“Cuore allegro”: la silloge di Viola Lo Moro (Giulio Perrone editore)
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Viola Lo Moro è nata a Roma il 20 Dicembre del 1985. Si è laureata in letteratura moderna e contemporanea e specializzata in letterature comparate. È una delle socie della libreria delle donne di Roma, Tuba, della quale cura la programmazione. È, insieme ad altre, ideatrice e organizzatrice del festival delle scrittrici “InQuiete”. Ha scritto e scrive articoli per riviste letterarie e femministe (Leggendaria, DWF, Letterate Magazine, Femministerie).
Per i tipi di Giulio Perrone Editore ha appena pubblicato la raccolta di poesie intitolata “Cuore allegro“.
Abbiamo invitato l’autrice a parlarcene…
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«Ora che sta effettivamente nascendo Cuore Allegro inizio a pormi le domande di senso che forse avrei dovuto farmi anni fa», ha detto Viola Lo Moro a Letteratitudine. «Quanti anni ci vogliono per comporre qualche verso? Ecco, questa silloge, è il risultato contemporaneamente di anni di lavorazione su una singola parola – sarebbe bello tornare all’università per ricominciare a studiare la filologia dopo averla sperimentata sulla propria pelle – e illuminazioni di qualche secondo che hanno impresso dei versi immodificabili. Ho deciso che la raccolta potesse essere pubblicabile quando non distinguevo più quali poesie appartenessero a un’esperienza del passato e quali del presente. In questo senso è come se grazie alle poesie tutte le esperienze si fossero fuse per necessità in un eterno presente. Scrivere poesie, per me, ha significato tutto fuorché ordinare la vita, tutto fuorché comprendere le cause e gli effetti degli avvenimenti. Quello che è accaduto nella silloge è stato un dispiegamento di attrezzi (fili, tubi, asfalto, bava, sangue, viscere, flebo, gabbiani) per raccontare l’indicibile: la vita breve sulla terra, il tempo incontrollabile della fine delle cose.
Quando la parola, scarnificata dell’esperienza, ha iniziato a esistere di per sé, senza l’impiccio del tempo (cosa è accaduto prima e cosa è accaduto dopo?), solo a quel punto ho potuto rintracciare quali fossero i temi che attraversano le liriche, come (e se) sono collegati tra loro, quali sono state le ossessioni che mi hanno attraversata in tutti questi anni.
Il cuore anatomico è diviso in quattro sezioni divise tra loro da membrane fondamentali ma molto sottili. Anche questa raccolta è divisa in quattro sezioni, intervallate dai versi di scrittrici/ori per me fondamentali – Anedda, Montale, Lorde e Nada, Woolf – che fungono da torce lungo il sentiero. I sogni delle prime poesie lasciano spazio alla realtà, fatta di aspirazioni e di schianti, dove l’io poetico tenta di avvicinarsi ad altri esseri – la madre, il padre, la donna amata – e lo fa con precisione chirurgica (Elvira Seminara, nella prefazione, parla proprio di strumenti sul tavolo operatorio) – scontrandosi spesso con la cruda realtà dell’impossibilità di capirsi, come se tutte le relazioni fossero dei lampi, delle epifanie, immerse in un buio molto fitto, nutrito di incomprensioni, abbandoni e assenze.
Nelle quattro sezioni esploro la ricerca di una identità in relazione con il/la prossimo/a, il rapporto con la morte, l’incontro erotico e carnale, il rapporto con la memoria – primitiva o familiare – e l’orizzonte chiuso del presente.
La poesia cerca una strada di allegria vitale, attraverso il movimento e la carne, ma spesso rileggendola, ho la sensazione che sia una poesia che racconta dei tentativi vani, in cui la carne si infetta, in cui l’esperienza si incista dolorosamente. Questo però non lascia mai uno spazio definito alla resa: l’io narrante non si placa. La vitalità, che per me si esprime nei momenti in cui mi rapporto con la natura (Torrente), o con un corpo di donna di cui posso sentire gli umori e gli odori (Il Sonno delle Amanti e Lecca), non può essere abbandonata, deve essere ostinatamente ricercata (Ostinazione virale).
E la strada, per me, è stata quella della trazione estrema delle parole. Per questa ragione ho scelto come versi in copertina:
Nel luogo immobile
della parola
che non ti ho detto
si è compiuta la strage
delle altre.
Dove ho rinunciato alle parole per dirmi sono andata incontro a un luogo immobile, si è compiuta la strage ultima dell’umanità: non potersi più parlare».
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La scheda di “Cuore allegro” di Viola Lo Moro (Giulio Perrone editore)
Il cuore anatomico è diviso in quattro camere. Così questa raccolta poetica crea altrettanti spazi attraversati – a temperature diverse – dal filo rosso di un sentire incarnato che si ostina a rilevare le asperità del tempo, i conflitti irrisolvibili e gli addii. La prima e l’ultima sezione racchiudono l’identità precaria dell’io narrante: i sogni, la memoria familiare, i nomi, le case. Qui la parola poetica gira ossessivamente intorno a un io che non può essere solido, e lo riempie di oggetti e di immagini concrete (animali, fili elettrici, liste della spesa, viscere) come a svelarne – per contrasto – la caducità. Tutto esiste quindi tranne l’identità, anche se – proprio in questa approssimazione epidermica – è possibile infine rintracciare il mosaico infranto di una ricerca perpetua. Le due sezioni intermedie invece ci parlano di affetti e relazioni: il passaggio di una persona cara dalla vita alla morte, il tempo scandito da orologi a ricarica e gocce di flebo, il rallentare del cuore, i corpi immersi nella dimensione sensuale e amorosa, la solitudine nella città come forma contraria al desiderio di abitare insieme. Accanto alla carne viva degli atti d’amore, come per giustapposizione, emerge una lacerazione data dall’abbandono. Anche se questo di Lo Moro è un esordio poetico, il suo passo è già fermo e la sua scrittura precisa, le sue parole un intimo dono e una messa a nudo di una sensibilità che lotta e pensa di giorno in giorno.
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