GIORDANO TEDOLDI racconta il suo romanzo TABÙ (Tunuè)

di Giordano Tedoldi
Ho scritto “Tabù”, come gli altri miei libri, per me stesso, “a mio beneficio” come si diceva delle Accademie musicali (così si chiamavano i concerti) al tempo di Beethoven, per stare meglio. “La letteratura è terapeutica?” si sente spesso chiedere. Molti non hanno voglia di dichiararsi in cura, sia pure la cura non ortodossa della letteratura, e quindi respingono la domanda con ingiustificata sicurezza. Per me non è un problema, e dunque rispondo di sì. Ho scritto i racconti di “Io odio John Updike” contro la solitudine, e i miei due romanzi, “I segnalati” e “Tabù”, rispettivamente, contro il dolore e contro la mancanza. Inutile girarci attorno: la vita mi sembra un inferno (su questo dirò qualcosa più avanti), e devo difendermi. La difesa è largamente inadeguata alla minaccia, ma è l’unica efficace, l’unica che mi faccia stare meglio. Da questo punto di vista la scrittura di “Tabù”, per utilizzare un (controverso) concetto di Daniel Dennett a proposito della coscienza, si è svolta secondo il motto competence without comprehension. Ho fatto qualcosa perché la sapevo fare, in ultima analisi per sopravvivere, senza sapere cosa stavo facendo. In un certo momento della mia vita, sopravvivere ha voluto dire scrivere “Io odio John Updike”, in un altro momento più recente, scrivere “Tabù”. E potrei chiudere il discorso qui, quanto ai motivi, perché non li conosco e non li conosco perché probabilmente non ne avevo, l’unica cosa che so è che sono stato, inaspettatamente per me (e non solo per me, vi assicuro) in grado di scrivere i miei libri: ne avevo evidentemente la competence, la capacità anche semplicemente fisica, nonché le condizioni materiali, e queste potrebbero mancare da un momento all’altro e dopo un breve respiro io non sarei più uno scrittore, esito che del resto è nel mio destino.
In effetti ricordo precisamente il momento in cui, dopo aver già iniziato a scrivere “Tabù”, ho avuto anche comprensione, cioè coscienza dell’intenzione di scriverlo. Ero a un bar con un’amica a bere un caffè (un’amica che, trovandomi io già sotto il segno della mancanza, si è poco dopo trasferita in un’altra città e non ci parliamo più, cosa che accade quando la mancanza – che in realtà era lì da sempre e per sempre – finisce di celarsi ed emerge) e le dissi che volevo scrivere la storia di un uomo che s’innamora della moglie del migliore amico. Quando le dissi così, l’idea non mi sembrò affatto banale e risaputa, né così la giudicò la mia mancante amica, che aveva letto gli altri miei libri e, evidentemente, non poteva credere che mi sarei attenuto a un programma così minimale. Questa idea, così trita, così “borghese”, era solo il punto d’attacco più ravvicinato per parlare di una corona di altre cose attorno all’idea, un ponte mobile per passare dal dolore alla mancanza. Se scomponiamo l’idea in funzioni simboliche, è fin troppo evidente che la moglie del migliore amico era perfetta per incarnare un amore inattingibile, ancor più dell’Isotta di Tristano, soprattutto perché il mio protagonista non era un prode cavaliere, né avrebbe bevuto filtri d’amore, ma era solo un uomo dei nostri giorni che usa il suo povero cervello e porta in giro un corpo che, per ragioni narrative e, soprattutto, ideali, sarebbe stato abbastanza piacente. Quanto al marito di lei, l’amico del protagonista, era semplicemente un rispettabile carceriere. Tutta qui, l’idea. E un’altra cosa. Poiché avevo scritto “I segnalati” contro il dolore, in quel romanzo non avevo fatto altro che dare espressione al dolore come se stessi scrivendo “I Persiani” o “Edipo re”. Adesso invece, che scrivevo contro una mancanza (non ne ero consapevole, lo affermo ora a posteriori), potevo dare sfogo al mio desiderio di lavorare a un libro che esorcizzasse tutto quel dolore che ancora gettava la sua ombra. Non avendo mai frequentato Aristofane, speravo di offrire ai lettori i miei “Uccelli”. La mancanza (e l’ignoranza della grande commedia attica, ma non quella del Don Giovanni di Mozart, del Casanova di Schnitzler e delle memorie stesse dell’avventuriero veneziano, per non parlare delle “Relazioni pericolose” di Laclos, e della mia stessa peculiare dipendenza e venerazione e crudeltà da e per e verso il genere femminile) grazie all’immaginazione, sarebbe stata colmata: la donna desiderata sarebbe stata mia, vale a dire, Piero, il protagonista della prima parte di “Tabù”, avrebbe realizzato il suo sogno proibito di fare l’amore con Emilia, la moglie di Domenico, il suo migliore amico. C’erano tutti gli elementi per passare dalla messa nera dei “Segnalati”, a una messa bianca, a un rito di magia buona. Poi, come Topolino apprendista stregone, le cose hanno preso una piega inaspettata: Piero, Emilia, Domenico – non essendo schiavi sottomessi a ruminazioni sociali né affidati al limitato orizzonte dell’ego moralistico e letterario, ma istinti versati in stampi espressivi e ideali – hanno cominciato a non rispondere ai miei incantesimi già di loro più complessi della mia arte, quindi la mia fantasia si è mostrata molto più avida e insaziabile della cellula originaria, andando ben oltre la freudiana realizzazione di un desiderio incardinato su una repressione sessuale, e sono spuntate nuove istanze simboliche, nuove funzioni narrative, nuove parti di me che hanno preteso la soddisfazione del piacere, nuove emergenze, nuovi naufragi. Alla fine della scrittura, quando ho posto le parole Finis Operis, la mia competence si era così dissociata dalla mia comprehension che, più che nei lavori precedenti, volevo semplicemente godermi il bagliore di quel monstrum – che mi aveva fatto passare dai saggi antropologici di Freud a quelli di Lévi-Strauss al cinema gotico italiano alle reminiscenze di mia madre in spiaggia che leggeva i romanzi di Harold Robbins al mio inquieto interrogarmi sui moventi di ogni donna che, obbedendo al segnale di un corno barbarico come quello che si ode durante la scena del richiamo di Hagen nel “Crepuscolo degli Dei”, si sposa – senza minimamente interpretarlo o pretendere di dargli un senso editoriale (figurarsi!). Eccolo là, il frutto di questo bizzarro comportamento che, improntato a nuova disciplina – seguendo il metodo di Anthony Burgess, mi ero imposto le mille parole al giorno, a volte erano anche duemila, a volte settecento, se saltavo un giorno cercavo di recuperare – mi aveva fatto passare abbastanza indenne circa un anno e mezzo della mia vita che così naturalmente associo a una tortura (sto arrivando a questo, tra poco). Avevo scolpito un nuovo idolo per la piazza dell’Inferno, quella piazza in cui ogni giorno finisco a passeggiare e, a intervalli di alcuni anni, depongo il mio tributo dopo averlo liberato di gelose bende. Nonostante gli imprevisti inevitabili per uno stregone apprendista e i numerosi, inevitabili detour quando si lavora su un blocco che prende vita propria e balla come il tavolino degli spiritisti, questo nuovo pezzo, oltre che molto diverso dai “Segnalati” nella figura, poteva anche dare l’idea di essere un po’ meno scuro, intagliato in una pietra quasi bianca, e in certi punti addirittura immacolata. E ora che i vapori neri del precedente romanzo si erano assottigliati, si scorgeva addirittura un sentiero, molto lungo e apparentemente mai calcato. Come attorno al deposito di Zio Paperone, accanto vi era un cartello, su cui però non era scritto “Sciò!” ma un’altra congruamente tronca parola, “Tabù”. Era sufficiente per accontentare quell’esasperante, teneramente illusa facoltà che va sotto il nome di volontà d’artista.
Dunque, anche “Tabù” contro una vita invivibile, in cui, come recita la tremenda saggezza di Sileno: «meglio è non nascere, e se nasci, meglio morire presto». E qui finalmente mi congedo dal lettore di questa nota con poche parole sulla mia visione cosmico-morale. È di una semplicità disarmante, e dice che solo il dolore è degno, la felicità è impostura, la gioia è un’attività sociale necessaria alla sopravvivenza ma non al pensiero, che al contrario ha bisogno di essere torturato. Nessuna fanfaronata: non cedo al sadomasochismo al punto di fondarvi un’etica, non mi piacciono le torture, non mi piace il dolore, e scrivendo “Tabù”, ossia, volgarmente riassunta, la storia di uomini e donne impegnati in uno sfruttamento quasi comico delle risorse perverse del mondo, che volgono la silenica tragedia in sguaiata commedia finché possono, ho espresso anche un mio punto di vista che è del tutto opposto a quanti annunciano essere, il nostro, il tempo e il mondo dell’Anticristo, si nasconda esso sotto i panni del mercato, la rete, il terrorismo o altri più aggiornati incubi di comoda tenebrosità e smercio dialettico. Salvo poi, questo curioso Avversario, lasciare fiato in gola a quanti denunciano, variamente indignati o rassegnati, le sue tetre manovre. La cosmologia della dannazione, vizio di uomini e civiltà insenilite, è talmente assurda che non persuade quel poco di scientifico che mi preserva. Quello che io chiamo Inferno, niente equivoci, lo chiamo così per non ripetere troppo spesso parole semplici e dunque abusate come amore o verità o luce.
(Riproduzione riservata)
© Giordano Tedoldi
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La scheda del libro
Quando Piero Origo seduce Emilia, la moglie del suo migliore amico, si sente un antropologo dell’adulterio che studia il tradimento come un rito di passaggio universale. Piero cerca il limite oltre il quale la tavola della legge va in frantumi, così i “triangoli”, la vita in una comune dove regna l’anarchia sessuale, l’amicizia con un sacerdote che tenta di imbrigliare il suo edonismo, l’incontro con una giovane vergine dai sogni purissimi, fino al ritorno di Emilia, misteriosamente velata, saranno tappe di un viaggio nella volontà di violare il comandamento-tabù che, in una società che non rispetta nulla, incute ancora soggezione e attrazione: non desiderare la donna d’altri. Un romanzo di grande respiro e felice immoralità dove lo spirito dei great american narcissists – Updike, Mailer e Roth su tutti – incontra il nichilismo di Houllebecq e la raffinatezza sensuale e ironica di un Buñuel.
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Giordano Tedoldi è nato a Roma nel 1971. Ha pubblicato una raccolta di racconti, Io odio John Updike (Fazi, 2006, 2° ed. minimum fax, 2016) e il romanzo I segnalati (Fazi, 2013).
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