“Trema la notte” di Nadia Terranova (Einaudi)
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di Daniela Sessa
Si narra che Colapesce mollò per un attimo, tremendo e fatale, la colonna franta sotto capo Peloro e tutto venne giù. Si narra che Scilla e Cariddi, colte di sorpresa, cominciarono l’una a ululare e l’altra a muoversi vorticosamente e tutto il mare dello Stretto si riversò su Messina e Reggio. Potremmo inventarcelo così, il terremoto che nella notte del 27 dicembre 1908 distrusse Messina e Reggio Calabria. Potremmo farne epica e mito come ogni fatto che segna un confine invalicabile tra storia e archetipo. Possiamo farne leggenda come ogni evento che resta nella memoria e si fa cunto: lo fece qualche anno fa Carlo Muratori nelle pagine e nelle note dense di “Dies irae”. In una delle quattro storie raccolte su quel terremoto si leggono questi versi “Lu mari rivudia misu ‘nfurtura,/ Missina si nacava lientu lientu…/’nzima ca divintau na sipurtura” (Il mare ribolliva mosso a tempesta/ Messina si dondolava lenta lenta…/ fino che diventò una sepoltura); in altri si dice la brutalità, soma di ogni tragedia: un soldataccio taglia le dita a un cadavere di donna per rubare un anello. Potremmo raccontarlo in ogni lingua che conosce la devastazione e il dolore, la memoria e l’oblio, una lingua capace di mescolare in quel cataclisma cronaca e fantasmi. Si può, a patto che a mettere le parole e le ombre sia Nadia Terranova, che dello Stretto è parte, è sirena, è flauto. Quello che resta dopo aver letto il suo ultimo romanzo “Trema la notte” è sconquasso. Sconquasso della terra e delle cose. Le ferite della terra e delle cose si sommano ad altre ferite della Sicilia, figlia e figliastra della Natura. Quello che resta, arrivati all’ultima pagina del romanzo, è il riverbero di un boato. Chi ha avuto l’esperienza di un terremoto, il boato lo avverte con lo stesso fiuto del cane cirneco, però spostato nelle orecchie. Il boato non dà nemmeno il tempo di capire e viene giù tutto. Resta lo sconquasso a radice e memoria di ogni realizzata speranza: la speranza dei due protagonisti Nicola e Barbara, i fantasmi viventi di questa storia che Nadia Terranova ricostruisce camminando sulle macerie e spostandole con la forza delle parole. Perché in “Trema la notte” il terremoto si replica ed è un terremoto della scrittura. Se c’è una cosa davvero sorprendente nel romanzo di Nadia Terranova è la creazione di una lingua originale per dire un tempo passato, ma non tanto da esigere lo iato espressivo, eppure così evocativa. Letteraria. Terranova ha chiamato a sé Verga e Consolo, Calvino e Casimiro Piccolo, in un’immagine si intravede “La ciociara” di De Sica e nel titolo un ideale chiasmo con “La terra trema” di Visconti. Ne deriva una prosa suadente e controllata al tempo stesso, vetusta e accurata, che mai indugia sul colore dialettale. Trema è il grimaldello lessicale per aprire la storia di un pezzo di Sicilia e di una città. Il tremore è lo spasmo del cuore e lo sguardo febbrile, che Terranova posa sul dolore e sulla bellezza dei suoi luoghi descritti con delicato e struggente lirismo. Messina e la speculare Reggio vengono attraversate, mostrate, scaraventate nella Storia che non sa prendersi cura di loro: restano lì, come la palazzata, “mascella senza denti che sfiatava fumo”. I soccorsi, la sfilata dei monarchi, gli aiuti internazionali, la carità della Chiesa sono spesso una secchiata d’acqua sporca sopra un gigantesco incendio. La gente resta ai margini, vestita del raccatto dei morti e degli sconosciuti, affamata nonostante distribuzioni di cibo, spesso però avariato. A ogni disastro naturale segue la spasmodica ricerca della dignità perduta, delle cose e delle persone. “Noi, sagome smarginate dentro nuvole di fumo incendiario e calcinacci”: ecco i personaggi di questo romanzo. Sono tanti e sono incontri, individui tra la folla, simboli viventi, declinazioni della vita (Jutta e Madame le figure più belle, Maria e il soldato le più imperdonabili) restituiti a questa storia come Vittorini le restituì a Silvestro in Sicilia e Manzoni le cavò dalla folla a Milano. Un romanzo storico reso strabico dalla metamorfosi dell’evento in sorte. “Trema la notte” è un omaggio a Calvino combinatore dei destini (come in “Il castello dei destini incrociati” i ventidue capitoli prendono il nome dagli Arcani, e sono brevi come una girata della carta) e a quell’impasto di esoterismo, superstizione e credenze di cui è fatta la cultura siciliana. La buona e la mala sorte si scambiano la voce nel romanzo che racconta due anni della vita del piccolo Nicola, l’Appeso, che unico della sua famiglia sopravvissuto al terremoto vuole attraversare lo Stretto e raggiungere Messina da Reggio ma la sorte lo porta al Nord. Due anni della vita di Barbara che vuole fuggire da Messina verso il nord, approfittando della tragica libertà offerta dal terremoto ma la sorte la ferma a Messina. Due Scilla e Cariddi rovesciati: subiscono e non danno la morte e il dolore, la paura e la vergogna, la perdita e la violenza. Come le due sponde dello Stretto Nicola e Barbara si immaginano, si parlano senza saperlo, si riconoscono: figli di una stessa identità che coincide con la ricerca della libertà. Il terremoto diventa una belluina possibilità: per Nicola di liberarsi dalla botola in cui la madre chiudeva la sua fanciullezza; per Barbara di realizzarsi come donna – emulando Letteria Montorio, la scrittrice messinese che qui Nadia Terranova estrae dalle macerie dell’oblio – sottraendosi al matrimonio combinato dal padre. Si incontrano senza vedersi, Nicola e Barbara quando dalla cicatrice aperta di Messina spurga l’oltraggio del corpo e quando anni dopo la storia può trovare la parola. La parola è ricostruzione. Quella negata alle città e quella afferrata dai due personaggi. Sarebbe, però, dimezzata la lettura di questo romanzo se si brancolasse soltanto sopra le pietre e le lapidi di quella pagina di storia. “Trema la notte” è una superba riflessione sul perché della scrittura. In tralice, c’è il romanzo di un’urgenza: raccontare. Raccontare è decidere il destino: ogni tarocco un senso, un movente, un traguardo, un sentiero. Raccontare mettendosi nelle due sponde dello stretto, due sponde che aprono e chiudono il libro. “Da ragazzina, fantasticavo che nella città di fronte vivesse un bambino affacciato a una finestra uguale alla mia” dice la voce narrante, dice Nadia Terranova all’inizio di questo romanzo (può mai la scrittura non essere autobiografica?). La fantasia, alla fine del romanzo, è diventata materia narrativa, necessità di scrivere per non dimenticare. Sulla sponda d’approdo il tremore della parola diventa, credeteci, il tremore di chi la legge.
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La scheda del libro: “Trema la notte” di Nadia Terranova (Einaudi)
«C’è qualcosa di piú forte del dolore, ed è l’abitudine». Lo sa bene l’undicenne Nicola, che passa ogni notte in cantina legato a un catafalco, e sogna di scappare da una madre vessatoria, la moglie del piú grande produttore di bergamotto della Calabria. Dall’altra parte del mare, Barbara, arrivata in treno a Messina per assistere all’Aida, progetta, con tutta la ribellione dei suoi vent’anni, una fuga dal padre, che vuole farle sposare un uomo di cui non è innamorata. I loro desideri di libertà saranno esauditi, ma a un prezzo altissimo. La terra trema, e il mondo di Barbara e quello di Nicola si sbriciolano, letteralmente. Adesso che hanno perso tutto, entrambi rimpiangono la loro vecchia prigione. Adesso che sono soli, non possono che aggirarsi indifesi tra le rovine, in mezzo agli altri superstiti, finché il destino non li fa incontrare: per pochi istanti, ma cosí violenti che resteranno indelebili. In un modo primordiale, precosciente, i due saranno uniti per sempre.
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Nadia Terranova (Messina, 1978) vive a Roma. Per Einaudi ha scritto i romanzi Gli anni al contrario (2015, vincitore di numerosi premi tra cui il Bagutta Opera Prima, il Brancati e l’americano The Bridge Book Award, e 2016), Addio fantasmi (2018, finalista al Premio Strega, e 2021) e Trema la notte (2022). È tradotta in tutto il mondo. Collabora con le pagine culturali della «Repubblica» e della «Stampa». Tiene su «Vanity Fair» la rubrica settimanale Sirene, ritratti di donne contemporanee, ed è la curatrice di «K», la rivista letteraria de «Linkiesta».
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