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VALICHI di Giovanni Parrini

Maggio 6, 2022

Valichi - Giovanni Parrini - copertina“Valichi” di Giovanni Parrini (Moretti & Vitali)

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di Filomena Ciavarella

I versi di Giovanni Parrini si presentano profondamente concreti, calati nell’esistenza e, in particolare, nella contemporaneità; entrano nei dettagli del reale, attraversando valichi, campi scomparsi, visitando stazioni di servizio, percorrendo strade oppure tunnel ferroviari in costruzione, riuscendo a raccontare il vuoto, «un vuoto di ferite fonde», ognora presente nelle storie del mondo.
Il poeta sa intuire, percepire l’oltre delle cose (tanto per riprendere il titolo di una sua opera del 2011, uscita dai tipi dell’editore Interlinea) nella dimensione del vissuto quotidiano.
La nostalgia del poeta scava nella materia, insegue il flusso di coscienza e ritrova la lieve casa dell’essere nella memoria, laddove ancora abita l’attimo scomparso. La razionalità è vinta dall’intimo dolore per la lenta agonia di ogni ente, cantato in un modo che, talora, potrebbe definirsi quasi orfico. La voce immensa dell’assenza che ci fa «credere e tremare» è tensione verso il volto nascosto della luna, teologia negativa che intona note vitali, accorate, di uno spartito invisibile. La malinconia, quasi un pungolo kierkegaardiano nella carne, resuscita tutto quanto è perduto, in un flatus vocis che sfiora i ricordi, accarezzandone la carica esistenziale. Parrini ricrea «la prima luce che entra timida dalla finestra / nel buio scava un viso caro cancellato / che a chiamarlo sorride», avvertendo «in questa poca esistenza l’infinito di un’altra». In Parrini, vi sono improvvise registrazioni di momenti e relativi dettagli che rappresentano altrettante occasioni di riflessione; una riflessione puntualmente sospesa tra oscuro sgomento e luce della continuazione, come nei versi che seguono

Un altro giorno che comincia uguale
eppure così diverso
da lasciarci stanchi e smarriti
se ora il significato si fa oscuro
dolce la prova di continuare
un po’ per volta
tra volo e caduta.

e possono ricordare i movimenti dell’albatro di Baudelaire, in cielo, e il suo goffo camminare sulla terra; oppure, anche in un passaggio quando lo sguardo indugia sull’immagine contenuta in una pozzanghera, dove appaiono «meccaniche celesti liquefatte», «anni luce annullati», lontananze che «si cercano per non tremare sole»; o ancora, laddove il poeta osserva la sezione di un albero tagliato, i «cerchi su cerchi», metafora di tempi andati e lì cristallizzati nelle fibre, mentre occhieggia comunque il fuoco della vita «nel verde nuovo, nel bruno secco». C’è come una vertigine diffusa nella finitezza dei dettagli, dove l’agonia di ogni ferita trema nell’intimo cuore. Il dolore umano commuove la mente; sono le virgiliane «lacrimae rerum» che si versano ancora, per fortuna, nella fredda luce contemporanea. È anche una poesia visionaria, quella di Parrini, dalle profonde iridi, e osa ricreare, riaccendere ogni battito perso nell’universo, attraverso il timore e il tremore dell’atto creativo; un tentativo sottile di guardare alla condizione della nostra provvisorietà, all’ineludibile vacuità che ci assedia ma, nella quale è il potente strumento della parola poetica a trovare la bellezza perduta, l’armonia necessaria a potersi dire vivi.
La curvatura esistenziale dei versi accarezza la perdita, il fiume dei ricordi che ritornano vivi nella tenerezza di uno sguardo materno, «Siamo solo un nome / quello dei primi attimi / un nome e basta / sognato da qualcuno come fosse l’intero creato / bello come non mai / quanto non lo sapeva / che a chiamarlo sembrava rispondesse l’immensità / e si facesse piccola / nel blu d’una coperta con la luna ricamata / sospesa sopra il viso a guardarci dormire». Sottile ma forte è la presa d’atto della dimensione umana, come si legge nel passaggio «e noi iddii superbi per un po’  di potenza / un niente di presenza / che tra poco, uno a uno, andiamo via alla spicciolata / una notte qualunque», parole la cui metafisica è realizzata attraverso una lingua che tesse appropriati correlativi oggettivi, insegue dappertutto un significato altro, perfino in una foglia che lentamente muore; una parola poetica che s’innesta nella semplicità del quotidiano, dove il mistero compie i suoi giochi, le sue sparizioni, come in un frenetico e anonimo cantiere autostradale, dove si respira «asfalto fumante e profumo di verde in agonia»; oppure, ancora, in un cantiere ferroviario, quando l’intima sofferenza della materia è rappresentata da «schianti di massi spaccati nel bruno violentato dai tunnel» e da «alberi guerrieri devoti a un precetto di linfe». Qui, il poeta parla attraverso un io narrante infradiegetico e omodiegetico, un anonimo tecnico del  cantiere, il quale, forse per sopravvivere a se stesso, si scopre a immaginare, a sognare, «una via invisibile, parallela, vicina» a quella reale, durissima, scavata fra «gneiss e calcescisti» ma pure amaramente a domandarsi «cosa resterà in questo buio violato: forse la pena, oltre che nostra, quella incomprensibile che sento del monte agonizzante, povero come noi». È la rivincita dello spirito dolcemente e dolorosamente riflessivo sull’azione, peraltro necessaria, e pare levarsi un miserere, sanguinare linfa oltraggiata dall’onnipotenza della razza incompiuta e inquieta, quella umana; è percepibile lo scontro tra linguaggi diversi: quello primevo di una natura violentata e quello artificiale, presuntuoso, della Storia umana. Il sentimento di Parrini può forse richiamare un po’ quello delle riflessioni esposte dal Leopardi nel giardino cosiddetto “del dolore” – un noto passo dello Zibaldone – in cui anche la rosa è offesa dal sole, il giglio è ferito dall’ape che ne sugge crudelmente il nettare. Il sentimento del martirio di ogni ente – il cui mistero è provvidamente precluso, come spesso, magari anche solo in filigrana, asserisce l’autore – si appalesa, per quanto sfuggente, anche in alcuni versi dedicati a un albero eliminato dalle ruspe, per far posto a una strada, cosicché quando il vento passa da lì non trova che un ottuso vuoto, e non può  più, come un tempo, creare la sua musica, attraversando i rami. Ed è la voce poetica, allora, a ritrovare, umilmente, emozioni perdute, come l’elegiaca «ruvidità di scorza», per esempio, o «un via vai di formiche» oppure la razione «di colpi del pallone» dati agli alberi, ancora fermi in un lontano momento della giovinezza; è uno Stabat Mater, questo canto, privo com’è di dogmi, facili sdolcinature, orpelli; un canto che, comunque, non narra soltanto la Natura, ma pure i tanti momenti che ognuno ha occasione di vivere, quotidianamente, magari apparentemente poco significativi, i più scialbi, tipici di luoghi non-luoghi della contemporaneità: ad esempio, quelli che trascorrono in una stazione di servizio autostradale, dove l’attesa è «emorragia opaca» e negli occhi passano «immagini lontane / aghi brucianti nella coda dell’occhio / fino al distributore». Si tratta di versi vivi, che accarezzano la profondità di ogni battito, raccontano l’odissea dello spirito che, muovendo dalla pochezza delle piccole occasioni, scende nelle profondità del mare magmatico, misterioso, che ognuna di esse cela e, per un istante, lascia intravedere.
Parrini sperimenta intimamente un disegno che mai si compie ed è forte il desiderio, la nostalgia, di quello che Adorno chiama “totalmente altro”: «lasciarmi alla grandezza che fa altro di noi / conosce il destino di quella foglia / perché  tremo guardando la radice dell’albero caduto». È una visione oscillante fra estasi e percezione del nulla, folgorata «dalla foglia che vola nello spazio della finestra / fra le voglie del vento». La bellezza ha in sé la perdizione, la finitezza che ricorda il sentire commosso, agonizzante, il martirio del principe Myškin, de L’idiota, di Dostoevskij. Il  poeta vive la tormentosa consapevolezza che niente può essere profondamente posseduto, perché mai c’è un compiersi  «d’amore e d’egoismo».
È un continuo negarsi e ritrovarsi, quello dell’autore, nel confronto fra opposti e richiama alla mente la rosa platonica – bellissima perché irraggiungibile e irraggiungibile perché bellissima – di Borges oppure la montaliana Farfalla di Dinard. Anche se, poi, lo sguardo si apre a una seppur timida speranza, posandosi sugli stormi che prendono «le misure del cielo / con quella gratuità / che ti fa un nodo in gola di passione e di pena».
Talora, sono proprio gli elementi naturali a funzionare quali narratori, come quando è un fiore a diventare protagonista e, personificato, descrive la scena senza tempo in cui un ragazzo lo coglie per donarlo a una ragazza: «mi stringevi lo stelo fra le mani delicatamente / avevi gli occhi fissi luccicanti sulla mia corolla / ci legò primavera»; un momento, però, non privo dell’angoscia rappresentata dalla morte, in questo caso del fiore, descritta da un «deliquio di petali». Merita poi rilevare una caratteristica formale che i versi di Parrini possiedono, ovvero il ritmo, la musicalità che, in genere, li impronta, al di là dell’amarezza o durezza dei contenuti; leggendoli, mi sovviene la musicalità cui esplicitamente Shakespeare accenna nel Sonetto 128, dove le dita (quelle della donna amata, in tal caso), suonando uno strumento musicale, fanno spandere dalle corde un’armonia tale da incantare, forse turbare, l’orecchio («The wiry concord that mine ear confounds»).
È una condizione esistenziale, quella di Parrini, che si direbbe fortemente panteistica, se vogliamo, in cui ogni dettaglio minimo è accarezzato, anche il filo d’erba più insignificante, una goccia di pioggia, un albero, come se attraverso tale contatto (visivo e, non di meno, tattile od olfattivo) potessero essere superati i confini della materia. E tale condizione vive costantemente nella (e della) percezione dell’attimo precipite che depotenzia la gloria, la vanifica, come accade nella Elegy written in a country churchyard di Thomas Gray, un autore tradotto dal poeta, fra l’altro. Sembra rinascere la diffusa bellezza decadente dei cigni nel lago di Hälfte des Lebens (Metà della vita) di Hölderlin. La casa dell’essere ritorna nelle fucine dell’estasi, sui rami estivi bagnati, sotto la luce meridiana, attraverso il potere nostalgico della poesia, capace di ricreare il sogno nel vuoto esistenziale. La parola contiene, trasforma, l’incandescente ferro, lo plasma nell’abisso della contemporaneità con toni talora colloquiali, tessuti sulla trama della nostra quotidiana avventura, dove continuamente c’è separazione, annullamento, seppure il poeta non si rassegni mai ad alcun addio, e cerchi la commozione capace di ridisegnare eventi e oggetti indegni di particolare attenzione, come una lampada per eliminare gli insetti, col suo «viola incantatore», in una sera estiva, quando nell’aria c’è esuberanza naturale e invisibile morte.
Ed è appunto la componente invisibile della realtà a diffondersi nelle perentorie ma fasulle evidenze nostre, esplodendo laddove la razionalità tenderebbe a incenerire il miracolo del mito, facendo «i rami gioielli», in «questo lancinante addio», passando attraverso le modeste palafitte esistenziali che ci rendono isole, in apparenza tanto differenti, ma «che il mare riassapora, rende uguali». Si tratta di versi che custodiscono un’alchimia misteriosa, consapevoli del lento dissolversi del tutto, nati da un intimo tremore, «da un nero fondo di grilli», sotto un cielo stellato, quando il naufragio nel nulla eterno si presenta nella sua ineludibile drammaticità ma anche in un’ineffabile, estrema, bellezza.
Ed è, in ultima analisi, questo attrito costante tra dolore e bellezza ad improntare i versi di Parrini, rendendoli potenti, unici nel panorama dell’odierna poesia italiana.

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