“L’Isola del Tesoro. Il mio primo libro” di Robert Louis Stevenson (Oligo – Traduzione di Luca Crovi)
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di Nicoletta Bortolotti
In principio è una mappa, se la scrittura è luogo potenzialmente pericoloso o salvifico, in cui addentrare e arretrare, perdere e perdersi. Ritrovarsi. L’Isola del Tesoro non denominava inizialmente il capolavoro di Robert Louis Stevenson che si sarebbe dovuto stampare con il titolo più prosaico di Il cuoco di bordo. Bensì intitolava la mappa che l’autore si accinse a tratteggiare durante un soggiorno nella piovosa Scozia e che non si limitava a corredare graficamente la tessitura narrativa, ma ne costituiva la trama stessa.
Una mappa dell’impossibile poiché scrivere un grande romanzo che potesse garantirgli un reddito sufficiente a mantenersi con le parole pareva al trentunenne Stevenson un’impresa “forse non di letteratura, ma almeno di resistenza fisica e morale paragonabile al coraggio di Aiace.” E una mappa del possibile quando quelle parole fortunate, bilanciate presero a scorrere come un benedetto flusso sanguigno nelle arterie dei personaggi che si sarebbero addentrati, persi e ritrovati nella sua isola. E avrebbero abitato un’altra mappa, quella dell’immaginario dei lettori, registrandone per sempre le coordinate.
My first book: Treasure Island, pubblicato nel 1894 sulla rivista mensile “Idler Magazine”, fondata da Robert Barr e codiretta dall’autore di Tre uomini in barca Jerome K. Jerome, vero gioiello letterario e chicca per palati fini, è riproposto dall’editore Oligo con la cura di Claudio Gallo, la magistrale traduzione di Luca Crovi e la presentazione di Mino Milani. Scrive l’autore: “Disegnai la mappa di un’isola; era ben elaborata e (pensavo) magnificamente colorata; la sua forma scatenò la mia fantasia oltre ogni immaginazione; conteneva porti che mi soddisfacevano come sonetti; e con l’incoscienza del predestinato, battezzai la mia opera L’Isola del Tesoro”.
Il volume, impreziosito dalle illustrazioni di Alexander Stuart Boyd, le cui didascalie sono state volutamente lasciate in lingua originale, fu composto quattro mesi prima della morte dello scrittore. Stevenson invita il lettore a salpare non su un brigantino che si dichiarava incapace di gestire, ma su una goletta, l’Hispaniola, per navigare nelle onde brune e perigliose della creazione letteraria, con i suoi abissi d’irrequieto e le sue vette di abbaglio. Invita a iscriversi a una scuola di scrittura di certo meno costosa e forse più efficace di tanti corsi odierni.
Si entra dunque in cambusa, nella stiva, accompagnati da un capitano della letteratura che impugna gli attrezzi del mestiere con l’umiltà di un marinaio, per scoprire con sorpresa alcuni elementi di spiazzante attualità.
Uno su tutti il rapporto travagliato o di passione adesiva, croce e delizia da cui nessun autore può prescindere a partire dall’invenzione della stampa, con il Pubblico Pagante, in sostituzione dell’antico mecenate: “Il mio ufficiale pagatore, il Grande Pubblico, tratta le altre cose che ho scritto con indifferenza, se non con avversione.” Lungi dalle tronfie lamentatio di numerosi contemporanei, ravvisiamo qui, nell’autoironia, una lezione ancora una volta di grande umiltà, per quanto non si neghino l’oscura fatica e il sudore spesso infruttuoso dello scrivere.
Poi, l’operazione di “chirurgia psichica”, che sottende all’intaglio di un personaggio letterario dalle spoglie immaginarie di un amico reale, privato delle qualità migliori della sua natura come un’arborescenza, della sua pelle, delle sue ossa, dei suoi tendini per sostituirli con quelli di un alter-ego.
La scrittura quasi come “impresa famigliare”; le soluzioni per superare il blocco dello scrittore; l’ammissione scanzonata di qualche debito a Defoe e a Poe; la necessità per l’autore di conoscere il proprio territorio narrativo, esplorarlo nel dettaglio con l’aiuto per l’appunto di una mappa. Si tratta questo di un suggerimento oggi molto spesso disatteso da scritture affrettate, con salti temporali o spaziali inverosimili o esageratamente rapidi, che offrono al lettore la sgradevole impressione di un adattamento incompiuto. Ma proprio la scenografia dettagliata e meticolosa di certe serie tv di successo sembra, nell’odierna civiltà dell’immagine, nel nuovo umanesimo digitale, e sulla base delle scoperte neurologiche riguardo il funzionamento cerebrale, recuperare quelle mappe fisiche e mentali che sono al cuore della produzione di Stevenson.
In epoca di ritorno a una certa moda di lingua barocca e neoclassica l’autore riafferma con forza uno stile realistico, di “viaggio e movimento”, che sfaccetta i personaggi con un fraseggio solido e lapidario come un colpo di scure.
Da ultimo vorrei soffermarmi sulla sorprendente armonia fra le corde vocali di Stevenson e quelle del traduttore autore Luca Crovi, come sempre dovrebbe avvenire nella buona traduzione, laddove il traduttore si fa coautore, auscultatore e interprete. La traduzione del tutto fedele al testo originale è però moderna al punto da non far avvertire lo scarto del tempo. E cosa accomuna entrambe le voci oltre uno stile espressivo, nervoso, ma sempre nitido e preciso? In diverse interviste Crovi, giallista e scrittore di pregiatissimi noir, si sofferma sul divertimento di narrare. E Stevenson con il pirata John Silver si riprometteva “una buona dose di divertimento”. Divertire se stessi e il lettore si declina qui nell’accezione profonda del di-vergere, distanziare dal cammino di tutti, dalla strada maestra e inoltrare nell’ombra del viottolo secondario, della traversa, della via oscura disseminata di “bettole e locali malfamati…” Perché è in quei budelli, nelle loro mappe indecifrabili, l’incipit di ogni storia.
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La scheda del libro: “L’Isola del Tesoro. Il mio primo libro” di Robert Louis Stevenson (Oligo – Traduzione di Luca Crovi)
“My first book: Treasure Island” di Robert L. Stevenson venne pubblicato nell’agosto 1894 su “Idler Magazine”, rivista fondata da Robert Barr e codiretta da Jerome K. Jerome. Lo scrittore scozzese, quattro mesi prima della sua morte, raccontò nel dettaglio l’origine de L’Isola del Tesoro. Ammise ironicamente di avere rubato un pappagallo al “Robinson Crusoe” di Defoe, uno scheletro ad Edgar Allan Poe, una palizzata a “Masterman Ready” di Frederick Marryat, Billy Bones e il suo baule a Washington Irving. Ma soprattutto ricordò che il titolo originario dell’opera era “Il cuoco di bordo” mentre “L’isola del Tesoro” era quello della mappa da lui disegnata e che lo avrebbe accompagnato durante la stesura del libro. Ed è proprio quella mappa, smarrita dall’editore prima della pubblicazione, a seguire il flusso dei ricordi di Stevenson. Una pergamena che ha più di un valore simbolico, perché ogni mappa è “un’inesauribile fonte di seduzione per ogni uomo che abbia occhi per guardarla”. La magia de “L’isola del Tesoro” è partita tutta da lì e se anche quella mappa non rappresenta “tutta la trama del libro fornisce però una miniera di suggestioni uniche” sia allo scrittore che al lettore.
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