IL CASTELLO DEI DESTINI INCROCIATI, di Italo Calvino
Il puzzle dell’immaginazione. Il castello dei destini incrociati.
Italo Calvino, Einaudi 1973.
di Erica Donzella
Quando ci si mette in bocca il nome di un grande autore come Calvino il rischio è pur sempre quello di avanzare teorizzazioni approssimative su uno dei più complessi scrittori della nostra tradizione letteraria. Con non poca disattenzione, spesso, la letteratura paga il pegno delle “opere più famose”, senza tracciare una linea parallela fuori dal raggio d’azione della conoscenza condivisa e di massa, la stessa che storcerebbe le narici per la dubbia legittimità pragmatica dell’associare un mazzo di tarocchi a una struttura letteraria.
Il castello dei destini incrociati, pubblicato da Einaudi nel 1973, è l’ultima opera che diede alla luce Italo Calvino, con non poche perplessità e ansie da parte dell’autore, per via di una genesi travagliata e per la tessitura complessa dell’intreccio narrativo. L’idea fu quella di adoperare i tarocchi come una macchina narrativa combinatoria, in un gioco quasi del tutto innocente dello stesso autore che, spinto da una curiosità quasi fanciulla nel lasciarsi trasportare da un iconologia immaginaria, riporta la dimensione della scrittura ad un piano di ludica genialità, abbozzando e incastrando probabilità di grande combinazione stilistica e sintattica.
Calvino guarda i tarocchi con attenzione, con l’occhio di chi non sa cosa siano, e ne trae sensibilmente suggestioni e libere associazioni, interpretandole soggettivamente con chiari richiami a quella letteratura di repertorio medieval-rinascimentale che fa eco al Decameron e all’Orlando Furioso. Ci troviamo dinanzi a sistemi semiotici – quindi di lettura a più livelli di un testo – che s’intersecano immaginificamente nella mente del lettore, che coagulano per istanti chiari (grazie alle miniature a margine della pagina) semio-sfere di diversa natura – la narrativa e l’immagine – per poi dissolversi in un passaggio rapido da una singola carta ad un’altra, da un racconto ad una visione, al dubbio che l’incastro di ogni storia sia stato, in realtà, perfettamente studiato in ogni singola virgola, pausa e metafora.
“Così passavo giornate intere a scomporre e ricomporre mio il puzzle, escogitavo nuove regole del gioco, tracciavo centinaia di schemi […], e gli schemi diventavano così complicati che mi ci perdevo io stesso”.
Il castello dei destini incrociati rappresenta un archivio-labirinto di idee accumulate e stratificate successivamente in interpretazioni iconologiche, d’intenzioni narrative e impostazioni stilistiche.
Quello di Calvino è un linguaggio onirico, astratto ma concentrato sulla fitta trama di segni che si ritrova a scoprire tra il mazzo di carte, con la sapienza di procedere nel tentativo di star raccontando una “segnaletica liturgica, oracolare e inafferrabile”, come scrive Giorgio Manganelli nella postfazione. Un libro affascinante – dunque – per il lettore che inclina lo sguardo verso l’estasi della struttura e tende ad una polivalenza della parola, del suo significato convenzionale, in un viaggio indefinito destinato ad un’ascetica conclusione.
© Letteratitudine
LetteratitudineBlog / LetteratitudineNews / LetteratitudineRadio / LetteratitudineVideo
Mi piace:
Mi piace Caricamento...
Correlati