“Inventarsi una vita. Un dialogo” di Claudio Magris e Paolo Di Paolo (La nave di Teseo)
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di Daniela Sessa
La metafora è l’isola di Redonda. L’isola che rinasce da se stessa, l’isola fattasi epica della forza della Natura che toglie e dà, l’isola dell’ironia, se ironia è il testacoda del linguaggio e dell’invenzione. Ed è proprio di invenzione che racconta il dialogo tra Claudio Magris e Paolo Di Paolo “Inventarsi una vita”. La vita è al centro delle domande e risposte dei due scrittori: non ne voglia Di Paolo ma sembra quasi di vedere, al netto di sovrapposizioni alla Wittengstein, l’allievo e il maestro, non ne voglia perché averceli di maestri come Magris con cui confrontarsi! La vita come spaziotempo della comprensione di sé, dell’epoca in cui il sé si è abbeverato e trasformato e incarnato. La vita protagonista finalmente del proprio romanzo di formazione; la vita oggetto narrativo e soggetto narrante. Ed ecco Redonda, di cui Magris dal 2003 è stato nominato duca dal re Javier Marìas. Non c’è traccia nel libro né del re né dell’isola, ma per quei voli – di suggestioni più che di senso – che la lettura fa spiccare, questo dialogo nel tempo e senza tempo, spinge verso Redonda, verso la sua straordinaria vicenda, inscritta dentro la categoria del favoloso di un Ariosto o di un Marquez, verso lo straordinario traslato tra reale e ideale, tra materia e invenzione. Redonda è la scrittura capace di dare forma alla Natura e farsi forma della Natura. La domanda sta lì nelle prime pagine di questo libro ed è la domanda eterna o curva come piace a Magris “d’altra parte la letteratura senza pezzi di vita vera, di vissuto, sarebbe davvero letteratura?” Il vissuto racconta di felicità, di tempo e di tempi, di amori, di amicizie, di successi, di padri e figli, di ansie e di paure, di ricordi e di memoria, di vecchiaia: i temi affrontati qui dai due scrittori. Con molte incursioni nel loro vissuto. Di Paolo e Magris raccontano, anche e soprattutto, dello scrivere libri e del far rinascere ogni volta la vita dentro i libri. Perché per Magris “La scrittura esige la vita che poi forse racconterà, ma se manca quest’ultima, o abbiamo la sensazione oppiacea che ci manchi, manca anche la letteratura”. O meglio in una delle citazioni linguisticamente più folgoranti (folgoranti per chi scrive) la scrittura pretende “di sdottorare sulla vita e sulla morte”.
La passione per il dialogo accomuna i due scrittori. Paolo Di Paolo ha pubblicato con questo ben otto libri- intervista (tra gli altri con Antonio Debenedetti, Dacia Maraini, Raffaele La Capria). Di Magris abbiamo le conversazioni con Mario Vargas Llosa, carteggi e video in cui incontra e racconta grandi della letteratura contemporanea, lui che già di questa letteratura è un classico. Tentativi di addivenire se non alla verità, al viaggio verso al verità come, per parafrasare Heidegger, due viandanti diretti “nelle vicinanze dell’essere”. O come i dialoganti di Leopardi. In “Inventarsi la vita” Di Paolo e Magris sembrano- azzardo- il fisico e il metafisico, la Morte e la Moda, Tasso e il Genio, Colombo e Gutierrez, il venditore d’almanacchi e il passeggero. Uno, Di Paolo, incalza l’altro, Magris, a confessare i suoi dubbi e le sue malinconie: “Comunque, questo libro – tuo ancor più che mio perché io sono il materiale, la cava e tu l’artista, poietès, facitore, che dà forma a questo materiale – talvolta mi lascia un po’ smarrito”, dice Magris. Lo incalza per fissare i paletti di una poetica (parola antica, usata ancora e forse solo nei manuali scolastici in cui di Magris, ahimè, c’è troppo poco) capace di restituire la complessità del pensiero in una scrittura avvolgente. Perché così sono i libri di Magris: limpidi nei temi, sinuosi nella lingua. Una poetica in cui c’è almeno un punto dirimente: il tempo. Dal tempo curvo della fisica relativa alla ridefinizione dello spazio di Storia e Memoria, per ridefinire a sua volta la distanza tra il narratore e il narrato: è nella distanza, sostiene Magris, che la scrittura si rende possibile e vera, quando assume su di sé il mondo degli affetti, quello scrivere di padri e figli che, diremmo noi, è il tema dei temi da Crono che divora i suoi figli a Kafka che si fa scarafaggio davanti al padre. Di padri e figli che esulano dal microcosmo familiare per diventare immagine del macrocosmo sociale e storico. Magris racconta dei figli di Thomas Mann e Di Paolo del figlio di Lalla Romano per concludere che “nei riguardi dei figli è difficilissimo mantenere la distanza che serve alla parola esatta”. Di questo si tratta, della parola esatta: “C’è una necessaria freddezza, una distanza che la scrittura deve istituire nei confronti del suo oggetto, anche o forse anzi soprattutto se e quando si tratta di un oggetto o di una persona particolarmente importante o amata, perché senza questa distanza, inevitabilmente “fredda”, non è possibile nessuna vera scrittura, ci sarebbero solo abbandoni sentimentali, importanti e fondamentali per chi li pensa o li dice o li scrive ma solo per lui e incapaci di trasmettere e mediare ciò che gli sta a cuore e che, per essere espresso e trasmesso, deve essere in qualche modo dominato, distanziato”. Un’affermazione che brucia almeno due secoli di dibattito tra realismo e simbolismo, tra modernismo e postmodernismo. Tutto è eterno per Magris e tutto è dentro il racconto “Tempo curvo a Krems” dove l’infinito presente conferma che “Nori, adesso, non si è mai accorta di me…”. L’infinito presente per non correre il rischio del congiuntivo, il tempo del potrebbe accadere e non è accaduto, il tempo di Ibsen e del non evento di un amore fugace. Perché tutto torna ed è importante comprendere il momento del passaggio tra un arco di tempo e l’altro. “Inventarsi la vita” è uno stimolo alla rilettura (Mann, Ibsen, Svevo, Musil, Kafka, Singer, Woolf, Roth vivono dentro le pagine di questo dialogo e sono spunti, citazioni, esempi, modelli insieme a Michelstaedter e Svevo per dire di quella Mitteleuropa di cui Magris è cantore) e alla riflessione. Ma, di più, è un libro sulla crisi. La crisi del Novecento tra la rottura d’avanguardia degli anni Dieci e gli anni Venti con la loro “iperbole di morte” che è anche la crisi del secolo presente, di una generazione di figli che sta peggio di quella dei padri (ancora i padri e i figli). La crisi della letteratura smarritasi tra recensioni (si chiede perdono per questa) premi, promozioni “una forma di ossequio passivo al successo è inconciliabile con la letteratura, o meglio con l’amore per la letteratura”. Il dialogo “Kafka al Premio Strega” è un’analisi quasi spietata di un mondo di cui sia Di Paolo che Magris sono protagonisti (Di Paolo Superpremio Vittorini nel 2012 e Premio Viareggio nel 2019 oltre che finalista allo Strega nel 2013, di Magris i premi non si contano come le onorificenze) e che lo scrittore absburgico guarda con il distacco di un uomo arrivato a un terzo della vecchiaia, dove l’ansia ha finalmente lasciato il posto allo stupore e al sopore. E forse se una piccola lezione, tra le grandi sparse in questo libro, che si legge in un fiato ma che poi impone di ritornare su ogni pagina e quindi di curvare anche il tempo della lettura, riguarda proprio la letteratura. Anzi, quel grande bisogno di letteratura che non è semplice scrittura per lo più endogamica rilegata e poi naufragata tra gli scaffali di una libreria o peggio finita alla rinfusa nelle classifiche di vendita. Forse, senza volerlo è Di Paolo, nella prosa che chiude il libro (ecco ancora la suggestione del Leopardi delle Operette Morali), la definizione di letteratura da recuperare “rivela non solo la bellezza e la densità dello spazio minimo, ma anche del tempo minimo, dell’istante pieno di significato che improvvisamente prende a brillare, come l’angolo della lampada di Aladino che viene sfregato con maggiore energia”.
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La scheda del libro: “Inventarsi una vita. Un dialogo” di Claudio Magris e Paolo Di Paolo (La nave di Teseo)
L’incontro inatteso fra due scrittori di generazioni diverse. Claudio Magris e Paolo Di Paolo, partendo dal turbolento ingresso negli anni Venti di questo secolo, riflettono sui passaggi fra epoche e sulla velocità del mutamento, sulla impossibilità di “disattivare la Storia”. Né apocalittici né integrati, cercano uno spazio di lettura diverso del presente, e lo fanno esplorando le possibilità della scrittura, che fissa il volto “candido, comico, tragico, cinico, struggente, incantevole, repellente” del mondo. Consapevoli del fatto che scrivere possa avvicinarci alla vita ma anche allontanarcene irrimediabilmente, cercano di aggirare molte retoriche, o almeno di metterle alla prova. Ne risulta una meditazione a due voci sul misterioso rapporto fra il vissuto e lo scritto, sui limiti del dicibile, su ciò che sta prima e dopo ogni libro che si scrive. La freddezza di Thomas Mann e il cuore incendiato di Ibsen, i porcellini d’India sapienti e le polene che guardano la tempesta senza timore, i boccali di birra che mettono l’universo a posto e un Kafka immaginario finalista del Premio Strega… Il più giovane interroga e rilancia, il maestro mette in gioco la sua esperienza e soprattutto i suoi dubbi, ma non si limita a raccontare il passato: rompe le convenzioni aneddotiche dell’autobiografia, e immagina il futuro.
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