano a bada i cavalli li minacciavano con pugni ed improperi.
Le guaglioncelle pagate a cottimo dalle modiste correvano con cappelliere e pacchi di ogni sorta a fare consegne, i caffè all’aperto pullulavano di avventori che godevano dell’inizio della bella stagione. Alcuni uomini avevano indossato giacchette a quadrigliè e pagliette in ossequio alla moda. Seduti ai caffè e in giro per le strade si vedevano anche molti stranieri: Napoli era sempre stata una della destinazioni preferite dei viaggiatori del Grand Tour. Il viaggio era fonte di svariate esperienze, come era accaduto per lo scrittore tedesco Goethe. Così aveva una doppia valenza: ai giovani serviva per perfezionare la propria educazione, accumulare competenze ed esperienze per affrontare, una volta tornati in patria, la vita adulta; per gli artisti era motivo di molteplici ispirazioni che avrebbero trovato posto nella memoria della loro arte. Per tutti il viaggio costituiva un mezzo di conoscenza, assecondando la naturale vocazione dell’uomo che è da sempre l’attitudine all’acquisizione del sapere. Napoli era frequentata per le sue bellezze, per l’esotismo delle sue tradizioni, per una certa fama leggendaria di città gaudente, gioiosa ed insieme tenebrosa. Spesso diventava luogo d’elezione e musa ispiratrice dei visitatori, per l’attrattiva che promanava dai monumenti, dalle seduzioni naturali e archeologiche dei suoi dintorni e dal mare.
Il mare di Napoli affascinava chiunque lo contemplasse, specialmente se ammirato dall’alto della collina di Posillipo, il cui nome, di origine greca, significava “riposo dal dolore”.
In quel momento, però, la gente che affollava l’arteria principale del centro cittadino sembrava tutta concentrata a guardare l’installazione di nuovi cantieri di lavoro che avrebbero determinato rinnovamenti architettonici.
Il giovane Davide Santocuore, con la punta di un guanto color perla, si scrollò dal bavero della giacca i granellini di polvere che l’ennesima carrozza aveva sollevato. La zona che stava attraversando era tutta un corpo di fabbrica. Abbattute strade, alberghi e case, si era varato un progetto importante: costruire un’ampia Galleria con alcuni varchi nel cuore di Napoli, che desse lustro e maggiore importanza a un sito prediletto da molti. I reali sabaudi si erano accorti delle bellezze di quella città – rifletteva Santocuore – e Napoli rientrava nei disegni prediletti, non fosse altro per la vivacità culturale che non aveva fine e che la poneva al pari di Parigi di cui s’imitavano le mode, s’intrecciavano rapporti, si scambiavano i talenti artistici. La verità più profonda – si trovò a considerare ancora tra sé Davide che giocoforza si fermò per colpa dei lavori che intralciavano il passeggio – era che il Governo aveva deciso che quella zona andasse bonificata, come era accaduto per il progetto riguardante lo sventramento dei quartieri Porto, Pendino, Mercato e Vicaria. In questi luoghi, che si estendevano in una area ai piedi dell’antico centro greco-romano, la gente viveva come in una insana palude a causa di una falda sottostante il livello del mare, in contatto promiscuo con un antico sistema cloacale che inquinava i pozzi di acqua potabile. In quei quartieri l’ultima epidemia di colera aveva maggiormente flagellato la popolazione; per le precarie condizioni igieniche in cui versava la gente c’era stata la più elevata quantità di morti e in pochissimi giorni. La miseria albergava ovunque, si viveva in squallidi edifici, circondati da rifiuti. Così, mentre bonifiche e sventramenti si susseguivano, famiglie intere erano state scacciate dalle loro abitazioni nel frattempo abbattute, famiglie costrette a rimpolpare le fila di quelli che vivevano per le strade o nelle caverne sulle colline della città, in attesa che anche per loro si varasse un piano regolatore di nuovi alloggi. Per di più l’esercito di poveri aumentava di anno in anno a causa di una natalità altissima.
“Tutto sommato sono stato fortunato fino a oggi” l’osservazione sfuggì a Davide ad alta voce.
Il giovane in qualche modo aveva schivato le maglie di una vita indigente e povera, nonostante il suo mestiere lo facesse vivere sempre nell’incertezza, in bilico tra successo e povertà. Egli era un vero talento canoro, aveva debuttato giovanissimo in uno di quei nascenti e piccoli caffè concerto napoletani che avrebbero fatto la fortuna di molte ugole d’oro della città. Aveva dimostrato subito disinvoltura e attitudini di cantante brillante, duettando con altri giovani di talento e guadagnandosi il favore del pubblico. Ora si apprestava ad un nuovo incontro artistico che lo avrebbe affrancato a maggior ragione da una esistenza di indigenza allontanando da sé lo spettro di ritornare nella triste zona della Vicaria dove era nato.
Mentre mandava via da sé cattivi pensieri di fame e miseria, continuava a sbuffare: tutta quella polvere gli dava fastidio. Gli bruciava gli occhi, imbiancava i folti capelli castani, pettinati secondo la moda che li tirava a lucido con un ciuffo alto e imbrillantinato, sciupava il vestito nuovo ʼngignato per l’occasione.
Aveva fretta, doveva trovarsi a tutti i costi a mezzogiorno in punto nei locali della Birreria Monaco. Non poteva fare attendere il commendatore Giuseppe Resi. Quell’appuntamento era importante per lui, l’ingaggio che stava per firmare l’avrebbe sospinto sempre più verso le altezze della notorietà: uno dei ritrovi in voga di Napoli gli apriva le braccia e lui non se lo sarebbe fatto scappare.
Superò i calcinacci che si ammassavano lungo la parte finale di via Toledo, e a passi veloci svoltò a destra, imboccando il varco che lo avrebbe condotto verso la strada chiamata Santa Brigida, in onore della statua della santa di origine svedese che dimorava nella chiesa omonima. In quei pochi attimi fu tutto uno stringere di mani, di gente che si complimentava con lui, di colleghi meno famosi che cercavano di bloccarlo per domandargli di audizioni, di scritture, e in quale locale – secondo lui – era meglio presentarsi per chiedere lavoro.
Santocuore sorrise a tutti ma non si soffermò: doveva essere assolutamente puntuale, non poteva perdersi in chiacchiere inutili. Avrebbe avuto tempo, dopo, di parlare con gli artisti, o pseudo tali, che affollavano le vie del centro, la cui abitudine era quella di frequentare assiduamente quei luoghi per intessere relazioni lavorative, concludere contratti, mettersi in mostra o solo spettegolare sulla stella del momento dei caffè concerto.
Annina quella mattina era di malumore: lei e Pasqualino avevano camminato a lungo ed ora si trovavano, come tanti, lì nel cuore della città per acchiappare qualche notizia di eventuali ingaggi in uno dei locali intorno. Avevano deciso di formare un duo: lei aveva una bellissima voce, oltre agli anni di esperienza al seguito del padre e lui aveva un carattere buffo, un talento comico naturale e possedeva anche doti canore. Avevano un progetto che al momento stava miseramente naufragando.
Annina non ne poteva più e preso il braccio del fedele amico, lo strattonò: “Pasquali’, sono stanca, che ci facciamo? È un’altra giornata a vuoto. Voglio andare a casa, mio padre ha bisogno di me e se mi cerca e non mi trova si vede perduto. Mi devo rassegnare a tornare da donna Amelia a cucire i fiori di velluto e le piume sui cappellini delle signore ricche, ammazzarmi di stanchezza per le consegne. Speriamo solo che non sia troppo tardi. Lʼappiccico con Ninuccia, quella strega della sua aiutante, mi è costato due giorni di paga. Speriamo di poterci ritornare. Papà non sa nulla. Crede che io sia al lavoro. Sono due giorni che vaghiamo in cerca di una scrittura. Mi accontenterei anche solo di poter fare alcuni numeri di papà e tu saresti il mio aiutante, che dici? Ma niente… niente. E sono preoccupata per mio padre. Che gli racconto? Come potremo sfamarci? Speriamo solo che la signora Titina abbia parlato con donna Amelia. Ieri sera ha promesso che l’avrebbe fatto.” Pasqualino la guardò con i grandi occhi neri carichi di tristezza. Lui l’adorava, Annina. Erano amici sin dalla più tenera infanzia. Compagni di giochi, cresciuti insieme nel buio dei vicoli del Mercato. Giocavano per strada a strummolo e a mazza e pivezo, almeno lì si stava meglio che nelle stanze strette e soffocanti dove dormivano gli uni sugli altri. Pasqualino, orfano e senza fissa dimora, viveva della carità altrui, ospitato ora da un amico, ora da un conoscente. Spesso la madre di Annina, che Pasqualino venerava come la sua stessa madre, l’aiutava aggiustandogli una coperta per la notte in qualche angolo della casa loro. In questi frangenti la sua felicità era alle stelle perché poteva essere più facilmente accanto ad Annina. Da quando Estrelita era morta non aveva osato chiedere ospitalità a quella gente: per timidezza, per scuorno – diceva a se stesso – anche se l’amicizia con Annina non si era mai interrotta ma, anzi, rafforzata col passare degli anni. Annina era la sua dea, l’idolo da contemplare. Pasqualino era brutto, fili- forme e gibboso, con un naso che gli deformava il viso, con l’unico vezzo di essere un campione al gioco dello strummolo e per questo tutti gli avevano affibbiato il nomignolo di Strummillo.
Tutti tranne Annina e quel dottore svedese, il dottor Munthe, che aveva attraversato Napoli come una meteora ai tempi del colera dell’84, diventando per lui un angelo custode, un benefattore col quale era rimasto in contatto. Il dottore non lo aveva abbandonato: prima di andare via, aveva provveduto ad intestargli dei soldi per toglierlo dalla strada e dargli un minimo d’istruzione in uno di quegli Istituti assistenziali creati apposta per gli indigenti, dove aveva trascorso gran parte del suo tempo di quegli ultimi anni, anche se l’indole scugnizza aveva poi prevalso facendolo allontanare, infine, dalla casa assistenziale. Però durante il periodo in cui ne era stato ospite aveva imparato a scrivere al dottore per informarlo costantemente dei suoi progressi, della sua vita e che sperava di rivederlo.
Sapeva che Munthe desiderava trasferirsi in queste zone. Rispondeva alle sue lettere affermando che presto l’avrebbe fatto, sarebbe tornato nei luoghi che tanto amava.
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Delia MOREA, nata a Napoli nel 1952, è giornalista pubblicista e ha collaborato con svariate testate giornalistiche, specializzandosi in critica teatrale. Ha scritto diversi saggi tra cui: Vittorio De Sica. L’uomo, l’attore, il regista (Newton & Compton). Ha scritto e messo in scena il monologo Mi chiamo E. e ideato la piéce Tracce di filo spinato nel cuore. Ha vinto ex equo la II edizione (2002) del Premio di narrativa “Anna Maria Ortese” con il racconto Ombroso Raggio pubblicato nell’antologia Le Notti (Empirìa, 2003). È stata finalista dell’edizione 2004 del Premio “Napoli Drammaturgia Festival” con il monologo La moglie. Quelli che c’erano è il suo primo romanzo.
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