“Le case dai tetti rossi” di Alessandro Moscè (Fandango): incontro con l’autore e un brano estratto dal romanzo
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Alessandro Moscè è nato ad Ancona nel 1969 e vive a Fabriano. Si occupa di letteratura italiana. È presente in varie antologie e riviste italiane e straniere. I suoi libri di poesia sono tradotti in Francia, Spagna, Romania, Venezuela, Stati Uniti, Argentina e Messico. Ha pubblicato saggi, curato antologie poetiche e romanzi. Si occupa di critica letteraria su vari giornali. Ha ideato il periodico di arte e letteratura Prospettiva e dirige il Premio Nazionale di Narrativa e Poesia “Città di Fabriano”.
Il nuovo libro di Alessandro Moscè si intitola “Le case dai tetti rossi” (Fandango): un romanzo definito come “Il racconto poetico e illuminante di un pezzo di storia del Novecento spesso dimenticato, una riflessione emozionante sulla follia, l’integrazione e la libertà”.
Abbiamo chiesto all’autore di parlarcene…
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«“Il romanzo Le case dai tetti rossi, casupole simili alle caserme, è imperniato sull’alienazione mentale», ha detto Alessandro Moscè a Letteratitudine. «I miei nonni materni abitavano nei pressi del manicomio di Ancona e ricordo quella struttura sin da quando ero bambino. Faccio mio il tema dell’alienazione mentale a partire dagli anni Sessanta immaginando di recuperare il diario di Arduino il giardiniere.
Con un lavoro certosino ho rintracciato le vite di alcuni degenti e dipendenti del manicomio. Qualcuno me li ha descritti come in un rito atavico. Da piccolo ero entrato nell’istituto con il coetaneo Luca, il figlio di Arduino e ho ricordi nitidi. Inquadro la galleria dolceamara dei personaggi mediante i loro sintomi e i gesti, ironici e disobbedienti. Il direttore Guido Lazzari, figura molto umana sulla falsariga di Basaglia è uno dei protagonisti principali, così come il dottor Enrico Fermenti. Suor Germana funge da caposala inflessibile ma con un animo gentile. Nazzareno è per tutti l’omino del padiglione degli innocui con un portamento da clown. Negli anni, con l’avvento dei nuovi farmaci e la promulgazione della legge 180, la struttura ospedaliera diventò parte integrante della città, fino al punto che alcuni degenti riuscirono ad uscire e ad affrontare degnamente l’esistenza quotidiana. La narrazione è anche il racconto dell’amore, nonostante tutto, e del tentativo di ritrovare un’identità perduta.
Una volta adulto, occupandomi di inchieste giornalistiche, entro per l’ultima volta nelle case dai tetti rossi: il luogo negli anni Duemila è stato trasformato in poliambulatori e ospita una caserma delle guardie forestali. La vita di quei soggetti reclusi, il tentativo di uscire da una condizione di isolamento, nonché i vecchi trattamenti sanitari subiti dai ricoverati, sono temi universali che consentono di capire quale grande rivoluzione fu attuata in Italia con l’introduzione della Legge Basaglia e con la chiusura dei manicomi, la più grande conquista sociale nata con il Sessantotto al pari dello Statuto dei Lavoratori. Il mio romanzo, dunque, ha anche uno sfondo di tipo sociologico”».
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Un brano estratto da “Le case dai tetti rossi” di Alessandro Moscè (Fandango)

Arduino viveva ad Ancona. Voleva fare il giardiniere anche quando era studente e dopo aver lasciato la facoltà di Agraria. Il verde era il suo colore preferito: quello dei campi da calcio inglesi, ben curati, uniformi nell’altezza, irrigati. Ha lavorato in manicomio per trentaquattro anni. Quando venne assunto nel 1962, quel posto era simile a una caserma. L’impianto seguiva i padiglioni che comunicavano, di arcata in arcata, per mezzo di porticati. All’ingresso, dopo la portineria, due stabili erano riservati agli ospiti benestanti. A destra la palazzina confinava con la farmacia, il pronto soccorso e la cucina. I villini presentavano prospetti in laterizio a pasta gialla con cornicioni implementati in stucco dipinto. I porticati avevano gli archi a sesto ribassato da coperture di legno e con il manto tagliato in coppi. Nel mezzo c’era il villino della direzione affidata al professor Guido Lazzari e, attiguo, lo stanzone dei medicinali. Gli uomini e le donne, separati da una rete metallica che divideva gli stabili, erano tenuti in custodia da suore e infermieri. “Se non fai il bravo ti mando ai tetti rossi”, dicevano ai figli i venditori con i carretti di frutta e verdura. Provenivano dai colli di Jesi e si alzavano all’alba. Salivano tutti insieme su un furgone dell’Alfa Romeo o sui motocarri a tre ruote, ognuno con le proprie cassette di legno. Qualcuno aveva la Lambretta e non andava con gli altri nei mezzi presi in prestito dalle rimesse. C’era ancora chi razionava l’olio, il lardo e lo strutto, convinto che la guerra potesse tornare.
Il manicomio di Ancona era una piccola città con centinaia di ospiti. I tetti rossi, del colore del sangue, accoglievano i barboni, i malnutriti, gli ubriaconi, chi era tornato dalla guerra frastornato, con una pallottola conficcata da qualche parte, chi non riusciva ad alzarsi dal letto, chi era nato straccu, stanco, chi aveva una deformazione fisica e chi era figlio di genitori strani, spostati, con il diavolo in corpo, il diaolo. Ci finivano anche gli epilettici che cadevano a terra, si pensava che le convulsioni fossero una malattia mentale ereditata, che il malocchio avesse consumato cuore e anima del paziente, non solo il cervello. Questi erano i segnati da Dio, di cui bisognava diffidare. I fori de testa, gli schizofrenici, conservavano lo sguardo fisso, l’orbita degli occhi sproporzionata e le braccia lungo un corpo filiforme o lievitato. Nessuno sembrava avere una linea normale, tutti avevano un fisico allungato, striminzito, ingrassato a dismisura. Negli anni sessanta ai piani di sopra del manicomio risiedevano i violenti, gli incontrollabili, gli psicotici. Ancona aveva paura dei suoi matti e chi transitava da quelle parti allungava il passo, non si girava, faceva gli scongiuri, chiudeva gli occhi. Ai bambini si proibiva di guardare i padiglioni e i pazienti che sbirciavano da una sbarra all’altra o tra le fessure del cancello d’entrata. Un infermiere aveva riferito che si usavano metodi tutt’altro che ortodossi per lenire i mali e che non sarebbe mai guarito nessuno. Gli uomini violenti venivano chiusi nelle stanze con un materasso a terra, senza molle, nudi, con una coperta sulle spalle, quando i loro lamenti diventavano ululati e non c’era modo di farli zittire. Orinavano e defecavano a terra, senza pudore. Cuscì se pensava al riò, al rione, anche tra coloro che diceano be’ de tuti. Una cittadella di invisibili, il manicomio, che la gente del posto, negli anni del boom economico, avrebbe preferito non avere nei dintorni, come fosse un’onta, un ingombro. E chi abitava nel rione era condannato a essere un cittadino di una serie inferiore. “Vive vicino ai tetti rossi, occhio”, commentavano i ragazzi, quasi che il manicomio propagasse un virus infettivo, la scabbia o il tifo.
(Riproduzione riservata)
© Fandango
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La scheda del libro: “Le case dai tetti rossi” di Alessandro Moscè (Fandango)
In occasione della vendita della casa di nonna Altera e nonno Ernesto, Alessandro torna ai tetti rossi, ovvero la grande struttura dell’ex ospedale psichiatrico di Ancona, complesso di palazzine nel verde inaugurato a inizi Novecento e riconvertito dopo la Legge Basaglia del 1978.
Il distacco dalla casa dell’infanzia diventa per lui la soglia di un viaggio nel tempo, nei ricordi di quando ragazzino gironzolava intorno ai cancelli per vedere i matti, gli internati, di quando Ancona e le Marche tutte confinavano tra quelle mura chi non aveva retto alla Seconda guerra mondiale: le ex prostitute, gli ossessivi, i paranoici e semplici sbandati infliggendo loro rivazioni e pene corporali.
A dare una svolta alla gestione dell’ospedale, sulla falsariga di Basaglia, Alessandro ricorda fu il dottor Lazzari, assistito da medici, da suor Germana e dal giardiniere Arduino, re dei fiori e delle piante medicinali.
Oggetto del loro tentativo di un ospedale più umano l’uomo-giraffa, il pirata, Franca che sogna i nazisti, Adele che non ricorda nulla se non Mussolini, Giordano che quando non colleziona bottoni pensa solo al Napoli calcio.
Alessandro entra nei loro cuori e, compassionevole, ci descrive gli ospiti del manicomio come senso, spirito, emozione, paura, speranza.
Gioia, tristezza, euforia, disperazione. La sfida di una follia curabile si intreccia ai teneri ricordi famigliari, fatti anche di odori e sapori di un mondo perduto, e al campo da calcio su cui lui e Luca, il figlio del giardiniere, sfidarono i matti in una grande partita con squadre miste.
Il racconto poetico e illuminante di un pezzo di storia del Novecento spesso dimenticato, una riflessione emozionante sulla follia, l’integrazione e la libertà.
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Alessandro Moscè è nato ad Ancona nel 1969 e vive a Fabriano. Si occupa di letteratura italiana. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro 2005), Stanze all’aperto (Moretti & Vitali 2008), Hotel della notte (Aragno 2013, Premio San Tommaso D’Aquino), la plaquette in e-book Finché l’alba non rischiara le ringhiere (Laboratori Poesia 2017) e La vestaglia del padre (Aragno 2019). E’ presente in varie antologie e riviste italiane e straniere. I suoi libri di poesia sono tradotti in Francia, Spagna, Romania, Venezuela, Stati Uniti, Argentina e Messico. Ha pubblicato il saggio narrato Il viaggiatore residente (Cattedrale 2009) e i romanzi Il talento della malattia (Avagliano 2012), L’età bianca (Avagliano 2016), Gli ultimi giorni di Anita Ekberg (Melville 2018, finalista al Premio Flaiano). Ha dato alle stampe l’antologia di poeti italiani contemporanei Lirici e visionari (Il lavoro editoriale 2003); i libri di saggi critici Luoghi del Novecento (Marsilio 2004), Tra due secoli (Neftasia 2007), Galleria del millennio (Raffaelli 2016), Alberto Bevilacqua. Materna parola (Il Rio 2020) e l’antologia di poeti italiani del secondo Novecento, tradotta negli Stati Uniti, The new italian poetry (Gradiva 2006). Si occupa di critica letteraria su vari giornali, tra cui il quotidiano “Il Foglio”. Ha ideato il periodico di arte e letteratura “Prospettiva” e dirige il Premio Nazionale di Narrativa e Poesia “Città di Fabriano”. Il suo sito personale è http://www.alessandromosce.com.
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