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LA MANO di Georges Simenon (recensione)

agosto 23, 2021

La mano - Georges Simenon - copertina“La mano” di Georges Simenon (Adelphi – traduzione di Simona Mambrini)

È uscito di recente in Italia, pubblicato  da Adelphi, La mano, uno dei racconti più inquietanti del grande scrittore belga

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LA VERTIGINE E IL LABIRINTO. UNA NOTA SUL SIMENON AMERICANO

di Salvo Sequenzia

Leonardo Sciascia aveva una predilezione per Simenon, scrittore assai diverso da lui per quel vitalismo e quella frenesia che attraversano la sua vita e la sua opera, eppure, molto simile, se non contiguo, per alcune assonanze e per certe sfumature che caratterizzano i mondi letterari che entrambi hanno creato, come è stato dimostrato da alcuni studi recenti  (Di Grado 2014; Traina 2015; Squillacioti 2019).
L’attenzione dell’autore de Il  giorno della civetta  – divoratore dei gialli Mondadori negli anni giovanili –  era rivolta, soprattutto, al Simenon de Le finestre di fronte (1933), de Il borgomastro di Furnes (1939)  e de Il Presidente (1958): i  «brevi capolavori» nei quali la scrittura indaga, come acutamente notava Goffredo Parise (1985), il «clima metafisico del potere» e si fa referto balzachiano di un ambiente e di una società in cui il delitto è l’espressione, il sintomo, di un malessere esistenziale speculare al «disagio della civiltà» del quale il giallo costituisce una «forma» lucida e disincantata di rappresentazione, in linea con la tensione etico-civile che informa l’idea che Sciascia ha dello scrivere e della letteratura.
Su «L’Ora» di Palermo, ininterrottamente dal 1953 al 1961, e, quindi, su «Paese Sera», «L’Espresso», «Il Messaggero», «Il Mondo Nuovo», «La Stampa», almeno sino al 1985, Sciascia formulerà e riformulerà incessantemente la sua ‘teoria del giallo’ consegnandola a pagine densissime che procedono parallele ad una produzione letteraria – che muove da Il giorno della civetta (1961) per approdare a Una storia semplice (1987) – orientata sempre più ad assumere, per  osservarla, studiarla e trasformarla dall’interno, la forma di un  ‘non genere’  che, in quegli anni, in  Italia, era oggetto di ostracismo se non di dileggio da parte della  Repubblica delle Lettere, considerato quale paradigma irriducibile a una «formula» e a un ludus letterario (alla Poe, alla Gide, alla Dashiell Hammett) in grado di penetrare senza semplificazioni né modelli pre-costituiti il «gliommero» gaddiano dell’esistenza.  Non è un caso che Sciascia consideri – et pour causeQuer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957) di Carlo Emilio Gadda l’unica testimonianza, dopo la manzoniana Storia della Colonna infame,  di grande romanzo giallo italiano, il «più assoluto “giallo” che sia mai stato scritto, un “giallo” senza soluzione».
Scrivere un romanzo giallo, per Sciascia, come per Gadda, per Bernanos, per Marquez, per Cortazar, per Wallace, per Simenon vuol dire trasformare la morte di qualcuno in una esperienza del mondo e dell’esistenza umana narrabile, e per tanto afferrabile, comprensibile, nella misura della sua inattingibilità, della sua complessità, del suo mistero.
Sciascia nutre una profonda ammirazione per Simenon, per la sua scrittura in grado di penetrare le latitudini più oscure dell’uomo e di spingersi laddove ragione, istinto, bestialità, convenzione, legge e morale collidono cessando la loro azione e annientandosi nel ‘grado zero’, in quell’assoluto  nel quale si riduce e si individua la «grama sostanza» del vivere.
Oltre al ciclo dedicato alle storie di potere, di affari e di intreccio  politico, nel quale l’elemento conflittuale etico-esistenziale appare più cogente, è il ‘ciclo americano’ ad attirare, soprattutto, l’attenzione di Sciascia verso il mondo narrativo del padre di Maigret.
In effetti, il Simenon ‘americano’  rivela peculiarità notevoli rispetto al Simenon ‘continentale’, non soltanto per alcuni temi, per le declinazioni ‘geografiche’ in cui le storie sono collocate e per i ‘fondali’ sociologici che marcano personaggi, stili di vita,  comportamenti ed abitudini dei micro-cosmi che affiorano dalla narrazione, ma soprattutto, ed essenzialmente, per alcune caratteristiche che rendono più ‘sporca’, più ‘fuligginosa’ la pagina, e per un senso di vertigine che si avverte seguendo il ritmo della scrittura, mentre ci si inoltra nel cuore della storia e si entra in intimità con i personaggi giungendo ai recessi di un meccanismo narrativo concepito come un labirinto di geometrica perfezione.
Vertigine e labirinto marchiano a fuoco le pagine di La mano, pubblicata in questi giorni da Adelphi nell’ambito del progetto di ripubblicazione dei romanzi di Georges Simenon. La sobria e raffinata traduzione di Simona Mambrini  restituisce ai lettori una storia che ha la fredda, «crudele» bellezza di un diamante.
Finito di scrivere ad Èpalinges, nel cantone di Vaud,  il 29 aprile del 1968, La mano è un racconto-labirinto. Prigioniero di questo labirinto è il personaggio voce narrante della storia, Donald Dadd, un piccolo avvocato di provincia che conduce una vita agiata  a  Brentwood, nel Connecticut, insieme alla moglie Isabel e alle due figlie.
Il labirinto in cui è prigioniero Donald è rappresentato da uno spazio claustrofobico molto simile a quello descritto nelle storie del roman du crime e del  roman policier nel periodo di grande tensione politica e culturale apertosi in Francia con la caduta di Napoleone e con la rivoluzione del 1830: non ha nulla, perciò, a che vedere con le celle di sicurezza delle stazioni di polizia, con i quartieri malfamati e con il sudiciume degli appartamenti-tana dell’hard boiled americano degli anni Venti.  Il labirinto-carcere concepito da Simenon si configura come spazio dell’interdizione, dell’esclusione sociale e della follia, e  trae ispirazione dalle incisioni dell’architetto Giovan Battista Piranesi, considerato il fondatore dell’immaginario moderno del labirinto-prigione. Le sue Carceri d’Invenzione (1761) si costituiscono come il punto di partenza per qualsiasi riflessione che voglia indagare le rappresentazioni del labirinto-prigione, spazio essenzialmente di natura mentale, nella letteratura e nell’arte novecentesca.
Donald Dadd è, appunto, un recluso mentale, prigioniero dell’ambiente opulento in cui vive e nel quale le sue giornate scorrono  scandite in modo sempre uguale tra ufficio, salotto di casa, week end a Cape Cod e party in cui, tra un drink e una scialba conversazione, si intrecciano legami d’affari e di letto. Patricia, moglie dell’amico Harold Ashbridge, un ricco impresario,  o Mona, la moglie di Ray, il miglior amico di Donald sin dai tempi dell’università, appartengono al genere di  «donna che fa pensare a un letto». La moglie di Donald, Isabel, al contrario, non fa mai «pensare  a una camera da letto».
La piatta monotonia di questa tranquilla vita borghese viene sconvolta una sera d’inverno durante un party a casa degli Ashbridge. Mentre fuori si scatena una bufera di neve,  Donald  scopre casualmente Ray e Patricia appartati in intimità dentro un bagno. La circostanza sconvolge l’uomo sino al punto da scatenare in lui un prepotente istinto di odio nei confronti dell’amico fraterno e, al contempo, di desiderio sessuale nei confronti di Mona.
La tempesta di neve diventa metafora di un’anima che non si riconosce più nella vita  normale che sino a quel momento ha trascorso insieme alla moglie Isabel e che rimette in discussione la sua intera esistenza, sino al culmine di un tragico epilogo di liberazione dal labirinto-prigione delle ipocrisie, delle convenzioni sociali e familiari. Una mano «abbandonata accanto al […] materasso sul parquet del living room», quella di Mona, diventa il simbolo di una promessa di redenzione, di ciò che il protagonista   poteva avere e non ha avuto, o, che, poi, fatalmente ha avuto in parte ma troppo tardi, quando ormai non era  più «la stessa cosa».
Il giovane avvocato cresciuto a suon di buoni insegnamenti paterni  e diventato uomo,  marito e padre sotto lo sguardo  vigile e comprensivo della moglie, divenuta agli occhi di Donald il suo giudice più spietato, scopre di avere vissuto sino a quel momento in un carcere dove immensità e segregazione, vuoto e schiacciamento coesistono e si fondono rendendo tangibile ciò che è invisibile e inenunciabile.
La tranquillità di quel mondo assume connotati visivi ben riconoscibili.
Li cogliamo nell’epopea figurativa di Edward Hopper, il cantore dell’America notturna e provinciale, il pittore della solitudine e delle inquietudini esistenziali, il raffinato e impietoso osservatore – come Simenon – dell’uomo solo, dell’uomo schiacciato dalla propria vita che  nasconde dentro di se un  cerveau noir in cui si muovono i fantasmi che lo spingeranno al delirio e alla rovina. Il labirinto-prigione di Piranesi, che avrà la sua espansione ‘mediale’ nel set cinematografico di Alfred Hitchcock e nelle allucinazioni di Stanley Kubrik, si costituisce in Hopper come una luminosa e desolata ‘veduta’ di interni borghesi in cui mariti e mogli consumano il travaglio del loro legame; di bar frequentati da creature notturne abbandonate a se stesse; di paesaggi colti in una sorda, inquieta immobilità. Come l’occhio di una  mente sconvolta che non intravede più nessun spiraglio di uscita e di libertà, incatenata com’è nei concentrici viluppi di un labirinto senza uscita, le ‘vedute’ di Hopper  si aprono e si chiudono avvolgendosi in se stesse nella spirale di una dimensione di eternità, lasciando intuire, oltre il ‘muro bianco’ di una opacità crudele e ottundente, lo spiraglio  e la prospettiva di una felicità sempre rinviata e sempre negata, proiettando la pena in una sofferenza senza fine in cui la mente si smarrisce meditando, nella follia, atroci delitti.
Nell’universo sciasciano, ha scritto Claude Ambroise, il Potere equivale al ‘potere di dare la morte’, come nel modello archetipo del potere mafioso. Prova ne siano le uccisioni degli ‘investigatori’ sciasciani dal professor Laurana di A ciascuno il suo ( 1966) all’ispettore Rogas de Il Contesto (1971), fino al Vice de Il cavaliere  e la morte (1988). In Simenon, probabilmente, soltanto il console Adil Bey diviene vittima di un potere omicida inverificabile e inesplicabile; mentre il Presidente, o il borgomastro, uomini legati al potere politico, non uccidono né fanno uccidere, semmai uccidono ‘per omissione’, perché contemplano la morte altrui senza intervenire, anche là dove un loro intervento potrebbe essere risolutivo: come, appunto, accade per Donald nel corso del precipitare degli eventi del romanzo.
È  Donald a raccontare in prima persona questi eventi che si succedono in modo irrefrenabile incalzandolo, trascinandolo in una vertigine che travolge la sua intera esistenza e che lo scopre  étranger, solo, tra esseri umani inconoscibili.
Su questo dato di fatto è fondato il radicale pessimismo simenoniano: l’umana fraternità ai suoi occhi appare, verosimilmente, un luogo comune, contraddetto dall’evidente realtà della reciproca incomprensione e inconoscibilità.
Ma l’incomprensione e l’inconoscibilità possono trasformarsi anche in disamore e in odio.
Sin dall’inizio della lettera che Simenon scriverà alla madre –  la splendida Lettre à ma mère, che possiamo leggere nell’Appendice a Pedigree et autres romans, édition établie par Jacques Dubois et Benoît Denis pubblicata da Gallimard nella Biblioteque  de la Pléiade nel  2009 – il rapporto con la madre affiora  come  «mystère»,  come enigma, come  « un mur blanc»: un «muro bianco»  che isola, rinchiude e rende incomunicabile ogni esperienza di vita, tramutando la sofferenza in odio.
La vita ha insegnato alla madre a guardare il reale con occhi lucidi – Simenon nella lettera  allude alla sua «lucidité» – se non addirittura cinici. Proprio come gli occhi di Isabel ne La mano, personaggio che si rivela essere costruito sui lacerti di ricordi che Simenon aveva della propria madre.
Isabel, moglie tradita, ha trascorso gli anni del suo matrimonio vegliando con comprensione e premura sul marito, che, tuttavia, ha subìto le attenzioni della moglie  come una costrizione: prigioniero della sua mite indifferenza, Donald è terrorizzato dalla solitudine di cui lo ha circondato la sua carceriera e, dopo la relazione con Mona e il successivo abbandono, si sente addosso il peso opprimente dello sguardo giudicante di tutti coloro che lo conoscono, e cerca in tutti i modi di evadere da questa condizione, senza riuscirvi.
La prigione mentale in cui si trova avviluppato non ha uscita, e non vi è un’altra «mano», come quella di Mona, che si tende in suo aiuto.
L’unica evasione possibile è la morte, come ne La verite sur Bebe Donge (1942), o nella Lettre a mon juge (1947), altri due capolavori dello scrittore di Losanna.
Si  realizza, così, nello scioglimento risolutivo della nevrosi nella catarsi della morte, il destino che accomuna gran parte dei personaggi dei  romanzi di Simenon: creature piccolo-borghesi, grigie, dall’individualità amorfa, insoddisfatte, ateleologiche, inconsapevoli di se stesse, del bene e del male; destinate allo scacco, incapaci di tendere una «mano» verso gli altri per andare fiduciosi incontro al mondo.
Ne La mano  il ritmo della scrittura è serrato, incalzante. Fluisce liquido e avvolge il lettore tra le sue spire spingendolo con la spietata calcolata freddezza di un orologio sino all’orlo del precipizio, quando l’intreccio si risolve nella catastrophè finale. Il lettore si sente parte di questa tragedia; senza accorgersene, entra dentro la storia, la vive, assumendo lo statuto di personaggio. E si rende conto che i personaggi di questo romanzo non sono tipi o modelli tratti dal repertorio di genere. Simenon  non indulge alla maniera, né ricorre ai ferri del mestiere per imbastire caratteri e psicologie. La grande  nuit américaine lo inchioda alla vita. E alla scrittura.
Il risultato è un pezzo magistrale di letteratura, in cui la felicità del narrare incontra l’infelicità dell’esistenza. D’altra parte, è lo stesso Simenon ad ammettere che «scrivere non è una professione, ma una vocazione all’infelicità».

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La scheda del libro: “La mano” di Georges Simenon (Adelphi – traduzione di Simona Mambrini)

L’ultimo romanzo “americano” di Simenon – che, dopo averlo terminato, si dichiarò lui stesso turbato dalla crudeltà della vicenda.

Se Donald Dodd ha sposato Isabel anziché, come il suo amico Ray, una di quelle donne che fanno «pensare a un letto», se vive a Brentwood, Connecticut, anziché a New York, è perché ha sempre voluto che le cose, attorno a lui, «fossero solide, ordinate». Isabel è dolce, serena, indulgente, e in diciassette anni non gli ha mai rivolto un rimprovero. Eppure basta uno sguardo a fargli capire che lei intuisce, e non di rado disapprova, le sue azioni – perfino i suoi pensieri. Forse Isabel intuisce anche che gli capita di desiderarle, le donne di quel genere, «al punto da stringere i pugni per la rabbia». E quando, una notte che è ospite da loro, Ray scompare durante una terribile bufera di neve e Donald, che è andato a cercarlo, torna annunciando a lei e a Mona, la moglie dell’amico, di non essere riuscito a trovarlo, le ci vuole poco a intuire che mente, e a scoprire, poi, che in realtà è rimasto tutto il tempo nel fienile, a fumare una sigaretta dopo l’altra: perché era sbronzo, perché è vile – e perché cova un odio purissimo per quelli che al pari di Ray hanno avuto dalla vita ciò che a lui è stato negato. Isabel non dirà niente neanche quando Ray verrà trovato cadavere: si limiterà, ancora una volta, a rivolgere al marito uno di quei suoi sguardi acuminati e pieni di indulgenza. Né gli impedirà, pur non ignorando quanto sia attratto da Mona, di occuparsi, in veste di avvocato, della successione di Ray, e di far visita alla vedova più spesso del necessario. Ma Donald comincerà a non sopportare più quello sguardo che, giorno dopo giorno, lo spia, lo giudica – e quasi lo sbeffeggia.

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