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IL BENE, GLI ALTRI E I DISORGANICI: i nuovi libri di Filippo La Porta

gennaio 28, 2019

I nuovi libri di Filippo La Porta mettono in relazione il bene e il male come elementi essenziali per comprendere la realtà e “gli altri”

di Massimo Maugeri

I grandi capolavori della letteratura – quelli che oltrepassano la barriera del tempo e dello spazio – continuano a parlarci, a offrirci strumenti che ci consentono di interpretare la realtà che ci circonda e il nostro rapporto con il mondo e con gli altri. La Commedia di Dante rientra senza dubbio tra le opere che offrono suggestioni e stimoli di questo tipo. Lo dimostra Filippo La Porta nell’ambito del suo recente saggio intitolato “Il bene e gli altri. Dante e un’etica per il nuovo millennio” (Bompiani). Il titolo contiene implicitamente una domanda: in che modo è possibile identificare un’etica, nel poema dantesco, che possa trovare applicazione nella nostra contemporaneità? Filippo La Porta fornisce la sua risposta svolgendo un’indagine letteraria sulla Commedia e indirizzandola sui concetti di bene e male / realtà e irrealtà.
Il libro nasce da un’esigenza personale: quella di un padre che desidera educare il proprio figlio secondo un’idea del bene e del male (in un’epoca in cui tutto pare relativo e provvisorio). In che modo questa esigenza ha condotto fino a Dante? L’intuizione iniziale prende corpo una decina di anni fa, a New York, nel corso di una lezione frequentata da La Porta e tenuta dal dantista italoamericano John Freccero (professore di italiano e letteratura italiana alla New York University, nato a New York nel 1931, e sostenitore della realisticità della Divina Commedia; nel 1989 Il Mulino ha pubblicato in Italia il volume di Freccero intitolato “Dante. La poetica della conversione”). A partire da quel momento Filippo La Porta rilegge la Divina Commedia utilizzando gli stimoli forniti dalla lezione di Freccero e facendosi accompagnare da un “Virgilio d’eccezione”:  Simone Weil, grande pensatrice e mistica novecentesca. È proprio Simone Weil a offrire gli strumenti interpretativi legati alla definizione del bene e del male. Per Weil il bene è tutto ciò che dà realtà agli altri; mentre il male è tutto ciò che toglie realtà agli altri. Cosa vuol dire dare (o togliere) realtà agli altri?
«Partiamo da un esempio semplice», mi ha detto Filippo La Porta nell’ambito di un incontro in cui abbiamo discusso di questo suo nuovo saggio. «Immaginiamo di essere impegnati nell’ascolto di una persona che ci sta parlando; immaginiamo che, a un certo punto, magari per un minuto, ci distraiamo (cosa normale, persino legittima); ebbene, in quel minuto non diamo più realtà a quella persona; in un certo senso non la facciamo più esistere per noi. Quindi per dare realtà è necessario dare attenzione all’altro. D’altro canto per dare attenzione all’altro, bisogna desiderare che l’altro esista. In questo senso, dunque, il bene ha a che fare con il mondo reale, con gli altri; mentre il male parte dal presupposto contrario (Lucifero non vuole che esistano altri al di fuori di lui).
Partendo da tali considerazioni l’esigenza di comportarsi bene deriva non dalla necessità di obbedire a un precetto, o a un comandamento, o a un imperativo della coscienza, ma dal fatto che soltanto agendo bene è possibile far esistere il mondo. Viceversa il male, l’agire male (e quindi – per esempio – ingannare il prossimo, umiliarlo), in un certo senso fa sparire il mondo, lo de-realizza, lo desertifica. Il concetto di etica si lega, dunque, a quello di realtà: bene e realtà da una parte, male e irrealtà dall’altra».
Nel corso del saggio Filippo La Porta passa in rassegna i sette peccati capitali enunciati da Virgilio nel Purgatorio. In un modo o nell’altro tutti e sette i peccati capitali tolgono realtà (sostituendola con qualcosa di immaginario). Di conseguenza il male nasce da un eccesso di cattiva immaginazione. Semplificando: il superbo immagina di stare su un piano superiore agli altri; l’invidioso guarda troppo le vite degli altri, immaginando che gli altri siano felici (o più felici di lui); l’ira condiziona le nostre percezioni e non ci fa vedere la realtà così com’è; l’accidioso (partendo dal presupposto che l’accidia si traduce nella mancanza di slancio verso il bene, nella ricerca eccessiva di certezze, mentre la realtà è conflitto e incertezza) tende a chiudersi in un mondo autoreferenziale e quindi irreale; l’avaro si illude di poter possedere qualcosa, ma è solo un’illusione giacché non possediamo nulla, nemmeno il nostro corpo, nemmeno noi stessi; infine gola e lussuria sostituiscono alla varietà quasi illimitata dei piaceri terreni un unico piacere, che – nel momento in cui diventa ossessivo, dispotico – ci fa precipitare nell’irrealtà.
È questa, dunque, l’etica per il nuovo millennio che – sulla base di questo ottimo saggio di Filippo La Porta – ci offre Dante e il suo poema: ”ascoltare” gli altri per il bene del mondo e dunque anche per il nostro. Perché solo ascoltando gli altri è possibile farli esistere, e dunque far esistere noi stessi.

Disorganici. Maestri involontari del Novecento - Filippo La Porta - copertinaDi recente, peraltro, è uscito un ulteriore nuovo libro di Filippo La Porta. Si intitola “Disorganici. Maestri involontari del Novecento“, pubblicato dalla casa editrice Storia e Letteratura.
Chi sono i disorganici di La Porta? Per contrapposizione viene in mente la figura di “intellettuale organico” secondo Gramsci. I presupposti del ragionamento gramsciano, però, sono diversi. Per Gramsci, infatti, bisognava essere organici a una classe sociale. L’accezione di “organicità” in quel caso assumeva una valenza positiva e l’intellettuale organico (al proletariato) si contrapponeva alla figura tipica di intellettuale italiano (ovvero, il letterato). Nel tempo, però, gli “organici” di Gramsci (che erano appunto organici a una classe sociale) sono diventati organici ad “altro” (un partito politico, una lobby). Il presupposto del più recente libro di La Porta si basa, dunque, su una sorta di sopravvenuta mutazione. I “disorganici” presentati in questo nuovo volume sono tali poiché – anche nella loro vita pubblica e al di là di più o meno spiccate appartenenze corporative – hanno cercato di preservare la loro identità di singoli e di sviluppare un pensiero individuale (e in quanto tale, appunto, “disorganico”). E lo hanno fatto in maniera non necessariamente intenzionale (non, cioè, con lo scopo di volersi differenziare a tutti i costi). Da qui, appunto, il sottotitolo del libro. Stiamo parlando, dunque, di una personalissima galleria di maestri involontari del secolo scorso – da Carlo Rosselli a Hannah Arendt, da Italo Calvino a Pier Paolo Pasolini, dalla stessa Simone Weil a Ignazio Silone, da Gobetti a Capitini – allestita da La Porta (l’indice del volume è disponibile qui) sulla base della propria esperienza formativa.
«Sono quasi voci di un dizionario, o da enciclopedia popolare», mi ha detto l’autore. «Del resto il libro è rivolto anche a un pubblico giovane. Volevo offrire una biblioteca portatile utilizzabile per un ventenne di oggi».
Una minibiblioteca che diventa utilissima anche per conoscere figure un po’ meno note (Arthur Koestler, Dietrich Bonhoeffer, Saul David Alinsky, Isaiah Berlin). Una carrellata di ritratti di quaranta intellettuali irregolari (a ciascuno sono dedicate 4/5 cartelle), diversissimi tra loro ma uniti dalla propensione a una sorta di ricerca della verità (perpetrata in maniera disinteressata e contro il potere) che porta inevitabilmente alla critica radicale della realtà (e che genera riflessioni ancora oggi utili per interpretare meglio il nostro presente).
C’è un legame tra “I disorganici” e “Il bene e gli altri”? Probabilmente sì. E questo legame passa proprio dal concetto di amore. In un certo senso i disorganici di La Porta esercitano la critica in nome dell’amore per qualcosa (qualcosa che è già esistente e di cui hanno fatto esperienza, ma che – dal loro punto di vista – è negato dal mondo attuale). L’esistenza di questo legame è confermata dallo stesso autore: «È importante partire sempre dall’amore concreto per qualcosa, altrimenti non si conclude nulla di utile. D’altra parte è per questo che Dante ha scritto la Commedia in volgare e non in latino. Per Dante il volgare è la lingua di sua madre e di suo padre, e dunque la lingua delle persone che amava. Ecco, alla fine è l’amore che fa da collante. Nella Divina Commedia il diavolo è furbissimo, è logico… però – per Dante – è anche stupido. E la sua stupidità è determinata dalla sua incapacità di credere nel bene e nella sua realtà. Per il diavolo Il bene è solo una strategia. Ma nel momento in cui non crede nel bene, non crede nell’amore… che e ciò che muove tutto. E quindi si preclude la comprensione del reale.»
Comprensione del reale che, invece, sta a molto a cuore (e la parola “cuore” andrebbe sottolineata) ai “disorganici”.
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