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SIMONA VINCI racconta L’ALTRA CASA (Einaudi)

dicembre 14, 2021

Come nasce un romanzo? Per gli Autoracconti d’Autore di Letteratitudine: SIMONA VINCI racconta il suo romanzo “L’altra casa” (Einaudi)

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di Simona Vinci

Come ti muovi dentro una casa? Dipende se la casa è tua, se ci hai abitato e dunque la conosci in ogni angolo, dettaglio, anfratto, finitura; se sai distinguere la luce e l’ombra che girano intorno all’edificio a tutte le ore del giorno e mutano, all’interno, luminosità e atmosfera; se riconosci gli scricchiolii improvvisi degli infissi che si gonfiano e si sgonfiano per l’umidità o il calore quando la temperatura cambia, i rumori interni di avvio e riavvio della caldaia, lo scorrere dell’acqua nei tubi che la percorrono per onorare le esigenze umane o se di quella casa sei solo un ospite. Diverso è il tuo rapporto di intimità con la casa se invece non hai mai passato ore affacciato alle sue finestre o seduto su una delle sedie che arredano il soggiorno. Se tra quelle mura non hai mai pianto, amato, sofferto. Se non è accaduto, quella casa è un’estranea che devi imparare a conoscere: quanti giri di chiave, quale movimento preciso e con quanta forza per sbloccare una maniglia o l’anta di uno scuro. Una casa è come una persona, complicata, piena di segreti e di insidie, luce e oscurità, può essere sincera oppure mentirti, apparirti remissiva e nascondere diabolici trabocchetti. Tutte cose che si imparano con il tempo, con la consuetudine e forse, del tutto, mai.

Nella foto, Simona Vinci – courtesy © Isabella Beatrice De Maddalena

I luoghi da sempre guidano la mia produzione letteraria, la mia immaginazione ma, soprattutto, la mia vita. A volte la percepisco come una salvezza, altre come un impiccio, perché ci sono posti che mi trattengono e mi costringono a restare, o tornare, anche quando non vorrei.
Ho abitato in uno degli appartamenti ricavati dagli annessi di una villa settecentesca del bolognese dal 2000 al 2006. La villa l’avevo sempre, o quasi, vista da fuori. Dalle finestre del mio studio e della mia camera da letto, passeggiando lungo i viali del suo parco e contemplando il mutare delle stagioni. Rare, negli anni, le visite al suo interno, quando la proprietaria mi invitava per qualche chiacchiera, un aperitivo. Non mi ero mai fatta troppe domande sulla sua storia, era lì, con il suo intonaco giallo pallido, le delizie vetuste di un’epoca lontana, le infiorescenze di muffa bianca sul pavimento a scacchi e la delicatezza degli intonaci affrescati. Il sogno concreto di un tempo che non avevo vissuto, l’archetipo della casa misteriosa indagata dalla letteratura gotica che ho sempre amato, dalle Thornfield Hall in “Jane Eyre” e l’omonima “Cime Tempestose” delle sorelle Bronte alla malevola “Hill House” di Shirley Jackson, dalla casa Usher del racconto di Edgar Allan Poe, al maniero isolato di Bly ne “Il giro di vite” di Henry James. (E proprio un omaggio ad Henry James è il titolo “L’altra casa”, nato per caso senza che ancora avessi letto il romanzo.)
Per anni, ho sentito dire che la villa era appartenuta a una celebre cantante lirica della seconda metà dell’Ottocento, la mezzosoprano Giuseppina Pasqua, intima amica del Maestro Giuseppe Verdi e interprete di molte delle sue opere, nonché prima interprete in assoluto, nel ruolo di Madama Quickly, del Falstaff, l’ultima, grandiosa opera di Verdi. Sapevo che nella villa c’era stato un pianoforte sul quale il maestro si diceva avesse messo le mani, lavorato, suonato, studiato, chissà, forse anche composto. Quel pianoforte era poi andato regalato: non lo usava più nessuno e la proprietaria aveva bisogno di spazio. Ci sono momenti in cui abbiamo bisogno di buttare, dimenticare, fare piazza pulita dei residui di un passato che forse ci opprime e non ci fermiamo a riflettere più di tanto sulle implicazioni dei nostri gesti. A un certo punto, sempre per fare spazio, furono gettati sacchi pieni di preziosissimi costumi di scena dell’Ottocento, forse tarlati, ammuffiti, di certo impolverati e acciaccati da decenni di buio promiscuo al chiuso di un vecchio armadio. Allora non prestai la dovuta attenzione a questi disastri di una memoria storica che andava perduta: non ascoltavo musica lirica, sapevo poco della storia del melodramma. Ero appena andata a vivere altrove, e mi arrivavano notizie sulle quali non mi soffermavo, ma che introiettavo e sistemavo a mia insaputa in un cassetto della mente. La mente in effetti funziona come una casa: ha angoli bui, stanze segrete, luoghi umidi e ombrosi dove si sviluppano attaccamenti emotivi incomprensibili. Come l’affetto per questa villa: vivevo altrove, ma continuavo a tornare nel suo parco, soprattutto nei sogni, come se ci fosse qualcosa – qualcuno – che lì avevo lasciato in sospeso. Presenze dimenticate, mai raccontate, in bilico sul bordo dell’oblio.
Non è facile stabilire il punto d’inizio di un testo che hai scritto e che ha preso una forma che è diventata un libro. Vai indietro con il pensiero e non riesci a individuare la scintilla, lo scatto, solo dettagli che si accumulano, visioni, immaginazioni, frasi, snodi. Non ricordo con esattezza quale sia stato il momento in cui mi sono resa conto in maniera cosciente che per anni mi ero avvicinata all’idea di scrivere di una casa, un edificio, che accoglie e intrappola le persone e le loro vicende e le contiene in sé, eternamente vive, stratificate, perché ogni edificio vive in tanti tempi diversi, viene attraversato da molte esistenze e quelle che contiene per un certo periodo diventano parte della sua vicenda personale. Ho sempre pensato che le case avessero una personalità e dunque delle intenzioni e a un certo punto della mia conoscenza con quella casa particolare ho cominciato a chiedermi quali fossero le sue e perché ne ero da sempre così affascinata.
I personaggi che popolano il romanzo sono tanti e vivono in epoche diverse, alcuni sono realmente esistiti e lì hanno davvero abitato, altri no e forse per la prima volta in un mio romanzo ho lavorato in maniera tanto approfondita sui personaggi di fiction anche per questo: dovevo ai morti una sorta di ‘verità’, e potevo ottenerla affiancando loro personaggi fittizi credibili, con una loro logica interiore, una profondità.
E mentre ero lì, anno dopo anno, stagione dopo stagione, a un certo punto è arrivato il 2020 e con il 2020 la pandemia che ci ha sconvolto le vite, la quotidianità e ogni progetto. Chiusi nelle nostre case-prigione, noi che non facevamo mestieri che ci costringessero a uscire comunque, ci siamo aggrappati a quei pochi passi concessi intorno al perimetro di un posto che magari non amavamo per niente e al quale siamo stati condannati, per mesi. Io però avevo una via d’uscita, avevo avuto in prestito le chiavi di un’altra casa. Ho potuto, di tanto in tanto, strapparmi a quelle ore terrificanti di incertezza e paura e ho potuto approdare a un luogo altro, una dimensione differente del tempo e dello spazio. È stata una rivelazione accorgermi che per anni avevo girato intorno all’idea di un dramma da camera che non ha sviluppo orizzontale, ma verticale, in cui tutti i personaggi sono, in un modo o nell’altro, costretti in un perimetro, una sorta di cerchio magico dal quale è impossibile uscire. La sola via di fuga possibile era forse nel tempo? Ho capito che avrei dovuto mettere da parte tutto ciò in cui avevo creduto fino a quel momento anche a questo riguardo, lasciarmi guidare dalla casa, e così ho fatto. Ho salito e sceso le rampe di scale centinaia di volte accarezzando i muri, ho pulito i sanitari e tolto la polvere ogni volta che si riformava, ho acceso il camino, cucinato, cercato le tracce di quelli che dentro quella casa avevano vissuto e che l’avevano modellata con i loro desideri, le loro sofferenze, senza forzarli a raccontare ciò che non desideravano fosse raccontato. Ho cercato di mantenere una deferenza inflessibile per questi ambienti che mi ospitavano e volevano svelarsi, ma non fino in fondo. Il mistero è qualcosa che può essere messo in scena, in parole, in musica, indagato e poi mescolato all’immaginazione, perché questo fa la letteratura: cerca nuclei di verità falsificando, e di certo qualcosa rivela, ma non spiega. Ho scoperto che esiste una soglia permeabile tra mondi che si può attraversare. Una porta che è possibile aprire e richiudere. L’esistenza bussa da entrambe le parti. Dentro e fuori. E finché non avremo compiuto un certo viaggio – che per ognuno è differente – anche attraverso il nostro muoverci fisicamente nei posti che abitiamo o dei quali siamo ospiti non sapremo davvero quale sia il senso del nostro esistere, qui e ora.

(Riproduzione riservata)

© courtesy of robertosantachiaraliteraryagency

© Simona Vinci

[questo testo è stato originariamente pubblicato su “Tuttolibri” de La Stampa]

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La scheda del libro: “L’altra casa” di Simona Vinci (Einaudi)

L' altra casa - Simona Vinci - copertinaUna villa del Settecento in mezzo alla pianura. E un quartetto di personaggi in crisi, ossessionati dal fallimento e dal bisogno di soldi. La casa li avvolge e li sconvolge, per metterli definitivamente di fronte al proprio destino.

«Immaginò che da qualche parte potesse esserci l’ingresso di un tunnel segreto che conduceva alle viscere della Terra, in una caverna oscura che conteneva il cuore grasso e pulsante della casa. Un cuore enorme, un cuore tripartito come quello dei rettili e collegato alle vene e ai capillari vegetali che percorrevano muri e tetto».

A cosa siamo disposti a rinunciare per seguire le nostre passioni? E quanto delle nostre passioni siamo pronti a trasformare in merce, per il denaro e la posizione sociale? Maura ha rinunciato a quasi tutto per la musica, ma adesso non sa se riuscirà piú a cantare come prima: è un soprano piuttosto famoso che ha appena subito un intervento alla tiroide, e ha pure smesso di credere nel legame sentimentale con Fred, il suo agente. Tuttavia ha accettato lo stesso di partecipare all’evento culturale che lui e Marco stanno organizzando in una villa alle porte di Bologna, evento in cui lei dovrà interpretare i cavalli di battaglia di Giuseppina Pasqua, la cantante lirica amatissima da Verdi alla quale era appartenuta la casa assieme al suo misterioso giardino. Ad aiutarla a prepararsi sarà Ursula, la moglie di Marco: è nata in Russia e sarebbe diventata una pianista classica se la sua infanzia non fosse stata segnata dall’abbandono. Presto nella villa cominciano ad accadere fatti inquietanti e senza spiegazione, che trascinano prima le due donne poi anche gli uomini in una spirale di allucinato sospetto. Indagando in modo originale il rapporto tra passione e sacrificio, ma anche le ombre della maternità, la ferocia e l’urgenza delle relazioni umane, e l’affascinante mistero del tempo, Simona Vinci racconta il momento in cui, davanti a tutte le nostre mancanze, siamo costretti a decidere della nostra vita. E lo fa con una costruzione narrativa che ci incanta e imprigiona come la villa in cui è ambientata.

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Simona Vinci (Milano, 1970) vive a Budrio. Per Einaudi ha pubblicato Dei bambini non si sa niente (1997, 2009 e 2018), la raccolta di racconti In tutti i sensi come l’amore (1999) e i romanzi Come prima delle madri (2003, 2004 e 2019), Brother and Sister (2004), Stanza 411 (2006 e 2018), Strada Provinciale Tre (2007), La prima verità, (2016) Parla, mia paura (2017), In tutti i sensi come l’amore (2018), Rovina (2019) e L’altra casa (2021). Ha scritto il racconto La più piccola cosa pubblicato nell’antologia Le ragazze che dovresti conoscere (2004) e ha collaborato alla raccolta Sei fuori posto (2010).

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