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LA TIGRE DI NOTO di Simona Lo Iacono (recensione)

aprile 28, 2021

“La tigre di Noto” di Simona Lo Iacono (Neri Pozza)

[Il nuovo romanzo di Simona Lo Iacono, “La tigre di Noto“, sarà disponibile in libreria a partire da domani, 29 aprile. Venerdì 30 aprile 2021, alle h. 19, il libro sarà presentato in anteprima nazionale con la partecipazione dell’autrice presso la Libreria Bonanzinga con diretta sulla pagina Facebook della libreria (locandina in coda all’articolo).

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di Emma Di Rao

“E cosa sarebbe stata, poi, la vita se qualcuno non l’avesse raccontata?”. In queste parole, contenute nel romanzo L’albatro di Simona Lo Iacono, è forse da ricercare il momento generativo dell’ultima fatica letteraria della scrittrice, La tigre di Noto, edita da Neri Pozza. A permearne il dispositivo narrativo è infatti la ricostruzione della vicenda biografica di Marianna Ciccone che, nata a fine Ottocento nella città di Noto, dedicò l’intera esistenza all’insegnamento universitario e alla ricerca scientifica, rivedendo il luogo natio, “stazione di partenza e di ritorno”, solo in tarda età. Pervenuta all’autrice “per ignoti transiti”, tale figura ha poi assunto valenza letteraria in quello spazio, raro e prezioso, in cui personaggio e autore si incontrano e in cui la scrittura sottrae il vivere terreno al buio dell’indifferenza e dell’oblio.
Pur nel duro privilegio di una malinconica solitudine, l’iter esistenziale di Marianna Ciccone appare caratterizzato dall’indomita volontà di non lasciarsi soverchiare da un contesto decisamente ostile sia nell’ambito privato che in quello pubblico. Lo stesso titolo, d’altronde, è un’efficace metafora che sottintende la forza audace e dirompente con la quale la protagonista riesce a infrangere gli stereotipi e i pregiudizi di un assetto sociale in cui l’emarginazione femminile costituiva un elemento codificato.
Ricostruita dall’autrice in virtù di un accurato lavoro di ricerca, peraltro non facile per l’esiguità dei dati disponibili, l’immagine di Marianna Ciccone, quale emerge dalle pagine del romanzo, risulta fedele, in alcuni aspetti, alle testimonianze delle fonti, ma è soprattutto una suggestiva ed incomparabile creazione letteraria.
Simona Lo IaconoUna creazione a cui ha contribuito di certo la percezione soggettiva acquisita da Simona Lo Iacono nel suo ‘incontro’ empatico con una figura di così rilevante spessore umano e culturale. Chiedersi quanto tale rivisitazione sia rispondente al reale e quanto sia frutto della sensibilità artistica dell’autrice ci sembra poco rilevante: ogniqualvolta, infatti, si assiste alla nascita di un personaggio, è possibile osservare che quest’ultimo, anche qualora si tratti di una figura realmente esistita, inizia a vivere di vita propria, muovendosi lungo i nuovi percorsi tracciati dalla dimensione letteraria.
Al riguardo, occorre innanzitutto sottolineare la scelta di affidare la narrazione all’io personaggio e di far dunque coincidere quest’ultimo con la voce narrante. Tale scelta si configura come una modalità che permette di ricondurre alla prospettiva della protagonista ogni elemento facente parte del dispositivo del romanzo, creando una dimensione totalmente soggettiva e interiore. La narrazione autodiegetica accoglie tuttavia, già nel prologo, un atteggiamento interlocutorio dell’io personaggio verso un silenzioso ‘tu’ al quale si rivolge con tono intimo: “Guarda, del battesimo ho qui una foto sbiadita, l’unica che si è salvata dalle due guerre”. Con questa esortazione confidenziale, Marianna Ciccone, giunta al termine della propria vita – lo si deduce dall’annotazione Noto, marzo 1965 –, dà avvio al recupero memoriale che costituisce la tessitura della narrazione e che non si compone di frammenti affiorati disordinatamente dal buio informe del subconscio, ma di segmenti del vissuto quali affiorano da un album di famiglia mostrato ad una figura che non fa mai sentire la sua voce. Si tratta, a nostro avviso, di un espediente grazie al quale l’io narrante può non solo risemantizzare il passato ma fare anche numerose concessioni al meccanismo della nostalgia nei confronti di quella realtà isolana e familiare in cui la protagonista, già in tenera età, aveva sperimentato il più amaro senso di abbandono. Eppure, la voce narrante non è mai del tutto autoreferenziale o solipsistica, ma risulta inclusiva e dialogante con la dimensione esterna: la ‘catabasi’ che l’io personaggio compie all’interno del proprio essere  non coincide, infatti, solo con l’addentrarsi in un labirinto di emozioni e ricordi, ma è occasione per esprimere una visione e un’interpretazione del mondo, soprattutto in riferimento a  quelle circostanze drammatiche in cui “Un’urgenza aveva cominciato a scompaginare la realtà” e in cui “La Storia era in bilico. In punto di smarrirsi”.
Fin dalle prime pagine, il registro espressivo, pur nitido nella rappresentazione del reale, si carica di elementi di indubbia allusività, come nel brano in cui si definisce “imbronciata e perplessa” la neonata ritratta nella foto, in una sorta di vago presentimento della futura, malinconica propensione della protagonista a interrogarsi sull’esistenza. Allo stesso modo, il suo “occhio pesto che guardava in alto invece che in basso” può leggersi non tanto come un difetto di natura quanto come sguardo straniante, capace di volare e di “legarsi alla stravaganza delle cose”. Un “occhio solitario” che è segno esteriore di una personalità non integrata con il mondo circostante, allo stesso modo in cui “l’occhio strabico” del pirandelliano Mattia Pascal rivelava, nell’eccentricità dello sguardo, una diversità “fuori di chiave”. La singolarità della neonata appare anche nel suo “imbambolarsi” davanti alla luce, ulteriore anticipazione della capacità della studiosa di attraversare la luce e i suoi segreti, in un rapporto simile ad “un corpo a corpo in cui …di mezzo si metteva il buio”. Quel buio di cui, durante la notte, la giovanissima Marianna approfittava per studiare le leggi dell’ottica in un libro ‘proibito’ facente parte della biblioteca di famiglia: guidata dal chiarore della luna, poteva, in tal modo, constatare il dischiudersi della bellezza nei libri e stabilire un collegamento tra questi ultimi, che ci parlano attraverso le parole, e la natura, che si svela a noi in formule matematiche. Ecco perché leggere significa per la protagonista “approssimarsi al senso ultimo” mediante le parole, quelle parole che, al pari delle luminescenze, vengono da lei ritenute “stralci di qualcosa di più grande”, ma che sono anche definite, con un’ardita metafora, “atti vitali incarcerati” la cui liberazione richiede “una forza ascetica e rivoluzionaria”.
‘Sbocciata su un altro pianeta, disadorno, inattuale”, soprattutto a causa dell’occhio “irriguardoso”, Marianna cresce in un ambiente familiare gretto e immobile, rischiarato da pochissime figure dal profilo umano. Da esso deciderà, pur senza il consenso dei genitori, di allontanarsi definitivamente per iscriversi alla facoltà di Matematica presso la Sapienza di Roma. Un distacco tutt’altro che lieve o indolore se, durante il viaggio, in un settembre “in fuga” al pari del paesaggio intravisto dal treno, la giovane, estendendo il proprio stato d’animo alla realtà esterna, avverte che intorno a lei “tutto dava un lamento”.
Ben presto, contrassegnata dalle due guerre mondiali, la storia irrompe nella vita della protagonista mostrandole la propria tragicità e il non senso di una crudele barbarie. Un’autentica svolta epocale viene inoltre indotta dalle teorie di Einstein, le quali, nell’ambiente accademico della Normale di Pisa, dove la studiosa ha, nel frattempo, conseguito la laurea, venivano per lo più  definite “intuizioni di un pazzo” o “di un prestigiatore”. Chi, invece, è stato abituato dall’occhio “interdetto e scompigliato” a non stupirsi di nulla non esita a credere ad esse e al conseguente mutare dei paradigmi scientifici fino ad allora utilizzati.
Pur avendo compreso fin dall’infanzia che la propria condizione di donna sarebbe stata di ostacolo all’affermazione di sé e che, al contrario, “nascere uomo segnava un anticipo di fortuna”, Marianna Ciccone continua a dedicarsi con successo a straordinarie e importanti ricerche, muovendo sempre dalla persuasione che le conoscenze scientifiche non sono sufficienti a decifrare il mistero che costituisce l’essenza dell’universo. Ecco perché la rivoluzionaria scoperta che lo spazio non è stasi, bensì vita, – peraltro sostenuta “a livello puramente matematico” nella tesi di laurea dalla giovane scienziata – induce la voce narrante ad una commovente riflessione: “Lo spazio si agitava, si curvava. Un cuore, più che un luogo. Che batteva colpi cadenzati da una pena, da una condanna, dall’amore…”. Una poetica analogia da cui sembra affiorare l’eco di un dolore che, lungi dall’esaurirsi in lamento individuale, si configura come parte di una più vasta sofferenza, cosmica e universale.
simona-lo-iaconoCon la forza introspettiva che contraddistingue la sua scrittura, Simona Lo Iacono scandaglia l’animo della protagonista e ne mette in rilievo le pieghe più nascoste, delineando una personalità straordinaria in cui la ricchezza di intuizioni, conoscenze e interessi si coniuga con un innegabile vuoto affettivo. Lo si deduce soprattutto dal brano in cui l’io personaggio afferma di aver intuito che il proprio rapporto con la ricerca scientifica nasceva, al pari di tutte le relazioni d’amore, da una mancanza. Una mancanza le cui radici affondavano in una ferita inferta dalla ‘presenza assente’ della figura materna, interamente votata all’amore per il secondo figlio, anche lui “un diverso”, perché “estatico e sofferente”. Il profondo legame che unisce Marianna al fratello, il cui “unico difetto stava in quell’incomprensibile disinteresse per l’aria”, si nutre soprattutto della consapevolezza di un comune destino, come la seguente considerazione suggerisce: “il mio occhio storto viveva di complicità… con il suo respiro mozzato”. D’altronde, nell’ordito della narrazione, tutto ciò che appare imperfetto, vacillante o asimmetrico si rivela, in realtà, un formidabile strumento, e forse anche una condizione privilegiata, per accostarsi il più possibile alla verità. Da qui deriva l’adozione di uno sguardo che si addentra in profondità, a potenziare il quale contribuisce una disposizione trasognata e contemplativa, come si evince dalle domande che Marianna si pone quando dall’occhio “scompigliato” è chiamata “ad altri spazi solitari”: “Perché l’aria sconfinava nel cosmo? Cos’era che ci guidava verso l’eterno? Dove, dove correvano le stelle?”.
Pensosi interrogativi che evocano un’atmosfera quasi incantata e sospesa e che richiamano alla mente le domande poste alla luna dal pastore-filosofo leopardiano. Ne deriva una misura del linguaggio che può, a nostro avviso, ritenersi lirica, come si evince da altri ‘luoghi’ del romanzo in cui ricorrono valenze allusive e frequenti slittamenti dal reale alla visionarietà. Basti, fra i moltissimi esempi, il passo in cui la voce narrante rievoca il suo frequente rifugiarsi nel cielo durante l’infanzia: “Alla prima occasione, scappavo verso il campanile, dove all’ultimo piano si potevano scorgere le costellazioni in discesa e le morbide ellissi della luna. Orione palpitava con sgomento. Venere si preannunciava castissima… Contavo senza sosta le stelle”. Tale registro evocativo risulta peraltro consono alla doppia visione che la protagonista esercita sul mondo: da una parte, la realtà fenomenica è indagata con un abito mentale sicuramente scientifico, dall’altra, essa svela diramazioni profonde grazie ad una prospettiva in grado di cogliere le relazioni segrete che si instaurano tra i vari aspetti della natura e che vanno ben oltre i rapporti numerici.
Ed è soprattutto su questo tenero, inusitato colloquio tra due mondi, quello della scienza e quello della poesia, che Simona Lo Iacono costruisce la trama della sua nuova prova letteraria.
Nella ri-creazione del percorso esistenziale della studiosa netina, l’autrice ne evidenzia infatti un tratto significativo, ovvero l’aver considerato l’insegnamento un’occasione preziosa per mostrare che la comprensione della natura necessita anche di vie d’accesso ai fenomeni altrettanto feconde quanto l’esattezza matematica, come, ad esempio, il commosso stupirsi dinanzi alla bellezza.
Alla protagonista del romanzo viene inoltre attribuita una concezione dell’insegnamento come “progressiva rivelazione” e sostanziale apprendimento, concezione già espressa nel precedente romanzo, L’albatro, a conferma dell’esistenza di un fil rouge che attraversa le due opere.
Se è innegabile che l’interesse per la scienza e per la ricerca rappresenta il fattore in cui converge larga parte della vita interiore e intellettiva di Marianna Ciccone, è anche vero che quest’ultima appare dotata di un’accesa sensibilità. Non stupisce dunque che il suo animo sperimenti il profondo turbamento di “un amore impossibile e tardivo” a cui la protagonista dovrà tuttavia rinunciare, divenendo simile a “una Sherazade senza storia” o ad “una rondine fuori schieramento che aveva perso la rotta”.
Ed ancora, vale la pena soffermarsi sul ‘tu’ a cui l’io personaggio, fin dall’incipit del romanzo, illustra il proprio vissuto sulla scorta di vecchie foto. Dapprima indistinto e privo di qualsiasi connotazione, se non quella desumibile da una contiguità psicologica e affettiva con la voce narrante, il silenzioso interlocutore apparirà successivamente nella sua identità. Ed è un’identità che sorprende e commuove, poiché le trame dell’immaginazione si permeano qui di una struggente umanità: in modo del tutto inatteso, qualcuno – di cui non sveliamo la provenienza -, giunge nella vita di Marianna per mutare “la distruzione in amore”, per provare che “la bellezza non aveva smesso di nascondersi tra le rovine” e persino per “raddrizzare e allineare” l’occhio storto. Ma soprattutto per “risanare la stanchezza dell’uomo e del mondo”.
Va inoltre sottolineata la funzione salvifica che dal dispositivo della narrazione viene assegnata ai libri, quei libri che già nell’infanzia della protagonista “acquietavano l’incertezza, azzeravano il visibile, planavano sulla paura”: da essi, poeticamente definiti “i viventi, i predestinati”, la studiosa trarrà la forza e il coraggio di una tigre per opporsi, nell’estate del 1944, ai soldati tedeschi che si accingevano a depredare l’Istituto di Fisica dell’università di Pisa. D’altronde, in un brano di intensa suggestione, il personaggio di Cate, l’affittacamere che “amava i siciliani”, aveva affermato che la lettura, rendendoci esperti degli uomini e degli eventi, ci permette di divenire “profeti, mistici, visionari”. Da ciò la sua decisione di seppellire, con l’aiuto della protagonista, tutti i libri posseduti, nel timore che le venissero portati via.
Non stupisce, dunque, che un passo di elevata poeticità così reciti: “se c’era un luogo in cui seppellire i morti, quello era il libro. L’unica tomba presso la quale piangerli. L’unico posto che assicurava un ritorno”.
Allo stesso modo, non stupisce che La tigre di Noto riesca a “trattenere l’anima” di Marianna Ciccone e ad assicurarle un ‘ritorno’, permettendole di rinascere alle molteplici, ulteriori possibilità di vita che solo la scrittura letteraria è in grado di offrire.

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La scheda del libro: “La tigre di Noto” di Simona Lo Iacono (Neri Pozza)

Questo romanzo narra di Anna Maria Ciccone, una donna e una scienziata che visse in un’epoca che le fu ostile, un tempo di ostinati pregiudizi e barbarie totalitarie. Nata a Noto nel 1891, partì dalla sua Sicilia e arrivò a Pisa poco prima che scoppiasse la Grande Guerra per studiare fisica: unica donna del suo corso. Insegnò alla Normale e seguì per un’intera vita le traiettorie e le intermittenze della luce, perché la spettrometria era l’oggetto dei suoi studi. Studi che ebbero una vasta risonanza persino nel campo della nascente meccanica quantistica molecolare. Oggi diremmo che si impose in un mondo maschile. Ed è certamente vero. Oggi parleremmo della sua passione, della sua forza e del suo coraggio nel riuscire a salvare, nel 1944, i testi ebraici della biblioteca dell’università di Pisa dai nazisti che volevano requisirli e poi distruggerli. La sua figura non è riconducibile, tuttavia, soltanto alle sue pionieristiche ricerche o alle sue impavide azioni. Con uno sguardo che attraversa il suo tempo, Simona Lo Iacono ritrae la vita di una donna capace di affermare in ogni ambito dell’esistenza la forza della sua fragilità. Ne esce un romanzo che non si lascia definire, che ci costringe a convivere con una nostalgia tenace, il racconto di una geniale fisica e matematica che seppe mostrarsi al mondo con la compostezza e il pudore di chi, nel buio dell’universo, cerca di guadagnare sempre, con fede ostinata, un piccolo bagliore di conoscenza. Perché, parafrasando Goethe, è proprio quando le ombre sono più nere che riusciamo a scoprire il potere della luce.

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