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RACCONTI DA RIDERE a cura di Marco Rossari (intervista)

dicembre 23, 2017

RACCONTI DA RIDERE a cura di Marco Rossari (Einaudi, Supercoralli)

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di Massimo Maugeri

Marco Rossari è scrittore e traduttore. Il suo libro più recente è “Bob Dylan. Il fantasma dell’elettricità” (add editore, 2017). Per le edizioni E/O ha pubblicato nel 2012 “L’unico scrittore buono è quello morto” e nel 2016 “Le cento vite di Nemesio” (finalista al Premio Strega 2017). Tra i tanti autori tradotti, Charles Dickens, Mark Twain, Percival Everett, Dave Eggers, James M. Cain, Hunter S. Thompson. Collabora con numerose riviste.
Di recente ha curato, per Einaudi, la raccolta di racconti intitolata “Racconti da ridere” (è possibile leggere un estratto cliccando qui). Discuto con Marco Rossari di questo suo nuovo lavoro…

– Caro Marco, partiamo da questa frase: “Una buona battuta rompe il ghiaccio, ma un racconto esilarante può spiegare il mondo”. Ti andrebbe di commentarla?
Non ricordo bene che tipo di gas esilarante avessi inalato la sera prima, ma immagino che volessi raccontare in un breve giro di parole la doppia faccia dello humour. È un lato che può aiutare la vita sociale (a me piacciono le persone spiritose: mi è sempre sembrato un segno di intelligenza, e anche di tolleranza) ma allo stesso tempo è in grado di spalancare un universo di senso e di stile. C’è l’ottima battuta di un conoscente che ti strappa una risata in una giornata rovinosa e poi c’è un racconto di Mrozek che semplicemente ti fa vedere le cose in modo completamente diverso.
 
– Cosa puoi dirci sul tuo personale rapporto con l’umorismo (nella vita e nella scrittura)?
Abbiamo rapporti continui e non protetti. Ci piace rotolarci sul letto e a volte perfino nel fango. Poi ci beviamo un milkshake, corriamo sulla spiaggia mano nella mano e andiamo a fare gli scherzi al citofono in giro per Milano. No, scherzo. Non saprei: è una componente stabile della mia formazione. Con i miei genitori si rideva (si ride), con le morose si rideva (si ride). I romanzi di Mark Twain, gli sketch di Dario Fo, i film di Woody Allen, i viaggi con gli amici, Opera Buffa di Guccini, gli scherzi a mia nonna: non saprei da dove è cominciato, di sicuro già nel mio primo (sepolto) romanzo usavo l’umorismo per parlare di un fatto luttuoso. Mi sembrava interessante. Poi è tornato in altri libri successivi, fino alle Cento vite di Nemesio, dove ha un ruolo preponderante. Mi piace, non so che farci, dev’essere una debolezza. Che poi a volte diventa una forza. Detto questo, io non rido mai: sono un personaggio bergmaniano, con venature tarkovskijane. Penso al suicidio ogni volta che mi dicono quant’è bella la vita.
 
– A tuo avviso, in Italia, c’è stata (o c’è tuttora) una forma di pregiudizio nei confronti della letteratura umoristica? C’è (o c’è stata) la tendenza a considerarla come una “letteratura minore”?

Esiste da sempre un piccolo pregiudizio universale. Se chiedi a uno scrittore quali sono i suoi modelli ti dirà più facilmente Proust invece di Hašek. E forse poi non ha letto nessuno dei due. Poi non ho mai visto, che so, Stefano Benni vincere un premio rilevante (chi se ne frega, eh: è uno scrittore entrato nel canone, nonostante tutto). C’è sempre stata una leggera forma di imbarazzo verso la comicità, come se ridere fosse un po’ tipo ritrovarsi nudi (è così). O come se scrivere una commedia fosse più facile che tirare fuori il drammone (non è così). Io peraltro sono bifronte e non vedo perché dovrei negarmi qualcosa. Da una parte ridacchio con Hašek e dall’altra medito con Proust (o viceversa). Poi esistono scrittori che riescono miracolosamente a far convivere entrambi i registi, come Martin Amis. Ecco, sono loro che invidio.
 
– Sulla base di quale criteri hai selezionato i racconti che compongono questa antologia?
Ho tirato giù i libri dai miei scaffali con un calcione e ho cercato le cose che avevo amato di più nel corso degli anni. Alcuni racconti costituiscono l’ossatura di un corso di scrittura umoristica che tengo alla scuola Belleville di Milano. Poi volevo dare uno spettro completo della faccenda, dalle parodie di Umberto Eco alle satire di David Sedaris, dalla grazia di Nora Ephron allo stile di Michele Mari, dalle parabole surreali di Barthelme ai classici come Twain.
 
– Ti andrebbe di offrirci una tua suggestione (o un tuo commento) su qualcuno dei racconti proposti?
Allora. Potrei cominciare e non finire mai. Ho un debole per Alan Bennett, scrittore sopraffino che anni fa ho avuto l’onore (e l’onere) di tradurre. Poi amo che ci sia Irvine Welsh, scrittore associato a balordi e tossicomani che in realtà ha una vena umoristica strepitosa, tanto quanto una vecchia conoscenza come Charles Bukowski. Infine uno dei più preziosi, in quanto a scuola di scrittura, è quello di Čechov: una lezione di concentrazione narrativa.
 
– Tra i vari racconti c’è pure un inedito di Margaret Atwood. Una vera e propria “chicca”, direi… Ti andrebbe di parlarcene?
La Atwood è una scrittrice tornata di moda, dopo una lunga serie di romanzi eccezionali. È una autrice che esula dalla famigerata femminilità editoriale (chicklit, romanticismo), ma ha imbastito invece romanzi paurosi, distopici, visionari, politici. Ne è un esempio il fortunatissimo Racconto dell’ancella, ora diventato una serie tv di successo. Ho trovato una breve perla in cui lei smonta il meccanismo della narrazione fiabesca e abbiamo fatto di tutto per averlo. Sono felice che ci sia.
 
– Se, tra i vari racconti, dovessi scegliere quello che – a tuo avviso – è il “racconto da ridere” per eccellenza… quale sceglieresti? E perché?

Ti dirò, io mi abbuffo di comici americani cinici e aspri (in questo momento sto ascoltando uno spettacolo di Bill Hicks in cd: “Voglio smettere di fumare per gradi: prima mi porteranno via un polmone, poi l’altro”), eppure un classico come P.G. Wodehouse resta uno scrittore delizioso. Vecchio stile, ma elegantissimo. Può ancora insegnare molto a tutti.

Grazie mille, Marco. In bocca al lupo per tutte le tue attività

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Racconti da ridereLa scheda del libro

 

In quest’antologia la scintilla della risata è innescata dalle situazioni piú disparate: un conte esige un rito tutto particolare per fare l’amore, un Natale qualsiasi si trasforma in una sfida di bontà, due cugini fanno a gara per chi ha lo zio piú grasso…Una carrellata di personaggi irresistibili, idee, peripezie, giochi di parole e fantasticherie, per capire che ridere è un modo di pensare. Per poi subito ricominciare a ridere.

Un uomo si sveglia e si accorge di non avere piú il naso. Un gruppo di poeti incassa milioni di dollari mentre gli sceneggiatori hollywoodiani campano a fatica. Un bambino chiede a una contadina di vedere una Cosa. Adamo ed Eva scoprono gioie e miserie della vita di coppia. Sono alcune delle storie che compongono il caleidoscopio di questo libro. Ma che cosa vuol dire ridere? Il riso è paradosso, complicità, reazione al mondo, aggressività, rifugio politico, scherno, sopravvivenza, sintomo di un’epoca. Tutte queste cose, e tante altre, visto che fin dalla notte dei tempi la comicità si è mescolata al quotidiano, facendoci ridere di tutto e del contrario di tutto. A patto di avere senso dell’umorismo – e di sapere scrivere grande letteratura. E adesso che le granitiche collere dei commenti in rete hanno spazzato via ogni sfumatura dello humour (tanto che il ricorso alle faccine per spiegare il tono di una frase sembra imprescindibile), capire le origini dell’umorismo è fondamentale. Attraversando i secoli e le latitudini, Racconti da ridere esplora tutto lo spettro dell’ilarità, da Mark Twain a Stefano Benni, passando per Čechov e Umberto Eco, fino a Nora Ephron. Con l’intelligenza, si spera, di non prendersi troppo sul serio.

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