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ARROCCO SICILIANO di Costanza DiQuattro (Baldini + Castoldi) – recensione

settembre 17, 2022

Arrocco siciliano - Costanza DiQuattro - ebook“Arrocco siciliano” di Costanza DiQuattro (Baldini + Castoldi)

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di Emma Di Rao

L’esergo del nuovo romanzo di Costanza Di Quattro, “Arrocco siciliano”, edito da Baldini+Castoldi, è affidato a Jorge Luis Borges, chiamato in causa per fissare i tratti essenziali del gioco, e a Fedor Dostoevskij, che ci mette in guardia sulla presunta casualità di esso; infine, a sorpresa, a Gigi Proietti, chiamato a rammentarci le dolci amarezze del sentimento d’amore. Bastano già queste citazioni in apertura per comprendere che la penna raffinata e schietta della scrittrice racconterà le sfide raccolte dall’uomo per imporsi sul destino che sta in agguato o sul caso che scompiglia le carte o, più semplicemente, su quel labirinto intricato che è il nostro animo.
Il contesto del dispositivo narrativo è, ancora una volta, la terra natale dell’autrice, l’amatissima Sicilia, con i suoi assolati paesaggi immersi nella fissità di un tempo che sembra immobile e con i suoi incantevoli e misteriosi notturni, ma soprattutto con le sue inquietudini e con le sue contraddizioni. Pur radicate in un preciso spazio geografico e temporale, esse rimandano a una più ampia dimensione di carattere universale che vede l’uomo in lotta contro il fato o contro sé stesso, perennemente diviso fra slanci e ripiegamenti, vittorie e rinunce, in un groviglio di contrasti inestricabili.
Contrasti che permeano già l’incipit del romanzo in cui al colore nero del lutto si sovrappone la luce abbagliante di un sole irriverente che continua a splendere sul funerale del dottor Filippo Albanese, stimato e benvoluto titolare della farmacia della cittadina di Ibla, dove, con grande discrezione e riservatezza, venivano ogni giorno somministrati farmaci e rimedi anche per malattie non riguardanti esclusivamente il corpo.
Fin dalle prime pagine di “Arrocco siciliano”, la vita appare dunque minata da sofferenze che corrodono il cuore, se non addirittura la mente, in cui talora si insinua il tarlo del tedio o il vento furioso della follia.  Una condizione di irrequieta malinconia di cui è partecipe anche il protagonista del romanzo, Antonio Fusco, che nel momento in cui appare per la prima volta “si stagliava contro la luce dorata di quel pomeriggio d’inizio marzo” dell’anno 1912 durante il rito per il compianto defunto.
Una “calma serafica e irritante” e un portamento elegante segnano questa figura che l’autrice avvolge di un alone impalpabile di mistero.
Mistero che non risiede tanto nell’oscurità delle ragioni che hanno condotto a Ibla il nuovo farmacista, la cui credibilità è messa subito in discussione dal notaio Arestia, quanto in quel “solco”, in quel “taglio” che Nanè, il vecchio tuttofare, intuisce sotto il sorriso beffardo e l’aria disinvolta. Primi, rivelatori segnali di una personalità enigmatica e sfuggente, nonché di un io frantumato che l’atteggiamento di consapevole distacco non riesce del tutto a celare.
Ma gli accesi contrasti riguardano anche le due realtà geografiche in cui il protagonista è collocato: da una parte, i “mille colori e i cantilenanti rumori” della città di Napoli da cui egli proviene e il cui blu del mare sembra scorrere nelle sue vene, e dall’altra, “il silenzio di piombo” della tetra e sonnacchiosa Ibla.
Un ambiente, quest’ultimo, graffiato dal pregiudizio e dal sospetto nei confronti dell’altro, soprattutto quando si tratti di un forestiero, come dimostra quel microcosmo che è rappresentato dal Caffè 900, un vero e proprio “coro inospitale” composto dalle voci, dai commenti e dai pettegolezzi degli avventori che, raccontando i fatti, finiscono per trasformarli e deformarli, adattandoli alla propria ingenerosa prospettiva.
La prosa del romanzo si rivela subito un sapiente incastro di eventi, pensieri e descrizioni, ma soprattutto di serrati dialoghi che imprimono al ritmo narrativo un andamento celere e vivace che rallenta solo per dare spazio alle pause in cui vengono accolte le riflessioni del protagonista. Tale frequente ricorrere del dialogo è finalizzato a tratteggiare i caratteri dei vari personaggi e a riprodurre la grettezza di una collettività che, serrata nelle finzioni del vivere quotidiano, si scopre tuttavia capace di riconoscere la vita quando essa irrompe insieme alla “strana inquietudine” di Antonio Fusco.
Anche se il tempo sembra aver fermato la sua corsa nella solitaria cittadina, il protagonista riesce infatti a scalfirne pian piano il muro della diffidenza e a incrinare la rigidità di un vivere sociale quasi cristallizzato sino a trasformarlo in un “vero e proprio corteo di umanità” che si muove al suo seguito mentre corre in soccorso del piccolo nipote di Nanè, gravemente ferito. Intriso di profonda commozione è il passo in cui viene descritta la disperata corsa di quest’ultimo che “correva a memoria, senza guardare la strada perché era l’unica che aveva percorso durante la sua esistenza”.
Ma un ulteriore, significativo elemento affiora dallo stesso passo, ovvero la solidarietà di Antonio Fusco dinanzi al trepidare di Nanè: “lo seguiva perché nel dolore non ci sono nemici, divergenze, ostilità”. E nel dolore per la morte atroce di Giovannino muta anche la prospettiva con cui viene percepita dal protagonista la comunità di Ibla che adesso appare “carica di luce e di tragedia, di morte e di bellezza”.  Accompagnata da un pianto di rabbia e di lutto, la scomparsa del nipote di Nanè appare al farmacista “l’ennesima ingiustizia di una vita sbagliata, di un mondo confuso e di un futuro incerto”, ma anche la prova dell’inutilità dei tentativi volti a cambiare la vita dove il rischio è il filo sottile in grado di vanificare ogni sforzo.
La decisione improvvisa di entrare nel Circolo dei nobili e di cedere nuovamente al vizio del gioco nasce in Antonio Fusco dalla volontà di “pagare con i suoi errori una morte ingiusta”, sebbene percepisca di quel luogo l’assoluta “nullità”.
Con sapiente perizia, l’autrice, che non distoglie mai lo sguardo da ciò che pulsa sotto la crosta dell’apparenza, sottolinea l’illusorietà insita nel gioco, evidente allegoria del destino e immagine della vita stessa, di cui è ben consapevole il protagonista quando paragona il proprio vizio a “un diavolo dell’inferno” e a “una subdola sirena” che irretisce quanti si fanno coinvolgere da essa. Tutt’altro che lineare risulta infatti il suo rapporto con il gioco a cui si accosta a volte con attrazione, spinto dal desiderio di sfidare la sorte, a volte con evidente ripulsa. Ma il lasciarsi ancora una volta sedurre da quella “smania di precipitare” è anche conseguenza della solitudine che attanaglia il protagonista, come si evince da: “Era un uomo solo e nella solitudine l’errore diventa compagno”.
D’altronde, la contraddizione è la cifra che distingue l’interiorità di questo interessante e complesso personaggio che “aveva fatto della dissimulazione un’arte e della menzogna una regola” e che condanna i propri errori, propendendo nello stesso tempo a giustificarli. Anche il sentimento amoroso si declina in lui con altalenanti e ambigue oscillazioni che vanno dalla carnale sensualità nei confronti di Ninetta all’estatico rapimento dinanzi a Eleonora Crescimanni.
Arrocco siciliano - Costanza DiQuattro - ebookDal dipanarsi delle vicende si evince senza ombra di dubbio che Antonio Fusco, nonostante “la placida serenità dei modi”, è tormentato dai fantasmi del passato e da “strazianti sensi di colpa”. Ciò non gli impedisce di cominciare a posare su Ibla uno sguardo non più distaccato ma empatico ed attento, capace di cogliere immagini e dettagli prima inosservati, come, ad esempio, la chiesa di san Giorgio, “ieratica e vuota”, la cui grande cupola sembra ora accompagnare i suoi passi. E soprattutto, egli inizia ad avvertire la vita che scorre tra le strade deserte, accostandosi a una pace e una serenità che credeva di aver dimenticato, come accade durante un episodio all’apparenza irrilevante: il sapore acre di un piretto offertogli da un ambulante ridesta in lui, con uno scatto di proustiana memoria, una “dolcezza velata di aspro da cui era stato pervaso in un tempo lontanissimo e felice”.  Un ricordo, però, troppo fragile perché non sfugga subito dopo e che non basta comunque a dissipare una diffusa atmosfera di cupo disfacimento che in alcuni casi assume l’aspetto di tragedia.
Intendiamo riferirci non solo allo spettro della morte che incombe persino sui più piccoli, non solo alla “morte spirituale” cui il protagonista ha tentato di sottrarsi fuggendo da Napoli, ma anche a quel triste sfiorire della bellezza di cui fra le pagine si avverte la nostalgia, come nella poetica espressione “nell’ultimo istante di blu”, che fissa l’estremo riverbero di luce prima che subentri l’oscurità. La  stessa farmacia con le sue ampolle piene di sanguisughe o con i suoi “viscidi rettili immersi in alcol etilico” e le “terrificanti collezioni di veleni” concorre a tale oscuro e tenebroso effetto.
Avvalendosi di una scrittura capace di scavare in profondità e addentrandosi nelle pieghe più nascoste della psiche del protagonista, Costanza Di Quattro ne mette in luce i tortuosi percorsi.  Questi ultimi si snodano da un assillante tedio e da un angoscioso vuoto, che quasi sospendono la vita, alla graduale conquista, se non di una stabilità identitaria, almeno della capacità di risemantizzare gli eventi passati.
Una conquista resa possibile da un incontro casuale che persuaderà Antonio Fusco che al di sopra degli eventi accidentali esiste un destino di cui ignoriamo quasi sempre il disegno. Il rapporto che egli instaura con Federico Crescimanni, il ragazzo “violato da un capriccio della natura” e ritenuto “figlio di satanasso” per la sua deformità, lo mette infatti a contatto con l’irragionevole crudeltà della vita e lo solleva dal “peso ingombrante di sé stesso”.
Antonio Fusco e Federico Crescimanni: “due anime ferite che cercavano un appiglio”, due anime di cui nessuno avrebbe potuto dire chi fosse colui che sorreggeva l’altro, ma è certo che il primo inizia a riconoscersi nel secondo, di cui ammira l’intelligenza, la serenità e l’ingenuo entusiasmo.
Struggente e poetico risulta il brano in cui Antonio accompagna l’infelice creatura a vedere per la prima volta il mare, quel mare che egli sente affine alla propria anima perché esso si porta dentro le paure, le ansie e le gioie che gli vengono affidate. La corsa verso l’immensa distesa azzurra possiede in sé il medesimo slancio della corsa verso la vita e procura una felicità smisurata a quel povero “scheletro d’uomo di soli dodici anni”.
Generosa appare la proposta di Federico di insegnare al suo amico il gioco degli scacchi: vi si coglie non tanto l’intenzione di procurargli la vittoria sugli altri giocatori quanto il desiderio di svelargli le regole necessarie per vivere, nonché la necessità di fare affidamento sulle proprie capacità intellettive e non più sulla sorte. Un gioco che invece il protagonista ha sempre ignorato, ritenendolo “senza vertigine” e antitetico al suo carattere non incline alla razionalità.
“Proteggi il Re. Il Re non è nessuno senza il suo esercito, è un debole che va protetto, vive chiuso tra due torri”. Così raccomanda intensamente Federico ad Antonio, e per fargli meglio comprendere la natura dell’arrocco aggiunge: “Lo fai ogni giorno…ti arrocchi dentro questa casa, con me, come me e ti proteggi dal mondo”, lasciando così intendere che l’arrocco non è solo una mossa degli scacchi, ma che “tutta questa terra è un continuo arrocco”, un arroccarsi sulle proprie idee e paure, un erigere muri di protezione a difesa delle proprie fragilità.
Emerge qui con chiarezza che le vicende, le immagini e le situazioni rappresentate nell’ultima fatica letteraria di Costanza DI Quattro finiscono per schiudere allusivi sovrasensi che ci immettono ben oltre i parametri del reale in cui la struttura narrativa si inscrive.
La chiusa, di cui per ovvie ragioni non sveliamo il contenuto, fa intravvedere una sorta di liberazione conseguita dal protagonista che nello scegliere di proteggere il Re, come l’amico gli ha suggerito, ha scelto di proteggere le debolezze altrui e, di conseguenza, anche le proprie.
Non sarà forse casuale che l’immagine del labirinto, presente nel precedente romanzo “Donnafugata”, torni qui sotto altra forma, più sottesa ma non meno suggestiva: quella del labirinto che, in fondo, ogni scacchiera rappresenta. In essa, infatti, come in un labirinto, il nostro smarrirci tende alla costante ricerca di una via d’uscita, in essa le mosse possibili rappresentano le molteplici dimensioni della realtà, in essa la battaglia simulata è metafora della dialettica incessante dell’universo e dell’eterna contesa tra la vita e la morte.
Ed anche la scrittura assolve, in qualche modo, questa funzione tutte le volte che ricorre alla parola per rappresentare le infinite possibilità del reale e per fissarne i contorni sfuggenti.
È quanto in “Arrocco siciliano” si prefigge e realizza Costanza Di Quattro la cui fervida immaginazione ha dato vita, ancora una volta, a una vicenda densa di rinvii psicologici ed esistenziali il cui protagonista, con le sue debolezze e con le sue contraddizioni, è, in fin dei conti, ogni uomo che vada alla ricerca di sé stesso.

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La scheda del libro: “Arrocco siciliano” di DiQuattro Costanza (Baldini + Castoldi)

Arrocco sicilianoÈ l’alba del Novecento, a Ibla, lì dove la vita scorre fiacca sulla campagna stanca; lì dove si accalcano notabili tronfi, mogli tradite e poveri diavoli; lì dove la farmacia Albanese, per tutti «molto più di una chiesa», di colpo rimane orfana di colui che da tanti anni la amministra con riserbo monastico. Quando a succedergli accorre da Napoli un giovane senza passato, accolto da ostilità e diffidenza che piano piano si sciolgono in un cauto abbraccio, il paese prende a pulsare e la farmacia a rivivere. Ad Antonio Fusco, questo il suo nome, toccherà navigare tra rimorsi polverosi e sciatiche ostinatissime, menzogne sottopelle e vizi feroci, amicizie insperate e cicalecci di popolo; e mentre scongiura il passato e insieme ne resta imbrigliato, mentre si gioca tutto con una mano di carte o una mossa di scacchi, lui riscoprirà e farà riscoprire la vita a chi pure «si sente morire da un pezzo».

Dopo Donnafugata e Giuditta e il monsù, Costanza DiQuattro firma un nuovo quadro a tinte calde e d’antan, in cui la storia di un uomo accarezza quella di tutti in un incontro agrodolce tra redenzione e vendetta.

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Costanza DiQuattro (Ragusa 1986) dal 2008 si occupa attivamente del teatro Donnafugata, teatro di famiglia restituito alla fruizione del pubblico dopo sei anni di restauri.
Nel novembre 2019 ha debuttato al teatro Carcano di Milano con il suo primo lavoro teatrale, Barbablù. Con Baldini+Castoldi ha pubblicato La mia casa di Montalbano (2019),  Donnafugata (2020), Giuditta e il monsù (2021).

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