MAILÉN. UNA VERITÀ NASCOSTA di Lorenzo Marotta (Vertigo, 2016)
recensione di Rosario Musmeci
“PER CHI SUONA LA CAMPANA”
Sollevo il calamo che pesa manco fosse piombo, e comincio a vergare una parola dopo l’altra, e diventa leggero come una piuma, e le parole vengono, una dopo l’altra, a “significare quel che ditta dentro”, come al Poeta. Perché, capite, il libro l’ho letto quasi con la frenesia di un incontro a lungo atteso, soffermandomi talora e tornando indietro a ripercorrere un passaggio, a ritrovare in una parola o in un giro di frase il significato di un momento… Poi l’ho, come si dice, metabolizzato. E poi ho sentito germogliare in me i pensieri.
L’ho letto, dicevo. Ma prima mi ero fermato a soppesare con lo sguardo la copertina. Mi avviene, talora. Prima di cominciare la lettura di un libro, di soffermarmi in contemplazione sulla copertina. Capitemi, non sul retro, dove spesso è indicata la trama, ma sui pensieri che nascono da figure e alternarsi di colori. Nero e oro, nella copertina di Mailén. Non la figura, abbandonata come un manichino, senz’anima eppure così trasfigurata e spirituale. I colori. Il nero e l’oro. Il buio e la luce. Il righino di sottotitolo: la verità nascosta. Quale? Poi s’è avviato il mio cammino alla scoperta di quella verità. Le righe che scrivo non sono però un commento. Sono sensazioni, pensieri magari slegati, riflessi di una luce.
Verità nascosta. Che poi magari nascosta non è, visto che la fine della dittatura ha rivelato al mondo “di che lacrime grondi e di che sangue” quel tempo dell’Argentina. Più interessante è il voler ritrovare l’orrore nell’evolversi della crudeltà raffinata degli uomini: i protagonisti “del male”, Jorge e Pedro Rodriguez. Allora la verità nascosta è forse un’altra, non è la storia, sono le pieghe nascoste della storia. Leggevo e mi scorrevano dinanzi agli occhi le vicende narrate nel libro di Elsa Morante: la storia dei libri importanti, da biblioteca, ridotta a poche righe in carattere minuto; e la storia vera, quella degli uomini di tutti i giorni, quelli che fanno la storia e la storia ufficiale ignora, narrata a gola spiegata, nella pagine di “La storia”, polemica che grida il valore degli umili e il non-significato dei cosiddetti grandi. Lontano da questi pensieri, io adesso, a lettura finita, penso che il libro di Marotta, la ricerca di una verità nascosta, è in effetti una storia d’amore. Anzi, una storia di amori. Perché l’amore è come un diamante dalle infinite sfaccettature e alla sua luce ci incantiamo. Scorriamole, le facce di quest’amore. L’amore animalesco di Fernanda e la soggezione di Michele. L’amore malato di Jorge. La “sindrome di Stoccolma” che accomuna le tragiche esperienze di Brigitte e Conceptiòn. L’amore come riscatto di vicende torbide e disperate. L’amore di Dolores che trova la sua sublimazione…
Come nella tradizione letteraria migliore, già dal mondo classico, amore e morte sono contigui e indissolubilmente legati. Così si snoda la storia meravigliosa di Matias e Mailén: potrebbe segnare il riscatto di un’esperienza maledetta, segna invece il culmine del dramma… “un colpo, un solo colpo che rimbombò sordo e cupo nella notte a mettere fine alla sua giovane vita”.
Quanto sapientemente intreccia, Marotta, storie vere e voli di fantasia. Anche una storia di eroi, che non sono solo quelli che si lanciano su un campo di battaglia gridando libertà alla patria oppressa. Quelle delle rinunce che sono come frammenti minimi che però alla fine ricompongono un grande mosaico. Come tutto si concatena e avvince. Persone, come il campione di calcio che rinuncia alla gloria di una coppa del mondo. Ma soprattutto i giovani, protagonisti delle prime pagine del romanzo, che poi, nell’ardore dell’anelito di libertà rimangono come sfondo alla dura realtà che si va dipanando. Da Rudolph Klein con il suo segreto, fino ad oggi: oro e fango, luce e tenebre.
“Mariuzza con il suo fagotto di vita tra le braccia…”: è l’avvio di una pausa nel racconto. Certo, indispensabile per il fluire della narrazione. Ma è occasione, ancora una volta, per lo scrittore, di tornare alla sua terra, al suo vero grande amore. Perché Marotta è così. Si perderà nei meandri dell’animo umano, creerà figure indimenticabili, soffrirà e gioirà con i protagonisti dei suoi racconti: ma sempre lì farà ritorno, alla sua terra. Come ne traccia incantato i contorni, ne rivede i colori, ne assapora fragranze. Non sono gli occhi di Mariuzza e Michele che s’incantano allo scenario del ritorno, il volo dei gabbiani sull’azzurro del mare, il chiarore abbacinante del sole…è lo scrittore che accarezza, spostandoli magari di qualche centimetro sulla carta geografica, Aidone e le terre d’Aci, e la piana assolata di Catania; non le cita apertis verbis, ma sono lì. Senza dimenticare, certo, i tanti problemi dell’isola: “Sì, perché Cristo non aveva messo piede in Sicilia!”… “un viaggio lungo, interminabile, malgrado il fascino della natura e la gioia nel cuore di rivedere i propri luoghi”… E poi la naca, “i materassi riempiti di crine distesi su tavole poste su due trespoli di ferro”, “gli schizzi della salsa quando cuocendo sbuffava nel tegame”.. Quando giunge il momento di lasciare quel mondo e tornare in Argentina, “In quel pacco misero un pezzo della Sicilia e dei suoi profumi…”. Un’ultima pennellata, in atmosfera diversa, quando il romanzo scivola verso la fine: “Nelle tradizioni si ritrova la storia di un paese, così come nelle pietre delle case e delle chiese, diceva Michele ai ragazzi…” (Il “cantuccio dell’autore”, di manzoniana memoria, che sempre ritorna nei racconti di Marotta).
Ma non possiamo dimenticare che sempre il terrore è dietro l’angolo, l’atmosfera del dramma incombe, anche sui momenti di serenità. Ripensando alla migliore tradizione letteraria. C’è una nemesi, che travolge i protagonisti del male, e c’è il “deus ex machina”, la vecchia nonna Dolores, che tutto chiarisce. Nella tradizione è anche il sogno di Mailén, “mentre volava con la morte nel cuore verso l’Italia”: secondo un legame vita/sogno che a Marotta è particolarmente caro.
Affiora talvolta l’istinto del professore, che deve inserirsi, spiegare… “Le suggestioni letterarie del cileno Luis Sepùlveda e dell’italiano Tito Barbini”. O anche i richiami a Arendt, Heidegger, Thornton, Jason Wilson, la rivista letteraria “Sur”… Per fortuna Marotta è capace di far scorrere citazioni e nomi senza darlo a vedere.
“Di notte convivo con i personaggi che si definiscono dentro di me sollecitati dalle scarse annotazioni di Soledad nel suo quaderno..”. Dal “manoscritto trovato in una bottiglia” di Poe, al “dilavato manoscritto” manzoniano, al libro scovato su una bancarella da Umberto Eco, la prima battuta è facile. Per fortuna l’artificio viene presto dimenticato, il racconto vola ad ali spiegate e diffonde il suo incantesimo.
Chissà se Lorenzo Marotta, scrivendo la verità nascosta di vite sperdute nei meandri del tempo in una terra disperata, ha pensato alle battute che aprono il libro di Hemingway, “Per chi suona la campana”. E mi piace qui riportare per intero il passo di John Donne: “Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te”. Per il lettore forse, se (è inevitabile che avvenga) si lascia coinvolgere nell’avventura. Per Marotta senz’altro.
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