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VALERIO AIOLLI racconta LO STESSO VENTO

gennaio 11, 2017

VALERIO AIOLLI racconta il suo romanzo LO STESSO VENTO (Voland)

Un estratto del libro è disponibile qui

di Valerio Aiolli

ImmagineCi sono libri, anche corposi, che si scrivono in un soffio. A me capita di rado, ma è capitato. E altri, magari non lunghissimi, per i quali c’è bisogno di più tempo. A volte di molto tempo.
La prima cosa che si legge, aprendo Lo stesso vento, è una data: 23 dicembre 1999. È il momento in cui inizia la storia narrata nel libro, ma è anche il momento, più o meno, in cui il libro cominciò a essere scritto.
Nell’aprile di quell’anno era uscito il mio primo romanzo, Io e mio fratello. Raccontava, dal punto di vista e col linguaggio di un bambino di cinque anni, la vita e la morte all’interno di una famiglia fiorentina, afferrata e scossa dal boom economico degli anni ’60. C’erano personaggi immaginari, così come lo era parte della trama, ma non posso negare che quel libro avesse una forte radice autobiografica.
In quegli stessi mesi stavo scrivendo quello che sarebbe diventato il mio secondo romanzo, uscito poi due anni dopo: Luce profuga. Anche in questo caso, se l’intreccio e molti dei personaggi erano frutto di fantasia, l’ambiente fisico e sociale in cui era ambientata la storia li conoscevo bene per il fatto di viverci tutti i giorni, da più di dieci anni, nell’ambito del mio lavoro cosiddetto normale. E il protagonista aveva più di un aggancio con la mia persona.
Forse è inevitabile che sia così. Si scrive sempre di sé stessi, in qualche modo più o meno mascherato. Eppure in quel periodo sentivo la forte esigenza di staccarmi, dal punto di vista narrativo, da me. Volevo rendermi conto se fossi anche capace di raccontare storie e persone lontane dal mio mondo per estrazione sociale, esperienze, carattere, età, sesso.
L’occasione per far ciò mi venne offerta grazie a Laura Lombardi, un’amica storica dell’arte. Fu lei a chiamarmi e a chiedermi di partecipare con un racconto all’introduzione al catalogo di una mostra che avrebbe avuto luogo verso la fine di quel 1999 in una galleria di piazza Santa Croce, a Firenze.
Venni invitato allo studio del pittore, Gianni Cacciarini. Lo conobbi, mi furono mostrati i suoi quadri, fornite alcune fotografie che portai a casa.
Guardando quei dipinti, uno in particolare, sviluppai alcune riflessioni sui rapporti fra persone, oggetti e tempo che passa ma che in realtà – come dice Faulkner – non è mai “passato”. Mi vennero in mente un pugno di personaggi e una storia che li legava assieme. Personaggi a prima vista molto diversi da me – quello che cercavo –, uniti però in una trama articolata che si snodava per tempi lunghi, addirittura per svariati decenni. Una trama che coglieva i destini individuali in certi loro punti di snodo (l’inizio o la fine di un amore, la perdita di una persona cara, un blocco o uno sblocco esistenziale), mettendoli in relazione con momenti significativi della nostra storia recente: il momento dell’entrata in guerra, l’elezione di JFK, il Sessantotto, Vermicino visto alla tivù, il crollo del Muro di Berlino. L’intreccio a volte leggero, a volte stringente, fra vita privata e storia collettiva. Il tutto tenuto insieme da un oggetto che passa di mano in mano. Uno di quegli oggetti presenti nei dipinti di Cacciarini. Un ventilatore.
Mi resi conto fin da subito che quella roba era tanta, forse troppa per essere contenuta in un racconto di poche pagine. Sarebbe stato meglio distenderla in un romanzo. Eppure la sentivo in un modo così vivo, in quel momento, che non potei fare a meno di scriverlo quel racconto. Così mi misi lì, e lo scrissi. Lo intitolai, non ci voleva molta fantasia, Il ventilatore. Poi lo rilessi, lo corressi, lo consegnai. Come da accordi fu stampato all’interno del catalogo. Venne letto, commentato a voce o per lettera; poi dimenticato. La mostra ebbe il suo vernissage, rimase aperta per poco più di un mese, venne chiusa. Le opere vendute furono recapitate a chi le aveva acquistate, le altre tornarono allo studio dell’artista.
Passarono settimane, mesi.
Anni.
Ma quella roba, a differenza di ciò che mi accadeva di solito, non se ne andava. Ogni volta che, finito un romanzo, mi accingevo dopo diversi mesi a iniziarne uno nuovo, tornavo lì, a quella storia del ventilatore, a quei personaggi che mi sembravano starci stretti. Ci giravo intorno, provavo a punzecchiarli un po’, a farli muovere in uno spazio più ampio. Poi no, li rimettevo via, mi dicevo che ciò che avevano da darmi lo avevo già espresso nel racconto pubblicato sul catalogo, meglio passare ad altro.
E passavo ad altro.
Così, senza che davvero me ne accorgessi, il 1999 è piano piano diventato un bel po’ di tempo fa. E Fausto era sempre lì, a picchiettarmi con ostinata gentilezza l’indice sulla spalla per chiedermi di voltarmi, di guardarlo ancora una volta.
Fausto è il primo personaggio che entra in scena in questa storia. Mi chiamava, educatamente, ed era come se mi dicesse: «Io sono ancora vivo. Sono ancora qui. E non me ne posso andare fin quando non ti deciderai a concedermi un po’ del tuo prezioso – si fa per dire – tempo».
Ora. La faccenda dei personaggi che vengono a chiamare l’autore è trita, vecchia e rimasticata, lo so. Non si può più sentire. E allora, mettiamola così. Come ho già detto da qualche altra parte, io non scrivo un romanzo per raccontare una storia, ma racconto una storia in forma di romanzo per arrivare a conoscere (e magari a far conoscere anche ad altri) qualche cosa, qualche cosa che altrimenti resterebbe celata, non prenderebbe forma. Questo qualche cosa, quando comincio a scrivere, non ho idea di cosa sia. È solo che a un certo punto avverto il desiderio, l’impellenza di mettermi a scrivere. E cerco una storia e dei personaggi che non conosco ancora troppo bene per addentrarmici e scoprire, mentre scrivo, perché mi ci sto addentrando.
Questa storia e questi personaggi (oltre a Fausto c’erano Adriana, Vittorio e Francesca, il Professore, Peppe e Bianca, Guido e Andrea) erano lì, da anni, e non li conoscevo troppo bene. Dal mio punto di vista, erano materia potenziale di scrittura: roba preziosa.
Così un giorno, al millesimo picchiettio sulla spalla mi sono voltato davvero. Dopo tanti dinieghi, tanti rifiuti. Magari soltanto perché volevo che Fausto si togliesse di torno, e ci sta che avessi anche l’aria un po’ scocciata. Ma in ogni caso mi sono voltato.
E l’ho visto.
Dovrei dire che l’ho rivisto ma no, è stato un po’ come vederlo per la prima volta. Quando guardi sul serio qualcosa, o qualcuno, attivi un processo di conoscenza che non ha nulla a che fare con ciò che vi aveva legati fino a quel momento: persone, cose o idee si rivelano di forme e dimensioni quasi sempre impreviste e sorprendenti.
E tutto diventa vicino, personale, intimo. Presente.
Così ho potuto raccontare gli anni Quaranta di Fausto e Adriana, i Sessanta di Adriana e il Professore e poi quelli di Vittorio e Francesca. Gli anni Settanta di Peppe e Bianca e gli Ottanta di Guido e Andrea. Come se fossero lì, presenti. Quegli anni, e quei personaggi.
Ogni tanto mi fermavo. Mi prendevo delle vacanze. Scrivevo altri libri, altri racconti. Ma poi tornavo lì. Li guardavo di nuovo, li sentivo di nuovo presenti. E aggiungevo qualche altra decina di pagine, un altro mattone.
Volevo che fosse un libro che si leggesse d’un fiato, e che lasciasse nelle orecchie il rumore del vento, il sapore di una lunga giornata di mare, un pugno di vite viste da lontano, eppure da così vicino. E che in qualche modo esprimesse ciò che di indicibile, di misterioso e di irraggiungibile c’è in ognuna delle nostre vite.
Ora a me non mi chiamano più, tutti loro. (Perdonatemi “l’a me mi”: in questo caso ci vuole). Se invece sarà anche solo qualcuno dei lettori a sentirsi qualche volta chiamare, via via, vorrà dire che non avrò sprecato tutto il tempo che ho dedicato a comporre questo in fondo breve romanzo.

PS: Lo stesso vento prende il via da un ventilatore contenuto in un dipinto, e a un certo punto racconta come – attraverso l’acquisto che il pittore Guido fa in un mercatino di cose vecchie – quel ventilatore sia finito in quel dipinto. Bene. Un paio di mesi dopo la pubblicazione del libro, un amico ha scovato in un mercatino di cose vecchie una litografia di Gianni Cacciarini (l’artista “vero” da cui tutto è iniziato) che raffigurava esattamente quel dipinto col ventilatore. Ora quella litografia è appesa alla parete di fronte alla mia scrivania.
A suggerirmi che un cerchio si è chiuso? O che il vento, in fondo, non si ferma mai?

(Riproduzione riservata)

© Valerio Aiolli

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Il libro

Firenze, 1940. Fausto è apprendista operaio, Adriana la figlia sedicenne di un piccolo borghese dalle simpatie fasciste. Dopo la fine della guerra sognano di sposarsi e trasferirsi in Germania. Una sera lui le fa un regalo inusuale: un ventilatore prodotto nella fabbrica in cui lavora. Superata l’iniziale delusione di Adriana, l’oggetto diventa il simbolo dell’inizio della loro vita insieme. Lo stesso vento è la storia di Fausto e Adriana, ma anche di Peppe e Bianca, di Vittorio e Francesca, di Guido e Andrea, tutti legati dal ventilatore, che passa di mano in mano acquistando significati differenti e inserendo i vari personaggi in una stessa mappa narrativa. Con stile asciutto ed evocativo, attraversando gli eventi topici del ’900 (la Seconda guerra mondiale, il ’68, la caduta del Muro di Berlino), il romanzo racconta la sgangherata geometria dei rapporti umani.

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Valerio Aiolli è nato nel 1961 a Firenze, dove vive. Ha esordito nel 1995 con la raccolta di racconti Male ai piedi. Il suo primo romanzo, Io e mio fratello (e/o, 1999), è stato tradotto anche in Germania e Ungheria. Sono seguiti Luce profuga (e/o, 2001), A rotta di collo (e/o, 2002), Fuori tempo (Rizzoli, 2004), Ali di sabbia (Alet, 2007) e nel 2014 Il sonnambulo (Gaffi).
http://www.valerioaiolli.it/

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