Bonina, Anno di disgrazia 1993, Lombardi editore 2018
di Alfio Siracusano
C’è sempre qualcosa di marcio in ogni Danimarca, e la vita sociale, se traslata in politica, non può sottrarsi al destino di diventare autobiografia di una nazione, come del fascismo disse Piero Gobetti. Così fu dell’Italia, quasi sempre verrebbe da dire. Più, in particolare, per quest’ultima del Secondo dopoguerra, che culminò nella dissoluzione di tutte le sue impalcature. Bonina dice, in questo libro che colpisce come un pugno allo stomaco (Anno di disgrazia 1993, Lombardi editore, 2018), che questo culmine si ebbe, almeno visivamente, nel 1993, e che il fatto assunse proprio le valenze di una disgrazia, atteso quello che avvenne poi. E che avviene ancora oggi. Che molti temevano, pochi immaginavano, quasi nessuno ammetteva potesse verificarsi.
Le premesse in verità non mancavano. Si pensi solo, erano gli anni Settanta, al terrorismo, agli anni di piombo, alla vicenda Moro. Poi alle stragi di mafia. Improvvisamente si dovette prendere atto che lo Stato non c’era più, se era stato possibile sfidarlo in quella maniera, e se a difenderlo come forma che tutto contiene dovevano essere stati, nel caso Moro, i due partiti che, nei fatti, ne gestivano le impalcature sociali ed economiche, mentre altre formazioni politiche, minori stando ai voti, avrebbero senza difficoltà dialogato con chi dichiarava di volere nient’altro che la sua dissoluzione. E non ci si accorgeva che questa dissoluzione era già in atto, perché le premesse su cui esso era nato, cristallizzate nei sacri commi della Costituzione, erano state pesantemente violate. Da tempo, ormai. In una col rivolgimento del mondo esterno. Per dire solo di un evento, a un certo punto divenne non più negabile che il “comunismo” era ormai solo una parola, che il crollo del Muro certificò impietosamente, più di Budapest nel ’56 e di Praga nel ’68, e le conseguenze furono che il mondo per un verso, e l’Italia per il suo, si trovarono privi delle basi su cui le forze politiche più importanti avevano impiantato la loro ragion d’essere. Cresciuta nella logica dei partiti, che a loro volta traevano la loro logica dalla guerra fredda, la società italiana si ritrovò gestita da gusci d’uovo che erano solo quello che erano, e cioè grumi di interessi contrapposti ad altri interessi: senz’altra idealità che la difesa di questi interessi. Fu come se improvvisamente la luce si fosse spenta in una stanza piena di gente impaurita e tutti corressero, per salvarsi, verso un baratro che non immaginavano potesse essere così vicino. Il baratro fu tangentopoli. Che poi, da evento salvifico che era sembrato, si mutò oscenamente nel berlusconismo, cui seguì, come logica conseguenza, la catastrofe che stiamo vivendo.
In due pièces teatrali di fortissimo impatto, Bonina ci cala dentro il clima di quell’anno horribilis visto nell’ottica delle élites politiche, sociali ed economiche che improvvisamente sentono il terreno franare sotto i loro piedi, e cercano in tutti i modi di resistere al nuovo che avanza, che avvertono minaccioso, e che si sforzano di esorcizzare come possono restando fermi nel loro privilegio di élites, appunto.
In Ragione sociale vediamo l’affannarsi di un gruppo di notabili che gestisce un circolo di conversazione di una città di provincia siciliana il cui unico scopo sembra quello di garantire a se stessi una “rispettabilità” che è, nei fatti, la veste sotto la quale alcuni di loro esercitano il “potere”. Nella politica, nella sanità, nella considerazione sociale. E se inizialmente la discussione, infarcita di dottissime sottigliezze che probabilmente servono a nasconderne la fatuità (perché la cultura fine a se stessa, che si nutre del gaudio della citazione, non si distingue dalla fatuità), verte sul fare o non fare il ricevimento annuale e sull’invitare o no questo o quello, poi tutto si ingarbuglia quando scoppia la notizia di un’inchiesta a carico di certi soci, cosa che di sicuro avrebbe minato la rispettabilità di tutti. L’élite è dunque in pericolo, un altro potere la minaccia, i tempi sono cambiati, la magistratura mette becco, occorre difendersi. È l’effetto mani pulite, quando il palazzo tremò, anche se per poco. Poi tutto si accomoda per un garbuglio di donne, il ricevimento si fa, ma il pericolo si è corso, il marcio si è visto, un po’ minacciato, un po’ taciuto, un po’ nascosto sotto il tappeto. Un po’ ipocritamente denunciato e subito negato. Berlusconi non c’era ancora, si era nel ’93, ma il dream era nell’aria, un anno ancora e tutto il marcio si sarebbe praticato alla luce del sole. Come nel novantatrè francese si pose fine alla Rivoluzione e si avviò il tempo della normalizzazione.
Nell’altra pièce, significativamente intitolata I buoni siciliani, tre personaggi veri si incontrano dopo molti anni e rievocano un fatto avvenuto in quello stesso 1993 a Ragusa. Il prefetto di quella provincia aveva sciolto per mafia il Consiglio comunale di Scicli e avviato indagini conoscitive su altri Consigli comunali. Il direttore della redazione locale di un giornale importante non tacque nulla di quanto accadeva, denunciò quanto gli risultava dei fatti che andavano emergendo e fu per questo che il Pds regionale, chiamato pesantemente in causa, gli intentò un vero e proprio processo politico. Intanto il prefetto fu trasferito, e sorte analoga toccò al procuratore della repubblica che non aveva dato corso a una denuncia avanzata da un esponente del Pds contro il prefetto.
Anche qui, a ben vedere, la vicenda riguardava le èlites. Quella politica, che riteneva di potersi muovere indisturbata senza che nulla e nessuno osasse intralciarne le manovre – e la cosa tragica era che la parte politica incriminata era la sinistra ex comunista – ma anche quella giudiziaria e istituzionale che ritennero, in quel frangente, di non poter concedere aprioristiche impunità; per non dire di quella giornalistica che, nelle vesti del dottor Garro, non si dichiarò disponibile, come per quieto vivere di solito accadeva, a rinunciare al suo statuto deontologico. Il processo al giornalista, che possiamo rivedere in diretta, è dominato dalla fortissima denuncia del “dovere della verità” di cui il giornalista, poi punito col trasferimento, si fa inflessibile paladino. Quasi che, cadute tutte le religioni, fosse quella del giornalismo l’ultima trincea da difendere. Salvo dovere, anche lui, rendersi conto che il tempo dei princìpi che valgono per tutti era passato. Valevano per lui, pagò per questo, e l’unica consolazione furono le scuse fattegli pervenire da Occhetto che era allora segretario di quel partito.
Poi venne il diluvio. Prima Berlusconi, che diede vita a quella che fu chiamata seconda repubblica, i cui miasmi non mancarono di inquinare anche gli anni che seguirono alla sua caduta. Poi la sconcia predicazione di Grillo, lo stravolgimento definitivo del linguaggio politico, lo scimmiottamento di vaghe ideologie a mezzo tra escatologiche e passatiste fino al rigurgito di sovranismi parafascisti infarciti di feroci deontologie persecutorie nei confronti del “diverso”: che significa il rovesciamento di tutti i parametri del nostro essere civili. Altro che Socrate e Cristo.
Dentro queste coordinate l’autore si sforza di mantenersi in una prospettiva siciliana, traendone la conclusione che l’isola “in virtù di questa doppia tensione incrociata si trovò a vivere il 1993 in uno stato di riecheggiamento e di sospensione, nell’incertezza di solidi dati di fatto, da un lato spettatrice attonita di eventi politici lontani e da un altro protagonista esposta ai nuovi rigurgiti mafiosi, di conseguenza nella condizione di cortocircuito che fu motivo di episodi dettati dalla confusione ed è ragione per ritenere il 1993 un annus horribilis: nelle aspettative un anno di grazia ma in realtà rivelatosi di disgrazia”.

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