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LA TAVOLETTA DEI DESTINI di Roberto Calasso (recensione)

dicembre 4, 2020

“La tavoletta dei destini” di Roberto Calasso (Adelphi)

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di Gianni Bonina

Sembrerebbe, a stare ai suoi libri di argomento religioso, che Roberto Calasso sia attratto dal tema del divino, se presente soprattutto nella cultura orientale, come a volerne elicere un principio originario, quando invece il suo reale interesse è tutto per il racconto in sé quale forma di espressione letteraria in un ambito dove a prevalere sia il mito, ovvero le scritture sacre. L’ultimo suo saggio, La tavoletta dei destini (Adelphi), ne è la prova definitiva, giacché accosta due grandi sistemi narrativi nei quali ricorrono da un lato il mito nella sua dimensione più ancestrale (la religione mesopotamica) e da un altro il racconto nella sua più vertiginosa facondia (Le mille e una notte), incontrandosi mito e racconto in una ucronia che coglie più analogie: lo stesso bacino geografico, la stessa razza semita, gli stessi usi e costumi, epperò non la stessa fede, circa duemila anni separando infatti gli dèi sumeri e babilonesi dall’adorazione di Allah nel cui segno i viaggi di Sindbad il marinaio si susseguono: sette in tutto, a retaggio di un numero che è fondativo anche nella teogonia fiorita tra il Tigri e l’Eufrate.
E pur appartenendo a un credo monoteista e quindi del tutto in antitesi con un pantheon fin troppo affollato, Sindbad è portato da Calasso nella tenda del Noè del politeismo sumero, Utnapishtim, perché ne ascolti con pieno ma incomprensibile trasporto i racconti relativi a divinità che dovrebbero anzichenò apparirgli “false e bugiarde” come quelle pagane ai cristiani. Talché Utnapishtim e Sindbad non si confrontano sulle opposte visioni del trascendente, né assumono una concezione sincretica che ponga l’elemento soprannaturale entro una teoria dell’assoluto, ma si dispongono il primo a narrare e il secondo ad ascoltare sulla base di una forza immanente e in qualche modo numinosa: il destino.
Senonché più che di una forza Calasso si serve di una forzatura, perché mentre per Utnapishtim la presenza del destino è nella sua stessa vicenda e nel racconto che fa dell’omonima Tavoletta, Sindbad non sembra invece averci alcuna attinenza, benché Calasso si sforzi di vederlo sotto il segno della predestinazione almeno in due occasioni: quando, per sostenere la fatalità dell’incontro con Utnapishtim, muta in “Sindbad il marinaio” “Hindbad il facchino” (in realtà in qualche traduzione chiamato proprio Sindbad) che, prima di diventare il ricco mercante, è stato un povero portatore di mercanzie, così da richiamare l’immagine dei pesi che gli dèi inferiori, gli Igigi, non si sentono più di sopportare per cui creano l’uomo; e quando, allo stesso scopo, fa dire a Sindbad che al ritorno da ogni suo viaggio qualcuno, scuotendo la testa, diceva “Non si sfugge al destino”, particolare questo che però non figura in nessuna versione del testo arabo.
Ma poco importa l’infingimento ai fini di Calasso, che assume Sindbad solo per dare un uditorio a Utnapishtim, il solo uomo del mondo antico mesopotamico scampato insieme con la famiglia al Diluvio universale perché salvi il genere umano e perciò premiato con il dono dell’immortalità. Calasso sa che se c’è un testimone diretto nonché protagonista della mitologia sumera, avendo vissuto i fatti precedenti al Diluvio, questo non può che essere proprio il prode re di Shuruppak, cioè il favorito del dio Enki, che sarà il più moderno Ea.
Del resto Utnapishtim, immortale sì ma confinato in solitudine nell’isola di Dilmun (ed è lì che fa naufragio Sindbad), ha un compito nella prospettiva di Calasso: tramandare i racconti della civiltà mesopotamica di cui è il solo custode, ciò che il destino (rectius: il genio di Calasso) vuole che faccia mercé uno dei principali e più noti personaggi delle Mille e una notte, il Sindbad che parte da Bagdad e torna dopo i suoi viaggi a Bassora occupando così i luoghi raccontati da Sherazade e offrendosi a Calasso come chiave di volta e ghiotto espediente: Sherazade vuole infatti salvare la vita sua e delle donne dell’impero attraverso i racconti che fa al sultano mentre Utnapishtim vuole salvare i racconti del proprio mondo e quindi la sua mitologia consegnandoli a un viaggiatore conterraneo come fossero un evangelium.
Tale consegna, nell’ordine di Calasso, segue lo stesso sviluppo confuso e discronico dei miti che si affastellano e fondono in un geyser di tempi, nomi, città, divinità mutanti e soprattutto di storie. Alle quali, scrive l’autore, non si chiedono i documenti, nel senso che non è richiesta la prova della loro veridicità e del fondamento temporale: “Le storie si concatenano tra loro come se già sapessero in quali punti disporsi”. Né Calasso assume un andamento progressivo di esse, perché (come Omero in apertura dell’Odissea) fa dire a Utnapishtim quando inizia il racconto: “Non so da dove cominciare. Anche da qualsiasi punto, si potrebbe”. In realtà l’incertezza e la confusione sono dovute appunto alla congerie di storie che costellano la mitologia sumera, accadica, assira e babilonese, mitologia che peraltro è sorta in lingue del tutto diverse, sebbene unica e uniforme sia la tradizione andata consolidandosi dall’inizio del terzo millennio al primo.
In questo quadro altro elemento di vicinanza che ricorre tra Utnapishtim e Sindbad è l’appartenenza di entrambi a universi narrativi estremamente ricchi, variegati e multisecolari nati in forma orale e poi trasposti in compilazioni scritte che nell’antica Mesopotamia hanno mutuato i generi dell’epica e del poema mentre nella Persia protoislamica quelli della prosa ornata favolistica ed evenemenziale. Se questa è la luce, occorre rendere merito a Calasso di aver saputo risvegliare non uno ma due mondi in qualche modo complementari, compenetrandoli nell’immagine suggestiva di Dilmun (isola oggi del Bahrain, cosparsa di bizzarri coni naturali di cui l’autore pubblica didascalicamente la sola foto presente nel libro), che porta Sindbad a dire di aver visto in essa il tempo: concezione che spiega la distanza di due epoche lontanissime e nello stesso tempo la loro prossimità nell’idea di un patrimonio di narrazioni germogliate nello stesso territorio in specie letterariamente diverse e su contenuti divergenti, uno mitico e l’altro romanzesco, uno religioso e l’altro profano.
Invero Calasso ci ha ben abituati a concepire i miti e le storie entro una sfera che prescinda dal tempo, sicché il solo riferimento temporale che qui troviamo è il Diluvio, posto a dividere tempi e temi in un prima e in un dopo, il resto apparendo come catafratto in dimensioni ataviche dove la cosmogonia è rappresentabile solo attraverso immagini icastiche del tipo “Indietro fino a quell’epoca in cui non c’erano ancora i nomi e, insieme ai nomi, i destini”, oppure “In quei giorni remoti quando il cielo si era da poco separato dalla terra”.
Nella sua isola cara agli dèi, prima che con Sindbad, Utnapishtim ha parlato soltanto con Gilgamesh, il re dell’antichissima Uruk che è andato a trovarlo per scoprire il segreto dell’immortalità: un fatto che si perde nella notte di ogni tempo, con l’effetto vorticoso di ricondurre l’immortale narratore nel cuore di eventi leggendari e primordiali pronti a costituirsi come miti. Ma Calasso ammassa non soltanto epoche remote e diverse combinandole in un tout de même ma anche le fonti letterarie che le sorreggono, sicché abbiamo come in un unico testo o in un solo presente poemi di secoli e millenni disparati, dall’Epopea della creazione al Mito di Anzu, dalla Saga di Gilgamesh al Poema di Erra.
Il suo talento, riconosciuto e più volte dimostrato, è la reductio ad unum, esercizio narratologico ed epistemologico che è anche una fascinazione quando l’autore toscano la esperisce per cercare il tesoro nascosto, l’arché che opera come signum individuationis. Che qui è la “tavoletta dei destini”, un talismano che un dio sumero superiore, un Anunnaki come Enlil, deve portare sempre al collo perché possa così decretare la vita degli uomini, che altrimenti si paralizzerebbe. Quando Enlil viene rapinato della tavoletta da Anzu, l’aquila leontocefala, in gioco c’è il potere supremo, quello che decide anche del destino degli dèi. Ma Calasso fatica non poco a dare una spiegazione a un mistero che rimane tale dai primordi della civiltà accadico-sumera fino ai fasti di quella assiro-babilonese, un rebus complicato anche dal fatto che il testo del Mito di Anzu ci è giunto gravemente danneggiato.
Ma pur in mancanza di una soluzione plausibile e razionale, per modo che la figura di Utnapsihtim non riesce ad assimilarsi in un quadro ispirato al destino, rimanendo fuori dalla Tavoletta, Calasso non si fa tentare dalla grande suggestione che, per iniziativa dell’azero-americano Zecharia Sitchin, ha fatto della cultura sumera uno startgate circa un’invasione di extraterrestri venuti dal fantomatico pianeta Nibiru. Anzi, ignorando totalmente le vertiginose teorie di una genesi avvenuta a opera di altri mondi, Calasso preferisce lasciare Utnapishtim nella sua isola del Golfo persico senza risposte: “Sono qui da tanti anni e non conosco le risposte. Anzi, mi sono disabituato a chiedere risposte”.
Il sumero immortale non poteva davvero averne, ma l’illuminato studioso italiano forse sì e l’ha ventilata prefigurando un mondo che, senza più il destino scritto nella tavoletta degli dèi, finisce nelle mani del caso. La fisica quantistica proprio a questa scoperta sta lavorando: all’influenza del caso nella vita cosmica, dove tutto è probabilità, accidente, imprevisto. Calasso ha però voluto fermarsi prima di Heisenberg, scegliendo un’altra isola che non la Helgoland dove il principio di indeterminazione è nato, cioè la Dilmun di Utnapishtim, rimasto a trasmettere le storie degli Anunnaki. Perché no? Entrambe le isole dopotutto sono dette sacre.

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Roberto Calasso
La tavoletta dei destini
pag.146, euro 18
Adelphi, 2020

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La scheda del libro: “La tavoletta dei destini” di Roberto Calasso (Adelphi)

In quel tempo remoto gli dèi si erano stan­cati degli uomini, che facevano troppo chiasso, disturbando il loro sonno, e deci­sero di scatenare il Diluvio per eliminarli. Ma uno di loro, Ea, dio delle acque dolci sotterranee, non era d’accordo e consi­gliò a un suo protetto, Utnapishtim, di co­struire un battello cubico dove ospitare uomini e animali. Così Utnapishtim salvò i viventi dal Diluvio.
Il sovrano degli dèi, Enlil, invece di puni­re Utnapishtim per la sua disobbedienza, gli concesse una vita senza fine, nell’isola di Dilmun. Il nome Utnapishtim significa «Ha trovato la vita».
Dopo qualche migliaio di anni approda a Dilmun un naufrago, Sindbad il Marina­io. Utnapishtim lo accoglie nella sua ten­da e i due cominciano a parlare. Ciò che Utnapishtim racconta è la materia di que­sto libro.

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Nato a Firenze, Roberto Calasso vive a Milano ed è presidente e consigliere delegato della casa editrice Adelphi. È autore di un work in progress di cui finora sono apparsi: La rovina di Kasch (Adelphi, 1983); Le nozze di Cadmo e Armonia (Adelphi, 1988); Ka, (Adelphi, 1996); K., (Adelphi, 2002); Il rosa Tiepolo, (Adelphi, 2006); La Folie Baudelaire, (Adelphi, 2008); L’ardore, (Adelphi 2010); Il Cacciatore Celeste, (Adelphi 2016); L’innominabile attuale, (Adelphi 2017); Il libro di tutti i libri, (Adelphi 2019); La tavoletta dei destini (Adelphi 2020).
Ha pubblicato inoltre L’impuro folle (1974), i saggi I quarantanove gradini (1991), La letteratura e gli dèi (2001), La follia che viene dalle Ninfe (2005) e la raccolta di risvolti Cento lettere a uno sconosciuto (2003).

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