In esclusiva per Letteratitudine pubblichiamo un estratto del romanzo LA FABBRICA DEI CATTIVI, di Diego Agostini (Giunti, 2013)
La scheda del libro
Stati Uniti: andata e ritorno. Dove si può imparare che in nome della giustizia un innocente diventa colpevole. Una sosta in un centro commerciale per comprare una maglietta pulita e asciutta dopo l’ennesimo acquazzone perché d’estate in Florida piove in continuazione. Intanto la figlia più piccola, Giulia, si è appena addormentata: è scatenata e iperattiva e i suoi sonni così profondi le servono per ricaricare le energie che brucia ed esaurisce da sveglia, così, come suggerisce il pediatra, è meglio lasciare che si svegli da sola. L’auto è parcheggiata proprio davanti alla vetrina del negozio, è questione di un attimo, non può succedere nulla. E invece di colpo tutto precipita perché, senza saperlo, Alex e Mara hanno contravvenuto a una legge dello Stato. Il detective Strate prende le cose talmente sul serio da alterare prove e testimonianze. Si scatena il finimondo. Un’assistente sociale porta via i loro due bambini. I genitori rischiano una pesante condanna per abbandono di minore e la conseguente perdita della potestà genitoriale. Cosa succede quando un “buono”, un padre e un marito affettuoso, un professionista responsabile e, soprattutto, un uomo innocente, sperimenta l’impotenza di fronte a un meccanismo repressivo incomprensibile? Il travolgente racconto di Alex si trasforma nella personale esperienza di come, in una perversione giuridica compiuta in nome della giustizia, la società abbia bisogno di una “fabbrica dei cattivi”.
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Un estratto del romanzo LA FABBRICA DEI CATTIVI, di Diego Agostini (Giunti, 2013)
Le sue domande sono incalzanti, aggressive. E me ne pone molte senza aspettarsi una risposta perché il loro scopo è un altro, non la raccolta d’informazioni. «Lo sai che temperatura c’era?», «Lo sai quanto ci vuole per morire sotto il sole?», «Lo sai cosa può succedere se lasci un bambino da solo in un centro commerciale?»
In psicologia della comunicazione vengono definite domande chiuse orientate perché prendono arbitrariamente una parte della realtà e richiedono semplicemente una conferma, senza alcuna elaborazione. In breve, la risposta è già compresa nella domanda. E una volta messe insieme le risposte parziali, quella che emerge è una lettura distorta, falsata e manipolata della situazione. Non sono domande che vengono utilizzate per cercare la verità, per fare chiarezza, per capire – servono solo per mettere l’altro con le spalle al muro. Non sai neanche se rispondere o meno, perché vieni messo in una situazione paradossale. Dare una risposta, che comunque è del tutto ovvia, significa avvalorare la tesi dell’accusatore. E se invece rispondi in modo diverso, dai all’altro l’occasione di correggerti. In un modo o nell’altro, tu hai perso e lui ha vinto in partenza. Già, perché la persona che fa le domande può imporre la sua visione dei fatti. In psicologia della relazione si chiama situazione a doppio legame, la più terribile che si possa creare fra due interlocutori. In sostanza è una trappola da cui non hai scampo: qualsiasi tua mossa è perdente, qualunque risposta è sbagliata. Perché il vero scopo non è la ricerca d’informazioni, ma piuttosto l’affermazione di un ruolo, la dimostrazione del potere indiscutibile di chi pone le domande. E qui le domande le può fare solo lui, perché lui è il detective. È il suo lavoro. Lui si prende il ruolo del gatto, e dunque a me non rimane che assumere quello del topo.
Questo è il primo, duro attacco alla mia autostima. E funziona. Funziona eccome. Il fatto di conoscere la teoria di certe dinamiche non mi protegge nel modo più assoluto, mi sento malissimo comunque. Conoscere la teoria è una cosa, affrontare la pratica un’altra. E la pratica, in questo momento, è che il rappresentante dell’autorità mi sta facendo notare, tutt’altro che gentilmente, che ho messo in pericolo la vita dei miei figli. Che sia vero o no non importa più, e anche questo fa parte della pratica. La verità non ha più alcuna rilevanza, ciò che conta è la versione dei fatti raccontata da quanto accade attorno a me. È lo spiegamento di forze che si è mobilitato per l’occasione che determina cos’è successo, non il contrario. Vince una prospettiva ribaltata: se sono intervenute quattro macchine della polizia allora è stato commesso un crimine grave. E io sono l’accusato, con i miei figli come parte lesa. È un colpo basso che non mi aspettavo e che per questo mi fa ancora più male.
Cerco di recuperare la fiducia in me stesso, almeno un po’, cerco di aggrapparmi alle mie capacità comunicative, che però sono fiaccate, ridotte ormai al minimo. Chiedo al detective di ripetermi il suo nome. Quando si è presentato, poco fa, mi è sfuggito. Devo riuscire a costruire un minimo di rapporto, devo fare il possibile per instaurare un dialogo che in qualche modo riporti equilibrio in una situazione sempre più sbilanciata. Temo di risultare patetico come quel personaggio che, in Pulp Fiction, quasi balbettando chiede il nome a un Samuel L. Jackson già estremamente minaccioso, il quale gli risponde in tono ancora più spietato: «Mi chiamo Jerda, e non è con le chiacchiere che uscirai da questa merda». Ma ci provo lo stesso. E a quanto pare funziona.
Il detective si mostra più disponibile mentre mi dice come si chiama. Strate, o almeno così capisco io. «Stammi a sentire, Strate» gli dico. «Io non sono un criminale. Non c’è bisogno di trattarmi come se lo fossi. Non c’era bisogno di chiudermi per più di due ore nella macchina dello sceriffo.» Sembra ascoltarmi. Segue un breve silenzio, poi lui, più calmo, comincia a farmi qualche domanda finalmente orientata a raccogliere informazioni, si direbbe. Ma in realtà la sua posizione è presa, irreversibilmente. Con l’aggressività che ha usato prima, la situazione ha assunto una direzione ben precisa, le sue domande pre-giudicanti mi hanno affibbiato la veste dell’infame e questo non si può cambiare. Il clima ora è più disteso, ma il fossato che divide noi e i nostri ruoli è stato scavato, ed è profondo. Ora lui non solo è il Capo Indiscusso, ma è anche il Buono. E io non solo sono in una posizione di debolezza, molto peggio: mi trovo schierato automaticamente dalla parte opposta. Quella del Cattivo.
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