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Nascita di una rivista: Diacritica

marzo 16, 2015

Nascita di una rivista: Diacritica

Intervista a Maria Panetta

a cura di Claudio Morandini

Il bimestrale “Diacriticaè una nuova rivista letteraria online che, sotto la direzione di Domenico Renato Antonio Panetta, si occupa prevalentemente di filologia, critica letteraria e storia dell’editoria. Per conoscerne meglio gli obiettivi abbiamo rivolto qualche domanda a Maria Panetta, fondatrice della rivista assieme a Matteo Maria Quintiliani.

– Il primo numero di «Diacritica» mi pare animato insieme da rigore metodologico e da autentica passione. Mi pare anche di capire che sia qui una delle differenze, forse la più importante, sia rispetto alla babele di contributi di ispirazione letteraria sul web sia rispetto alla trattatistica di stampo puramente accademico. Sei d’accordo?
Mi fa molto piacere che si percepisca così nettamente quali sono i nostri principi ispiratori. «Diacritica» vuole, infatti, essere prima di tutto una rivista scientifica, e per questo si è dotata di un apposito Comitato di studiosi (tra cui Valeria Della Valle, Alessandro Gaudio, Matteo Lefèvre, Italo Pantani, Paolo Procaccioli, Giuseppe Traina), alcuni strutturati (ordinari, associati e ricercatori universitari) e altri che insegnano da anni a contratto presso vari atenei e hanno ottenuto l’Abilitazione Scientifica Nazionale del 2012. Il rigore metodologico di cui dovremmo essere garanti si sposa, però, come sottolinei, anche con le passioni di ognuno di noi: la letteratura e la lingua italiana, la filologia, la critica letteraria e la storia dell’editoria, la comparatistica e la traduttologia etc.
Del resto, è proprio per passione che è nata l’idea di fondare un periodico. Personalmente, erano anni che meditavo di lanciare un’iniziativa in campo editoriale: dopo una tesi di dottorato di ricerca in Italianistica su tutta l’attività di Croce editore e fondatore di collane editoriali (monografia uscita nell’Edizione Nazionale delle sue Opere), ho lavorato come ufficio editoriale e stampa presso le Edizioni di Storia e letteratura, e per qualche mese come redattrice esterna della romana Salerno; sono stata, inoltre, docente di “Giornalismo culturale” e dal 2008 insegno “Storia dell’editoria” per lo stesso Corso di laurea magistrale (“Editoria e scrittura”) presso il quale avevo conseguito una seconda Laurea in “Gestione dell’impresa editoriale”: puoi ben dedurre quanto il mondo degli editori mi abbia sempre affascinato!

 

– Quando ti è venuta l’idea della rivista? E come mai i suoi fondatori sono due?
Ho trovato l’entusiasmo necessario per intraprendere davvero questo percorso nel 2013, quando Matteo Quintiliani e io ci siamo conosciuti a un Congresso dell’ADI (l’Associazione Degli Italianisti): a parte la sintonia dal punto di vista umano, ci siamo resi subito conto di essere accomunati prima di tutto dalla passione per la filologia. Matteo è un quattrocentista della “scuola” di Italo Pantani, addottorato all’Università di Durham e specialista della storiografia letteraria inglese sul Rinascimento italiano, ma anche grande lettore di poesia e conoscitore della letteratura sudamericana, portoghese, balcanica etc., nonché collezionista di libri e appassionato di rarità bibliografiche. Discutevamo spesso di questioni filologiche inerenti la sua tesi di dottorato sul senese Bernardo Ilicino o la mia edizione critica della Velia di Cicognani e, pian piano, abbiamo iniziato a pensare a un progetto comune, condensatosi prima di tutto intorno alla realizzazione di edizioni critiche di testi inediti o da ripubblicare. Si sono subito aggiunti al nucleo iniziale del progetto i nostri interessi per la critica letteraria e per la storia della stampa; poi, con l’ingresso nel Comitato scientifico di Matteo Lefèvre (ispanista dell’Università di Tor Vergata e fine traduttore dallo spagnolo, nonché valido studioso di petrarchismo e non solo), si è affiancata la volontà di dedicare attenzione anche alle traduzioni e, dal punto di vista teorico, alla traduttologia.
Per tornare alla tua prima domanda, comunque, penso che ci accomuni alle riviste accademiche la volontà di lavorare con rigore e disciplina (che non animano proprio tutti i blog letterari, indirizzati anche a un altro tipo di lettore e ‒ opportunamente ‒ caratterizzati spesso da taglio e contenuti più “leggeri”), ma non me la sentirei di parlare, per le riviste scientifiche, di scarsa passione, dato che chi fa questo lavoro è, di norma, animato da un autentico interesse: di certo, però, noi abbiamo scelto una formula particolare, perché non dipendiamo da nessun ateneo, e dunque forse possiamo permetterci qualche libertà in più rispetto a una classica rivista di Dipartimento.

 
-Volendo semplificare (spero non troppo): a quale tipo di lettore si rivolge «Diacritica»?
La nostra vocazione “scientifica” ci fa rientrare sicuramente nell’etichetta di pubblicazione “di nicchia” (so, ad esempio, che il mio lungo articolo sulle varianti della Velia è pressoché illeggibile per i lettori non specialisti!); però, come sai, abbiamo deciso di “aprire” anche a estratti e capitoli di tesi di laureati o dottorandi brillanti e, soprattutto, di offrire la possibilità a chiunque di inviare recensioni, purché siano in linea con il nostro principio di voler ripristinare l’originaria funzione della recensione stessa: una guida per orientarsi nella selva di pubblicazioni che ormai escono ogni giorno, e non soltanto una forma di pubblicità di determinati “prodotti” da parte di critici “amici”…
Direi che la sezione “Recensioni” ambisce a essere letta da qualsiasi appassionato di letteratura; quella dedicata a “Inediti e traduzione” può attrarre lettori di poesia, anche se non specialisti; i pezzi di taglio didattico della sezione “Strumenti” possono essere utili anche per studenti universitari o a scopo divulgativo. In conclusione, penso che i nostri lettori-tipo possano essere diversi: dallo studioso accademico allo specialista, dal lettore colto allo studente curioso, dall’appassionato di poesia al cultore della letteratura italiana…

 

– L’editoriale di Domenico Panetta, Le ragioni di una presenza, insiste sulla necessità di «essere culturalmente e pienamente presenti» per contribuire a ragionare sul momento di crisi (non solo editoriale) e di profondo malessere e sulla complessità contraddittoria del mondo attraverso gli strumenti più aggiornati e senza scorciatoie e facilonerie.
Sì. Come avrai immaginato, il nostro Direttore responsabile è mio padre, giornalista pubblicista da 53 anni (ha scritto sul «Fiorino», sulla «Gazzetta del Mezzogiorno», sul «Tirreno», sul «Giornale d’Italia» etc.), ex professore di Diritto ed Economia dell’Istituto tecnico-commerciale “Duca degli Abruzzi” di Roma e docente di “Scienze sociali” presso la Pontificia Università San Tommaso d’Aquino fino al 2003. Ha pubblicato monografie e articoli sull’economia della famiglia, sulla legislazione scolastica, sul diritto internazionale e la legislazione sociale, e, per svariati anni, ha tenuto la rubrica di “Economia” di «Idea», nota rivista fondata nel 1945 dall’antifascista Monsignor Pietro Barbieri e, nei suoi ultimi anni, diretta dal critico d’arte Giuseppe Selvaggi, purtroppo scomparso.
Da tempo, mio padre è in pensione ma, quando gli ho parlato del mio progetto e gli ho chiesto di diventare il nostro Direttore, per tutta risposta ha subito iniziato a ideare il suo primo Editoriale. Questo per dire che, nonostante l’età, la sua curiosità verso il mondo attuale e i cambiamenti in atto è rimasta immutata nel tempo: la sua volontà di presenza attiva e incisiva è la stessa di 50 anni fa. Sebbene non sia bravissimo a navigare in Internet, ha capito immediatamente, con la lungimiranza che lo ha sempre caratterizzato, che la Rete è uno strumento potentissimo di condivisione delle informazioni e delle conoscenze e che ha un potenziale pressoché illimitato nella capacità di abbattere le barriere culturali fra i popoli e le diverse civiltà. Col suo inguaribile ottimismo, ritiene che non si possa non cogliere l’occasione offerta dal Web di contrastare costruttivamente questa ondata di scoramento e disillusione che pervade il mondo attuale, in perenne crisi. La crisi, infatti ‒ concordo ‒, deve rappresentare un momento di crescita, di messa in discussione dei vecchi approcci e anche delle conoscenze ormai consolidate; dev’essere trasformata in opportunità, con la partecipazione attiva del singolo a un cambiamento che avrà ricadute su tutta la collettività…

 

– Quindi, «Diacritica» è anche una rivista militante?
Sì: vi accenniamo nel Programma, col riferimento alla freccia rossa che taglia trasversalmente la “D” del marchio. In questo senso, mio padre stesso ha compreso profondamente la mia esigenza di prendere parte attiva al rimodellamento della società di domani: sono convinta che anche una rivista letteraria possa avere un ruolo importante e incisivo in tal senso, essendo la Filologia maestra di Verità e di rigore, l’Ermeneutica un veicolo di diffusione dello spirito critico, la Storia dell’editoria un’efficace chiave di lettura anche del mondo politico di oggi (specie in Italia, ove sappiamo che la situazione è singolare rispetto ad altri paesi…). E, ancora: la Comparatistica un sistema per confrontarsi con l’Altro, col Diverso, e rintracciare tradizioni culturali comuni, valorizzando le specificità proprie di ogni cultura, che non possono che arricchire il bagaglio collettivo di conoscenze condivise; infine, l’Interdisciplinarità un metodo per colmare l’apparente divario esistente tra humanae litterae e cultura scientifica e per “rintracciare Dio”, in senso lato (passami l’espressione), in ogni particella del creato, in ogni dettaglio. Ovviamente, cercando di non perdere mai la visione d’insieme delle cose.

 

– Nel primo numero di «Diacritica» ti occupi personalmente delle varianti de La Velia di Cicognani. L’approccio è squisitamente filologico, l’intenzione (condivisibilissima) è apertamente quella di fare riscoprire la complessità e la ricchezza linguistica di un autore ormai messo da parte. Qual è, secondo te, il destino della ricerca filologica oggi? Quanto è cambiata in questi ultimi anni? Qualcosa ne sta minando le basi?
Come ti dicevo, secondo me la Filologia è ancora utilissima, specie nell’epoca odierna, dominata dal pressappochismo e dalla tendenza a banalizzare spesso i contenuti, magari senza semplificarli realmente, rendendoli davvero accessibili. È una disciplina che insegna il rigore, appunto, e una tensione verso la massima approssimazione possibile alla Verità, intesa come il testo più vicino alla volontà autoriale. Insegna, inoltre, il rispetto per gli altri: personalmente, ho avuto due punti di riferimento in quest’ambito. Oltre alle indimenticabili lezioni del mio Maestro Mario Scotti, dotto filologo e insieme critico raffinatissimo, l’ultimo anno dei miei studi universitari seguii il corso di Filologia italiana di Giorgio Inglese. Uno dei suoi insegnamenti che meglio ricordo ha guidato le mie scelte sia nella realizzazione dell’edizione critica del Carteggio tra Croce e Papini, sia in quella della Velia: il criterio di rendere sempre possibile al lettore la ricostruzione del ragionamento attraverso il quale il filologo arriva a definire un testo e a proporlo al pubblico. Lo trovo un insegnamento di grande valore etico; implica una considerazione (che condivido) di sé come “operaio della conoscenza” (come si definivano certi collaboratori della «Critica» di Croce), al servizio del progresso della stessa e, dunque, ben lieto di contribuire anche al proprio “superamento”, in vista di un avvicinamento ulteriore alla Perfezione (che resta, comunque, una chimera).
Per rispondere anche alla seconda parte della tua domanda, di certo oggi la Filologia è, da un lato, molto aiutata dalla tecnologia; dall’altro, ostacolata. Se pensiamo, per esempio, al fatto che ormai le varianti dei testi contemporanei vengono registrate spesso solo su supporti digitali (e non su carta) e se ne perdono sovente le tracce, capiamo che soprattutto la cosiddetta (ironicamente) “critica degli scartafacci” viene ostacolata, e non certo coadiuvata, dall’uso del computer. Molti materiali che su carta (o pergamena) sono rimasti a disposizione dei filologi per secoli adesso, infatti, si perdono nelle memorie dei computer, se conservati solo su tali supporti. Giorni fa, leggevo un intervento di Vinton Cerf, vicepresidente di Google, che mi ha molto colpito: uno struggente invito a stampare le foto più significative e importanti, per non perderle per sempre nel buco nero dell’informazione digitale…

 

– Qual è insomma il rapporto della filologia con la Rete?
A mio parere, comunque la Filologia può sfruttare molto le risorse dell’online: la nostra intenzione, ad esempio, è proprio quella di divulgare e rendere accessibili a studiosi e lettori di ogni parte del mondo, in edizione critica, testi inediti di valore estetico o documentario che non sono mai stati studiati, se non da qualche specialista, nel migliore dei casi. Caricati sul nostro sito (www.diacritica.it), in un “clic” certi documenti sinora sconosciuti arriveranno fino ai confini del nostro mondo e saranno consultabili con estrema facilità e agio da chiunque, ovunque. Con conseguenze sull’ampliamento delle nostre conoscenze attuali neanche immaginabili.

– Trovo molto interessante anche l’attenzione per il mondo editoriale, condotta con il rigore del metodo storico-scientifico. In effetti di editoria si parla spesso e ovunque, ma troppo sovente si rimane a un approccio, come dire, da gossip…
Come ti dicevo, sono un’italianista prima che una storica dell’editoria; questo approccio (che ritrovo, ad esempio, nei volumi di Alberto Cadioli) si differenzia sia da quello più leggero cui fai cenno, sia da quello di tipo biblioteconomico o archivistico, sia in parte dall’approccio sociologico puro. L’idea è quella di ricondurre la storia delle edizioni di libri a quella culturale in senso lato, sottolineando il contributo che gli intellettuali hanno dato in qualità di mediatori editoriali, ma ognuno in relazione alle proprie idiosincrasie, alla propria poetica, al proprio concetto di letteratura, alla propria volontà di incidere sulla società. Personalmente, sono anche molto interessata ai diversi linguaggi e, dunque, alle trasposizioni delle opere letterarie in sceneggiature di film, testi teatrali etc. L’approccio storico, comunque, resta fondamentale anche nello studio della nascita delle diverse collane editoriali, latrici ognuna di un più o meno palese e consapevole progetto culturale.

– Come intendete muovervi per i prossimi numeri di «Diacritica»? Ho notato che sono previste uscite per il 25 aprile e il 25 giugno (date non casuali, “parlanti” per così dire)…
Sì, lascio a te ricostruirne il motivo, ma anche la scelta di uscire il 25 febbraio non è casuale (ed è stata fortemente voluta dalla sottoscritta!)… Abbiamo in mente dei numeri parzialmente tematici (specie nella sezione di critica letteraria) su questioni e anniversari rilevanti (quest’anno ne è particolarmente ricco!). Per il resto, ci saranno sempre saggi, edizioni e articoli miei e di Matteo Quintiliani e, poi, valuteremo le proposte che ci arrivano.
Penso, però, in linea di massima, di adottare il criterio del doppio referee solo per giovani studiosi che non conosciamo bene o per tematiche nelle quali non siamo esperti, visto che ritengo che quello in vigore oggi nella prassi delle riviste scientifiche sia un “eccesso di valutazione” (altra cosa è, invece, la valutazione quantitativa e qualitativa della produzione scientifica degli strutturati, che percepiscono stipendio, ovviamente). Mi spiego meglio: uno studioso che insegna da anni presso vari atenei, ha già prodotto libri o edizioni pregevoli, magari ha superato un concorso nazionale ottenendo l’Abilitazione Scientifica, dovrà essere sottoposto a valutazione per l’eternità? Non so quanto sia giusto… Se lo stimo, leggerò il suo articolo e lo accetterò, magari dopo avergli mosso qualche obiezione amichevole o avergli chiesto delucidazioni su passaggi che non mi sono chiari, ma resto dell’opinione che la firma di un articolo comporti un’assunzione di responsabilità. Casomai, si potrà ribattere in seguito alle idee altrui, discutendo civilmente come si era usi fare, ad esempio, al tempo delle dottissime recensioni degli studiosi della Scuola storica.
Capisco che in un momento di crisi economica la valutazione assolva anche all’utilità pratica di ridimensionare il numero di coloro che ambiscono a entrare in Accademia (o nella scuola, secondo le ultime proposte di riforma…), ma trovo ingiusto che essa debba essere perenne: anche perché a volte si possono presentare dei casi paradossali in cui studiosi stimati e accreditati ma non strutturati debbano essere valutati, magari, dal ricercatore appena entrato, con un libro, per una congiuntura favorevole…

Un’ultima domanda: leggo che intendete retribuire ogni articolo che pubblicherete.
Sì: per ora la cifra è simbolica, ma speriamo di far crescere il progetto. Qualcuno, però, ha già commentato che si tratta di una novità “rivoluzionaria”, perché le riviste del nostro settore non usano retribuire gli studiosi che vi collaborano occasionalmente. Ed ecco il secondo paradosso: può pubblicare su una rivista scientifica solo uno specialista altamente qualificato ‒ sempre dopo aver superato il “fuoco incrociato” dei vari revisori (s’intende) ‒, ma tale professionalità non comune non viene, in seguito, riconosciuta che in maniera formale. Pare che un esperto di letteratura debba per anni alimentarsi d’aria, accontentandosi solo del titolo che ogni pubblicazione costituisce per i concorsi; però, certe riviste vengono acquistate tramite abbonamento o finanziate con fondi pubblici o privati…
Per ora, il nostro intento è quello di permettere a chi scrive per noi di poter almeno ottenere il tesserino da pubblicista. In seguito, speriamo, invece, di poter contribuire a ridare dignità al lavoro intellettuale, riconoscendogli, in un mondo come il nostro dominato dai poteri finanziari ed economici, un valore anche quantificabile in tal senso.

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