“Randagi” di Marco Amerighi (Bollati Boringhieri): incontro con l’autore e un brano estratto dal romanzo.
“Randagi” è nella dozzina dei libri finalisti all’edizione 2022 del Premio Strega
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Marco Amerighi vive a Milano, dove lavora come traduttore, editor e ghostwriter per varie case editrici. Il suo romanzo d’esordio, Le nostre ore contate (Mondadori, 2018), ha vinto il premio Bagutta Opera Prima ed è stato pubblicato in Francia.
Randagi è il suo secondo romanzo.
Abbiamo chiesto all’autore di parlarcene…
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«Voglio provare a raccontarvi come nasce Randagi. O, forse, dovrei dire quando nasce.
Alcuni anni fa mi trovavo a un bivio», ha detto Marco Amerighi a Letteratitudine. «Avevo da poco finito di scrivere il mio primo romanzo. Non sapendo nulla del mondo editoriale, né di quale fosse il miglior percorso per esordire, lo avevo stampato e consegnato a due o tre grosse case editrici.
Dopo diversi mesi una delle tre mi aveva risposto, sembrava interessata, solo che alla fine il libro non era stato pubblicato e io ero rimasto confinato in un limbo di ulteriori attese e mancate risposte. Mi trovavo a un bivio, di fronte a una scelta binaria e dolorosa: da una parte, potevo lasciar perdere, far finta di non aver mai scritto quel libro, seppellire la delusione e adattarmi a vivere una vita sicura (che non era quella che sognavo ma che almeno mi avrebbe tenuto lontano da altre scottature); dall’altra, potevo rimboccarmi le maniche, scuotermi di dosso lo sconforto e lanciarmi alla ricerca di un percorso più soddisfacente e, proprio perché incerto, più rischioso.
In quel momento, anche se ancora non potevo saperlo, è nato Pietro Benati, il protagonista di Randagi.
Anche lui, all’inizio del romanzo, si trova a un bivio: da una parte vorrebbe liberarsi dall’ombra della famiglia ingombrante in cui è cresciuto (fatta di nonni eroi di guerra, padri fascinosi ma truffaldini, e fratelli con un magico tocco da “re Mida”), ma dall’altra ha paura, una paura tremenda di recidere il cordone ombelicale che lo tiene ancorato a quella casa, e a Pisa, perché teme che una volta libero andrà incontro al più sonoro dei fallimenti. E quindi? Un bel dilemma.
Come avrete intuito io alla fine mi sono buttato, ho rischiato (continuando a scrivere, con sempre maggiore consapevolezza e forza). E l’ha fatto anche Pietro. Anche se, in realtà, non di sua volontà. Il merito è stato di suo fratello maggiore Tommaso, un mezzo genio della matematica, un campione sportivo, un dongiovanni: l’esatto contrario di lui in tutto. Comunque sia, grazie a lui Pietro per la prima volta in vita sua si butta in acque che non conosce e, seppure con grossa fatica, impara a nuotare.
È stato solo allora, dopo l’atto di coraggio di Pietro, che è fiorita la seconda idea del romanzo: quella dei randagi. Quando Pietro si allontana dalla famiglia e inizia a vivere da solo, in un’altra nazione, incontra una serie di ragazze e ragazzi che, come lui, sembrano muoversi senza punti di riferimento politici, sociali o esistenziali. Sono ragazze e ragazzi (nati tra la fine degli anni Settanta e l’inizio dei Novanta) cresciuti nella certezza che la vita avrebbe offerto loro felicità e successo, una felicità e un successo che i loro nonni avevano ricostruito dalle macerie della Seconda Guerra mondiale, che i loro genitori avevano gonfiato e lucidato negli anni del boom economico… E invece… e invece a loro non è toccato niente. Perché la loro è stata la prima generazione della decrescita, la prima a vivere in condizioni di instabilità economica, politica e sociale maggiore dei loro predecessori. Una intera generazione che ha scoperto che all’orizzonte non l’aspettava la “luce verde” di cui parlava Fitzgerald ne Il grande Gatsby. Per loro non c’era proprio nessuna luce. E questa scoperta dolorosa li ha destabilizzati, spaesati a tal punto da farli diventare raminghi – randagi appunto – come in preda a un terremoto invisibile.
Un terremoto che io ho deciso di amplificare innestando nella storia di finzione alcuni fatti reali (come i fatti del G8 di Genova nella prima parte, gli attentati terroristici di Madrid nella seconda, fino alla terza dove si accenna ai moti di contestazione studentesca) che hanno sancito la rottura definitiva delle illusioni di queste ragazze e questi ragazzi.
I randagi hanno solo una certezza a cui aggrapparsi, e cioè che là fuori ci sono molti altri randagi come loro, con i quali riconoscersi, allearsi, leccarsi le ferite e spalleggiarsi nelle loro battaglie.
Molte altre idee sono nate strada facendo, come spesso capita quando si scrive. Si parte da un’idea, o due, e poi se ne sommano altre cento. E poi si aggiunge un’idea di stile. E poi di mondo. E poi di politica… E, insomma, ho fatto così anch’io. E il risultato è che mi sono ritrovato tra le mani qualcosa di più simile a un universo che a un romanzo: una costellazione di luoghi, personaggi e vite. La cosa bella di quando ti capita è che puoi fare un passo indietro e lasciare che il lettore ci entri dentro, e viva in libertà quell’universo e quei personaggi, sperando che li ami quanto li hai amati tu».
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Un brano estratto da “Randagi” di Marco Amerighi (Bollati Boringhieri)

[L’inizio del capitolo Turbolenze (o farsi un’idea su Dora), a p. 99, il momento del primo incontro tra il protagonista Pietro e Dora].
La notte del 6 dicembre 2003 Madrid si preparava alla nevicata più copiosa degli ultimi vent’anni. Il sindaco aveva disposto la chiusura di scuole e parchi, e più di duecento voli in uscita erano stati cancellati. In calle Moyano, a due passi dal museo del Prado, i librai avevano rivestito i tetti dei chioschi dell’usato con enormi teli di plastica colorata, mentre nei dintorni di Plaza Mayor le statue viventi erano smontate dai piedistalli per rintanarsi nei bar de tapas ancora truccate da faraoni o da Don Chisciotte, cedendo lo scettro dei marciapiedi ai senzatetto e alle prostitute di calle Montera. I meteorologi avevano previsto tra i sessanta e i novanta centimetri di neve ma si auguravano che il dispiego eccezionale di spazzaneve, mezzi spargisale, polizia e pompieri avrebbe arginato l’emergenza in un massimo di quarantotto ore. L’unica precauzione da rispettare, ripetevano i conduttori a ogni edizione dei notiziari, era stivare la cucina di generi alimentari, tenere a portata di mano coperte e candele per i probabili black-out e uscire di casa il meno possibile.
Dora Asturias Manfredini si presentò alla festa The End of The World, in una mansarda del quartiere Lavapiés, con un paio di pantaloncini di jeans tagliati sotto il sedere, calze nere a coste, stivaletti di pelle verdemare, e una T-shirt dei Metallica a cui erano state strappate le maniche. Se il padrone di casa di quella mansarda in camicia bianca e golfino salmone sulle spalle la tampinava con la telecamera per catturare «lo spirito della serata», se qualcuno con aria fintamente maldestra la urtava per attaccare bottone o se un ragazzo la invitava a ballare, lei si girava dall’altra parte senza sforzarsi di aggiungere una parola carina all’occhiataccia con cui li fulminava. Era stata lei stessa a dire al fidanzato (un tizio calvo di nome Enrique che non le si scollava di dosso) che se non ballava come tutti gli altri non era perché non amasse «dimenarsi come una puttana» ma perché aveva il terrore di vedersi dal di fuori e trovarsi «una creatura orribile e sola».
Pietro Benati era finito là dentro inseguendo il suo amico Davide che, a sua volta, stava pedinando una bionda in mantella nera che era «la copia sputata di Kim Basinger in L.A. Confidential ». Quando aveva raggiunto la finestra per togliersi dalla calca, aveva notato Dora. Sebbene il suo ragazzo le parlasse senza tregua, lei teneva lo sguardo fisso sul vetro e agitava una sigaretta spenta come se stesse ricamando una veste preziosa.
«Belle tette. La conosci?» gli sussurrò Davide all’orecchio, dopo aver dato per persa la bionda.
«Chi?»
«La tipa che stai fissando».
«No».
«Rimediamo subito» disse, e le andò incontro con l’accendino.
Davide era il primo laureando di una famiglia semianalfabeta di pastori ciociari e tutto in lui, il naso prominente, le spalle larghe, i riccioli color grano, restituiva un’incontestabile sensazione di affidabilità. Pietro, al contrario, a ventitré anni era il ritratto della trascuratezza: camicia larga per nascondere una dieta malsana e l’inettitudine sportiva; capelli lunghi legati in un codino rosso scolorito; guance impressionabili da adolescente; un paio di Adidas Gazelle ai piedi che un tempo dovevano essere state verdi e che ora sembravano due sacchetti biodegradabili troppo colmi.
Dora poggiò il gomito sulla spalla del calvo come fosse stata la cornice di un caminetto. «Gracias, no fumo».
«Yo soy Davide».
Porgendole la mano bloccò il passaggio a un tipo che sulle note di una canzone di Michael Jackson si avvicinava a un gruppetto di ragazze barcollando come uno zombie, immaginando di risultare simpatico.
«Y él es Pietro» disse, facendo cenno all’amico di raggiungerli.
La ragazza strizzò l’occhio al suo accompagnatore. «¿Qué te dije? Italianos».
Quindi aprì il palmo della mano e il calvo le consegnò una banconota da dieci euro. Come se non avesse realmente assistito a quella scena, Davide sciorinò le quattro frasi in croce che aveva imparato al corso preparatorio di lingua spagnola frequentato durante le prime settimane a Madrid.
«Estoy aquí de Erasmus. Estudio Ingeniería en la Universidad Complutense. Tengo venticuatro años. Vivo en Roma».
Pietro, che rimuginava spesso sul suo nuovo amico, era arrivato alla conclusione che alternava momenti di genialità purissima alle più rovinose cadute di stile che avesse mai visto. A ogni modo, era una persona paziente e sincera, quello nessuno poteva negarlo, e per trascorrere i primi mesi della sua vita lontano da casa Pietro non avrebbe potuto desiderare nulla di meglio.
«E da Roma vieni a Madrid tutte le mattine?»
Davide aprì la bocca ma, invece di una risposta che lo tirasse fuori dall’imbarazzo, sul labbro inferiore si affacciò solo un recinto di denti imbrattato dai resti di una tortilla di patate.
«Mia madre è di Milano. Io sono nata a Madrid, ma ho vissuto in Italia durante qualche anno».
Il saliscendi dell’italiano cozzava con la durezza di un volto che doveva aver fornito quella spiegazione in centinaia di occasioni.
«Per qualche anno». Pietro la corresse senza pensarci.
(Riproduzione riservata)
© 2021 Bollati Boringhieri editore, Torino
Pubblicato in accordo con The Italian Literary Agency
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La scheda del libro: “Randagi” di Marco Amerighi (Bollati Boringhieri)
A Pisa, in un appartamento zeppo di quadri e strumenti musicali affacciato sulla Torre pendente, Pietro Benati aspetta di scomparire. A quanto dice sua madre, sulla loro famiglia grava una maledizione: prima o poi tutti i Benati maschi tagliano la corda e Pietro – ultimogenito fifone e senza qualità – non farà eccezione.
Il primo era stato il nonno, disperso durante la guerra in Etiopia e rimpatriato l’anno dopo con disonore. Il secondo, nel 1988, quello scommettitore incallito del padre, Berto, tornato a casa dopo un mese senza il mignolo della mano destra. Quando uno scandalo travolge la famiglia, Pietro si convince che il suo turno è alle porte. Invece a svanire nel nulla è suo fratello maggiore Tommaso, promessa del calcio, genio della matematica e unico punto di riferimento di Pietro; a cui invece, ancora una volta, non accade un bel niente.
Per quanto impegno metta nella carriera musicale, nell’università o con le ragazze, per quanto cambi città e nazione, per quanto cerchi di tagliare i ponti con quel truffatore del padre o quella ipocondriaca della madre, la sua vita resta un indecifrabile susseguirsi di fallimenti e delusioni. Almeno finché non incontra due creature raminghe e confuse come lui: Laurent, un gigolò con il pallino delle nuotate notturne e l’alcol, e Dora, un’appassionata di film horror con un dolore opposto al suo. E, accanto a loro, finalmente Pietro si accende.
Con una trama ricca di personaggi sgangherati e commoventi, e una voce in grado di rinnovare linguaggi e stili senza rinunciare al calore della tradizione, Randagi è un abbagliante romanzo sulla giovinezza e su quei fragilissimi legami nati per caso che nascondono il potere di cambiare le nostre vite. Un affresco che restituisce tutta la complessità di una generazione: ferita, delusa e sradicata dal mondo, ma non ancora disposta a darsi per vinta.
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