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IL MISTERO DI PIAZZA DELL’ODIO di Massimo Smith: incontro con l’autore

marzo 17, 2021

“Il mistero di piazza dell’Odio” di Massimo Smith (Newton Compton): incontro con l’autore e un brano estratto dal libro

* * *

Massimo Smith È nato nel 1964 a Napoli, dove vive e lavora. Autore per il teatro e il cinema, è stato per due anni responsabile degli eventi pubblici del Premio Napoli, diretto da Ermanno Rea. È stato direttore editoriale delle case editrici Graus e Ad est dell’equatore.

Per Newton Compton, Massimo Smith ha pubbicato il suo nuovo romanzo: Il mistero di piazza dell’Odio.

Abbiamo chiesto all’autore di parlarcene…

* * *

«Abito nel cuore del centro storico di Napoli», ha detto Massimo Smith a Letteratitudine, «un luogo in cui saper ascoltare il silenzio delle pietre antiche è una delle chiavi empatiche che sbloccano la porta incardinata tra noi e l’essenza profonda della città.
A sera, quando scemano i rumori e l’assenza di movimento s’impadronisce delle stradine intorno al balcone da cui mi affaccio, pian piano mi sembra di riuscire a socchiudere quella porta per spiare cosa ci sia oltre.
E trovo il tempo.
Se ne sta lì, tranquillo, un bambino curvo sul suo gioco infinito.
Talvolta i suoi occhi mi sfiorano senza vedermi e ho imparato che è inutile tentare di parlargli: non appena uscite dalle mie labbra, le parole diventano ferro martoriato dalla ruggine, poi precipitano, sparendo nel nulla. Durante le mie prime visite era naturale muovere qualche passo verso di lui, ma oggi so quanto sia inutile provarci. A nessuno è concesso oltrepassare la soglia oltre la quale il bambino gioca assorto, perciò, a volersi intestardire, il pavimento di pietra scorre via sotto le scarpe e si resta immobili, semplicemente sospesi tra i propri attimi fragili e i millenni di Napoli. Adesso sto lì a guardarlo giocare, mentre sento le sue piccole dita portarmi via qualcosa a ogni tocco. Ci pensa il silenzio a restituirmi ciò che il bambino mi ha preso. Lo fa senza perdere un colpo, immune al minimo errore. Rifletto e m’accorgo di una nuova parola capace di accompagnare come nessuna prima un pensiero altrettanto giovane, o di gesti quieti mai compiuti finora, eppure tanto familiari da rasserenarmi come una carezza.
Forse scrivere è dare forma al silenzio, forse è solo uno dei tanti modi di raccontare. Non so rispondere, non l’ho ancora capito. Mi piace pensare di poter costruire una delle innumerevoli narrazioni degli infiniti intrecci possibili tra le esistenze. Reali o immaginarie, non importa: una storia vera riesce a esistere anche se il libro che potrebbe contenerla non verrà mai stampato.
Così, a sera, guardo le strade di Napoli, ascolto i loro silenzi e fantastico. Un’ombra che pare nascere da un muro diventa una donna che si aggira disperata, i fari di un’auto velati di pioggia si trasformano nelle torce elettriche di una caccia all’uomo, l’uggiolare di un cane si assomma al cigolio di un portone creando le esclamazioni strozzate in gola di una coppia che assiste a un delitto.
Il bambino gioca quieto dietro la porta mentre sospingo con leggerezza queste e altre immagini sotto gli orli delle mie storie, in maniera tale da non vedere come cambieranno senza che io me ne accorga, a mano a mano che scrivo. Poi arriva la vita a distrarmi attraverso lo squillo del cellulare o una voce.
Quando riabbasso gli occhi sulle parole, Napoli e il bambino del tempo hanno già portato i miei personaggi e le loro esistenze oltre la porta, dove io non posso andare.

Il mistero di piazza dell’Odio, come gli altri libri che ho scritto, è nato così. Ogni personaggio è la somma di più persone che conosco, i luoghi delle sue pagine sono i miei luoghi, le vicende che narro prendono spunto da fatti veri, accaduti sopra e sotto il piperno delle strade che percorro quotidianamente a piedi o su due ruote. Penso che non esista nulla di più sorprendentemente fantasioso della realtà, così cerco di convincerla a darmi una mano.
A volte risponde, a volte no, ma questa è un’altra storia».

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Un brano estratto da “Il mistero di piazza dell’Odio” di Massimo Smith (Newton Compton)

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I cocci di una bottiglia riflettevano la luce gialla e malata
di due lampioni.
Altri due, sbilenchi, pendevano ciechi nella semioscurità
in cui s’annidavano i contorni e i colori dei palazzi che cin-
gevano la piccola piazza quadrangolare lastricata di piperno
antico a pochi passi dal chiostro di Santa Chiara.
Alle quattro del mattino, il freddo di dicembre rendeva
tersa l’immobilità delle cose. Un gatto s’acquattò pigro sotto
un’auto in sosta, una finestra illuminata al secondo piano
sopra la saracinesca grigia del bar Battelli si spense, poi restò
solo il vento a far mulinare al rallentatore una manciata di cartacce.
L’unico portoncino che si apriva sulla piazza era fatto di
ferro ricoperto da innumerevoli strati di vernice lasciati
da mani più o meno capaci succedutesi decennio dopo decen-
nio. Forse i vetri erano fumé, forse solo sporchi, così la luce proveniente
dal piccolo atrio del fabbricato filtrava a fatica, rischiarando debolmente il lastricato.
Un lieve chiarore in movimento dall’alto in basso dietro
i vetri opachi, un cigolio e un tonfo sordo annunciarono
l’arrivo dell’ascensore al piano terra. Le porte automatiche
sbatterono due, tre volte contro qualcosa che ne impediva
l’apertura, poi trovarono requie, serrandosi di nuovo.
Silenzio.
Un cane si avvicinò al portoncino annusando, ascoltò per
un attimo e accostò il muso alle sbarre di ferro.
Il palmo di una mano schiaffeggiò il vetro dall’interno all’al-
tezza del muso del cane, che rinculò guaendo, la coda tra
le zampe e i canini in mostra. Sparì più veloce del pensiero.
Al posto della mano, ora s’intuiva una chiazza che s’allun-
gava verso la base del portoncino.
Lo scatto della serratura.
Il battente si disserrò centimetro dopo centimetro, lasciando
spazio a tre dita dalle unghie spezzate che artigliarono il me-
tallo sporcandolo di sangue fresco. Con una fatica immane, mugolando,
una ragazza seminuda, ricoperta di sangue e
ferite su tutto il corpo, si trascinò sul gradino strisciando
come una lumaca dalla bava porpora.
Aveva la bocca imbavagliata col nastro da pacchi, girato varie
volte intorno alla testa, i capelli ridotti a un grumo
informe, gli occhi sbarrati su una sofferenza indicibile.
Rotolò all’esterno, restando supina ad ansimare per un
tempo infinito. Gli slip e il reggiseno si perdevano nella
melassa rosso scuro che la ricopriva quasi completamente.
La ragazza tentò di tossire, contorcendosi per trattenere
un conato di vomito. Uno schizzo di sangue le sprizzò dalle
narici. S’inarcò gemendo, poi con uno sforzo sovrumano
riuscì ad afferrare uno degli stipiti del portoncino. Si accucciò
contro il battente, le palpebre serrate, il seno a sobbalzare sotto
i singhiozzi che la soffocavano.
Sollevò una mano tremante, cedendo varie volte alla fatica e al dolore,
finché non riuscì a toccare il muro accanto al
portoncino. Le unghie spezzate stridettero sull’intonaco,
la mano ricadde, poi tornò sul muro.
Non cercava punti d’appiglio, tentava di articolare gli
ultimi movimenti prima di morire. Per quattro volte si strofinò la
mano ormai quasi paralizzata sul ventre lucido di sangue, e
per quattro volte s’accanì a riportarla sul muro.
Si abbandonò al suolo mentre le pupille le si rovesciavano
all’insù. Tentò di inspirare torcendo il collo verso l’alto e ricadde.
Sussultò tre volte e smise di respirare.
Qualche minuto dopo, un’ombra uscì da una stradina se-
condaria che dava sulla piazza. Un ragazzo sui quattordici
anni, magro come un chiodo e con un cespuglio incolto
di capelli a ingigantirgli la testa, si stava avviando a passo
svelto verso il centro del quadrilatero quando notò l’ombra
accasciata accanto al portoncino.
Penò che fosse l’ennesimo ubriaco o un barbone addor-
mentato. Si guardò intorno, poi s’avvicinò, un sorriso cattivo a
disegnarglisi sul viso mentre si preparava a sferrare un calcio
al sacco d’immondizia umana che s’era lasciato cadere lì.
Quando comprese cosa stava vedendo, riuscì solo a spa-
lancare la bocca su un grido muto che non voleva saperne di s
chiodarglisi dalla gola. Chiuse la bocca, la riaprì, la richiuse
ancora.
Poi vide i segni tracciati col sangue sul muro.
E urlò con tutto il fiato che aveva.

(Riproduzione riservata)

© Newton Compton

 

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La scheda del libro: “Il mistero di piazza dell’Odio” di Massimo Smith (Newton Compton)

In una Napoli violenta e criminale sta per tornare a galla un terribile segreto. Marco Smith, autore per il teatro e per il cinema, ci regala un giallo dal ritmo narrativo serrato, dai dialoghi perfetti e con una trama avvincente e originale.

Appena uscito dal carcere di Rebibbia, dopo due anni di reclusione, Nico Guerra è costretto a lasciare Roma. Non è un posto sicuro per riassaporare la libertà, visto che ad aspettarlo ha trovato delle esplicite minacce di morte. Scappato a Napoli, Nico chiama Barbara Giuliani, una vecchia amica con la quale aveva avuto un’avventura ai tempi del liceo. Barbara, seppure risentita per non averlo più visto, si muove a compassione e lo ospita nel suo albergo – in realtà un bordello di lusso –, invitandolo alla massima discrezione. Nonostante il desiderio di Nico di starsene fuori dai guai, attorno all’albergo di Barbara sembrano concentrarsi attività decisamente inquietanti. E la strada di Nico si incrocia con quel­la di Soriano e Giappo, due falchi della polizia che indagano sulla lunga scia di sangue che scorre lungo le strade di Napoli, tracciata da un inafferrabile assassino chiamato “Vetro”…

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