LUCIANO FUNETTA racconta il suo romanzo DALLE ROVINE (Tunué) – tra i dodici libri candidati al Premio Strega 2016

di Luciano Funetta
Sono passati quasi cinque mesi dalla pubblicazione di Dalle Rovine. Questo, a conti fatti, è l’unico periodo di vita del libro che posso condividere con chi lo ha letto e con chi (forse) lo leggerà. Dico questo per una forma di pudore e di nostalgia che provo nei confronti dei quattro anni che hanno preceduto l’uscita del romanzo per Tunué. La vita del manoscritto riguarda il suo autore – e quelle persone di solito fidate, pazienti e amorevoli che scelgono di restargli accanto negli anni in cui, in effetti, l’autore non sa nulla e la sua consapevolezza è un raffreddore al cospetto della sua tenacia che è, in proporzione, la peste nera – mentre la vita del libro stampato e pubblicato appartiene ai lettori, ovvero a coloro che posseggono l’esclusiva dell’esperienza. Nel momento in cui un romanzo arriva alla pubblicazione, chi lo ha scritto si rende conto di essere un miserabile, perché all’improvviso, dopo un’abbuffata di libertà (quella della scrittura), deve farsi carico della responsabilità di ciò che ha scritto. In altre parole, è costretto a svegliarsi di notte in preda a violenti spasmi gastrici, a inginocchiarsi davanti allo specchio del bagno e implorare pietà per essersi ingozzato impunemente: «Dio mio, che ho fatto! Sono stato così libero e stupido!».
Eppure, nonostante le atroci sofferenze e l’insonnia, c’è qualcosa di molto dolce in fondo a una notte di indigestione: la fine dell’indigestione. E soprattutto, e qui torniamo all’autore responsabile, c’è qualche lettore che con commovente timidezza azzarda una telefonata o una mail, e le parole di quei pochi lettori insicuri non portano domande, ma solo una minuscola forma di gratitudine, parola grassa e intestinale che forse andrebbe sostituita con la parola solidarietà. Allora, nel corso di queste brevi aurore, chi scrive e viene pubblicato e viene letto prova a sua volta gratitudine – che in questo caso diventa una parola lieve come una rondine – e sente di non essere stato libero invano.
Questa scoperta (sta per tornare l’io, come richiesto dalla gentile redazione di «Letteratitudine») mi porta ogni volta a desiderare di tornare a scrivere in libertà, come se non avessi mai scritto niente né assaggiato il pane alla mensa dell’editoria, come quel pomeriggio in cui mi trovavo da solo in una tremenda casa bolognese, in cui abitavo con la ragazza che sarebbe diventata mia moglie e con uno degli amici più cari che ho, il mio amico più antico, e iniziavo a scrivere di un uomo che avrei chiamato Rivera e dei suoi serpenti, del suo amore e degli individui che, incuriositi e affascinati dall’amore, avvicinano Rivera e lo spingono a guardare, ad ascoltare, a percorrere numerose piste fantasma, sentieri che, come ho letto di recente nell’introduzione all’edizione italiana di C’era un frutteto di Zulawski, «al lettore forse appaiono ciechi, quanto invece per lo scrittore sono misteriosamente intriganti». Alcune di queste piste sono tracciate dalle vite degli uomini e delle donne che Rivera incontra, dal loro passato, e conducono, va da sé, all’incubo, o meglio a numerose incarnazioni dell’incubo. Nel romanzo vengono evocati incubi privati e incubi storici, vecchi amori che sono cadaveri, leggendarie età dell’oro sgretolate dal tempo, opere d’arte maledette e spettri, molti spettri di vivi e di morti.
Mentre scrivevo la storia di Rivera senza sapere dove mi avrebbe condotto, avevo alle mie spalle la letteratura dei secoli passati, ma soprattutto, davanti a me, c’era tutta la letteratura dei prossimi secoli, una letteratura che, ahimè, non leggerò. Ecco, credo che il punto sia questo: scrivere con la consapevolezza di essere una nullità è la maniera che ho scelto per essere libero e dare forma a questa storia di uomini incatenati e fallaci, mostruosi, malinconici, e di un uomo puro e inconsapevole che non chiude gli occhi davanti a nessuna oscurità. Mi sentivo come Rivera, mentre affrontavo le pagine bianche: puro e stupido. Non esisteva ancora la necessità di apparire brillante nelle interviste, alle presentazioni o in altre occasioni pubbliche. C’eravamo io, la mia stupidità e le molte porte che avrei potuto aprire per dare un’occhiata, anche fuggevole, all’interno di stanze sconosciute e quasi sempre buie.
Il buio è quell’ecosistema in cui ha origine la fantasia che dà vita all’invenzione; e l’invenzione a sua volta di tanto in tanto si traduce, con buona approssimazione, in una forma scritta, in un racconto che decidiamo di non buttare via. In fondo tutto comincia come in Cold irons bound di Bob Dylan: quando si iniziano a sentire voci e intorno non c’è nessuno. Dalle rovine è questo: una storia d’invenzione, di desolazione, di persone che hanno vissuto seguendo profondamente solo se stesse. Poi ci sono i vicoli ciechi e l’amore, che, come tutte le cose cieche, tentano di evocare l’inaccessibile.
(Riproduzione riservata)
© Luciano Funetta
* * *
Il libro
Il collezionista di serpenti Rivera, grazie a un video amatoriale, entra in contatto con l’insolita e seducente scena della pornografia d’arte. Questa esplorazione si trasforma ben presto nella discesa in un abisso popolato da figure oscure, tra le quali spicca un argentino a dir poco enigmatico: Alexandre Tapia.
Proprio attraverso la frequentazione di Tapia, Rivera scoprirà un universo di abiezioni private e catastrofi collettive, vittime invisibili e carnefici rimasti impuniti.
La collana Romanzi Tunué, diretta da Vanni Santoni, si arricchisce di un’opera ipnotica e allucinatoria. Una storia di uomini che, come scriverebbe Vollmann, «rappresentano un incubo per se stessi», e che scelgono di sublimare le loro vite in un’ultima, sanguinaria opera d’arte.
Luciano Funetta, classse 1986, vive a Roma. Fa parte del collettivo di scrittori TerraNullius. Ha pubblicato racconti su WATT, Granta Italia, Costola e altre riviste.
È tra gli autori di Dylan Skyline – dodici racconti per Bob Dylan (Nutrimenti, 2015).
* * *
Mi piace:
Mi piace Caricamento...
Correlati