Come nasce un romanzo? Per gli Autoracconti d’Autore di Letteratitudine: ANDREA VITALI racconta il suo romanzo “Cosa è mai una firmetta” (Garzanti)
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di Andrea Vitali
Chiamarlo condominio mi suona male, anche se di fatto lo sarebbe, anzi lo è. Preferisco caseggiato tuttavia perché l’ho battezzato così sin dalle prime battute di “Cosa è mai una firmetta “, eleggendolo a protagonista vero e proprio della storia. E non un caseggiato qualunque, magari preso a caso tra i tanti o addirittura immaginato, nossignore! Il Caseggiato in oggetto (la Ci maiuscola è dovuta in quanto protagonista della narrazione) è vivo e vegeto e lo posso testimoniare senza tema di smentita perché lo conosco, l’ho conosciuto fino dalla più tenera età. La differenza, sostanziale, sta nel fatto che per fini narrativi ho dovuto imbruttirlo, conciarlo un po’, renderlo fatiscente come nella realtà non è mai stato. Ma andiamo per ordine. Ho appena scritto di averlo conosciuto fin da bambino e lo confermo. Ci abitava infatti mia nonna materna e tanto io quanto i miei fratelli eravamo abituati a passaggi pressoché quotidiani per salutarla o fermarsi a pranzo, talvolta anche a cena: esperienza per me fondamentale, addirittura formativa. Non sto esagerando. Quel Caseggiato infatti fu un fertile terreno per far nascere le prime fantasie oltre che campo di gioco e di scoperte. Le famiglie che lo abitavano infatti erano quasi tutte, chi più chi meno, legate da vincoli parentali, le porte dei loro appartamenti erano sempre aperte tanto ai condomini quanto a coloro che li visitavano.
Massimamente ben accetti eravamo noi bambini cui spesso capitava di passare interi pomeriggi in questo o quell’appartamento vivendo momenti indimenticabili, incontri che, per quanto mi riguarda, hanno segnato la mia memoria e più di una volta sono diventati motivo di racconto. Qualche esempio non guasta poiché certe affermazioni debbono essere confortate da prove concrete. Mi assumo in pieno la responsabilità di essere fumatore: tuttavia se devo reperire le lontane origini di questo vizio non posso fare a meno di riscontrarle nel delizioso, aromatico, ineffabile profumo di certe sigarette, Turmac se non erro, che la vicina di casa di mia nonna fumava con pose da gran diva e tanto di bocchino, lasciando poi che il fumo inondasse la tromba delle scale solleticando il mio olfatto. Da qui a certi pruriti, ancora ammantati di mistero, il passo è breve, almeno per me. Breve davvero, poiché mi bastò spostarmi in un altro appartamento per assistere, con al fianco un allora aitante e sgamato giovanotto, a una puntata di “Studio Uno” e all’esibizione delle gemelle Kessler: delle loro cosce soprattutto sulle quali il mio vicino, a bassa voce e quasi sospirando, mi invitò a fissare lo sguardo mentre lui ne decantava la lunghezza, la rotondità, la linea perfetta. Vagamente sentivo che c’era ben altro dietro l’esibizione delle due gemelle che davano calci all’aria ma ero ancora lontano dal capire cosa si fosse mosso dentro di me al punto da farmi arrossire, tanto che mia madre, meno interessata al balletto delle due tedesche, sospettò che mi fosse salita la febbre. E cosa dire del mistero che aleggiava nell’appartamento degli allora proprietari del Caseggiato? Inviolabile ambiente se non per questioni formali la cui unica eccezione consisteva nello scambio di qualche alimento in speciali occasioni, gli agoni in carpione per esempio, che abbondavano sulle tavole estive, o la trippa cucinata quando cadeva l’Epifania o per dire meglio la festa dei Re Magi, momento culminante delle festività natalizie, massimamente atteso ora come allora, così da poter ritornare bambini almeno per una notte. Un regalo del cielo anche in quel caso il Caseggiato. A quel tempo infatti abitavo nell’orbitale più esterno del paese, quasi al confine con un’altra terra, escluso dal giro che i Tre Re facevano distribuendo doni e lanciando caramelle sul cui miracoloso effetto nessuno ha mai osato discutere. Non ci fosse stato il Caseggiato, limite estremo di quel giro, e soprattutto il terrazzino dell’appartamento di mia nonna non avrei mai provato il brivido di calare il cesto dentro il quale il Re Magio depose il suo pacchetto. E pazienza se a Baldassarre, dei tre quello moro, gli addetti al trucco s’erano dimenticati di scurire anche le mani o almeno dotarle di guanti. Ma, tornando a bomba, all’appartamento padronale cioè e al mistero cui ho accennato poco sopra, esso si componeva di due elementi ben precisi, uno ancora olfattivo, difficile da definire. Nell’aria di quei locali regnava un sentore diverso, distintivo, e credo di aver intuito, grazie a visite tanto rare quanto rapide, cosa significhi appartenere alla buona borghesia: movimenti composti, tappeti, voci sommesse, giacche e cravatte, orari definiti per pranzo e cena, cera sui pavimenti, il bagno grande e quello piccolo, la permanente, anche il Corriere della Sera.
Può tutto ciò, possono questi elementi mischiati l’uno all’altro finire per dare sostanza a un’aria, a profumarla indelebilmente così che, anche con gli occhi chiusi, inalandola capisci che sei in quel posto e non altrove? Ma se li apro, gli occhi, ecco che ti rivedo le due spade, forse due sciabole, fissate al muro lungo il corridoio, incrociate, e con un guizzo di fantasia ci piazzo anche uno scudo dietro per confermare la suggestione che ebbi da quella prima visione: di avventure lontane, in terra d’Africa, di guerre e di conquiste, partenze, ritorni e smargiassate, racconti di eroismi da giornaletto, un’enfasi grottesca che, chiedo venia alle due spade, a loro ho attribuito del tutto arbitrariamente. Dopodiché, Buongiorno o Buonasera, torno di sopra, su, da mia nonna, dove non mi fa più meraviglia trovare seduto al tavolo di cucina, col suo sorriso felino e un’aura di acqua di colonia il personaggio principe di quel tempo, ovvero lo zio Esilio. Zio non di sangue, zio per comodità, zio nato e morto nella fantasia, ma dentro quei locali, habitué dell’una o l’altra tavola, predicatore di una filosofia da bon vivant, avventuriero di pochi scrupoli, bugiardo tanto patologico quanto irresistibile. E infine, mistero tra i misteri, quello sportello, presente in ogni appartamento, che aperto dava su un buco nero, sulla “canna per la caduta dei rifiuti condominiali” che andavano a finire in un locale seminterrato davanti alla cui porta, miao miao, si radunavano i gatti del cortile attratti dall’afrore che ne usciva. Non so chi fu, però qualcuno me lo disse: più di un bambino che si era sporto troppo ci era finito dentro e di lui non si era più avuta traccia. Ci sarebbe anche dell’altro, il bar di soli uomini al piano terra che navigavano dentro una solida nube di sigarette nazionali oppure la sala buona, la vetrinetta con il servizio altrettanto buono e la bottiglia di cognac, cognac Martell. Ma, insomma, credo che quanto citato fino ad ora basti per affermare che il Caseggiato doveva prima o poi assurgere a territorio per l’immaginario e infine dare corpo e sostanza a una storia. Così è accaduto, così è nato “Cosa è mai una firmetta”. Naturalmente per diventare il centro di una narrazione il Caseggiato doveva rinunciare a un po’ delle sue caratteristiche, tanto fisiche quanto umane. Imbruttirsi, innanzitutto, l’ho già detto. Ed eccolo quindi, agli albori degli anni cinquanta, presentarsi con la sua grigia, anonima facciata macchiata di umidità, le rugginose ringhiere dei terrazzini, le grondaie bucherellate, i gradini della scala interna sbeccati, il marcescente odore che sale dal locale raccolta rifiuti, i fili dell’impianto elettrico a vista (non sembra anche di sentire lo tzz tzz di qualche contatto)? Ma soprattutto era importante modificare la componente umana del Caseggiato. E qui ho lasciato la mano libera alla fantasia, affondando la matita nel grottesco. Doveroso, ora, dare un compendio di coloro che lo abitano e farsi accompagnare in questo tour dal p.i., perito industriale, Augusto Prinivelli, attor giovane di tanta compagnia. Due notizie su di lui: nato a Milano, orfano, cresce a Bellano, allevato da una sorella della madre, l’anziana zia Tripolina, proprietaria del Caseggiato. Crescendo matura una vera avversione per la vita di paese, sogna di andarsene, non sopporta i vari occupanti degli appartamenti che è costretto a incontrare l’ultimo sabato di ogni mese quando, in vece della zia che a causa dell’età non riesce a fare più le scale, passa a ritirare l’affitto mensile: è il cosiddetto, intollerabile “giro dell’economia”.
Solitamente comincia dall’ultimo piano, dall’appartamento occupato da Benassi Gastone, sarto, sposato con Schiavo Clementina, un figlio prete, don Qualcosa, grandissimo produttore di forfora, spaccato sua madre come se lei l’avesse fatto senza bisogno dell’intervento del marito. La Clementina è tutta casa e chiesa, raccomanda sempre all’Augusto di pregare per la sua povera mamma e il suo povero papà che da lassù lo guardano, lo guidano e lo proteggono. Inoltre, tutti i mesi, gli rammenta della volta che ha passato tre giorni e tre notti in casa loro, quando la zia Tripolina aveva avuto una specie di tifo. Non se ne può dimenticare l’Augusto, non può scordare la Clementina quando lo andava a svegliare e la prima cosa che vedeva erano i suoi baffetti, né quel figlio che già stava giocando alla messa e lui, per compiacerlo, doveva fare la parte del chierichetto.
Sullo stesso piano, dirimpetto ai Benassi, c’è la famiglia Corti Sigismondo, pensionato, ex messo comunale, uomo noioso, anzi noiosissimo. Di tutta la vita passata, il Corti pare che salvi un solo ricordo e farà di tutto per imporlo al visitatore, anche creando ad arte la condizione. Si tratta di un evento accaduto durante il suo periodo lavorativo alle dipendenze della municipalità e lo servirà non prima di aver preparato il terreno, rimembrando la mattina in cui il fatto accadde (mattina di ottobre), la condizione meteorologica (fine pioggerella tipicamente autunnale), l’ora (mancava una manciata di minuti alle dieci), quello che stava facendo (ordinava il bollettario per la lettura dei contatori dell’acqua in previsione dell’annuale giro per l’aggiornamento dello stesso). Tutto ciò per arrivare al nocciolo della questione, al momento in cui sentì dei passi avvicinarsi alla sua scrivania e, Chi è che ti vede? L’allora sindaco Limbiati! (adesso buon’anima). Il quale, udite udite!, non gli si rivolge con un diminu…? Il resto del resoconto però si perde, coperto dal rumore dello sciacquone tirato dalla figlia del Corti, anonima creatura che ben pochi hanno visto in viso e che, com’è come non è, ogniqualvolta giunge una visita è sempre chiusa nel luogo comodo.
Al secondo piano abita la famiglia Middia Salvatore, manovale delle ferrovie, moglie Cecilia, figlio Gesualdo. Il Middia, da buon siciliano, fa in modo di essere sempre presente quando cade il sabato del “giro dell’economia”. Apre la porta giusto di una spanna, quel tanto che basta per allungare la busta all’Augusto, una busta odorosa di fritto e non potrebbe essere altrimenti visto che friggono da mane a sera, aggiungendo odore a odori all’aria del Caseggiato. I Middia parlano un dialetto stretto. Anzi, urlano un dialetto stretto.
(Segue siparietto illustrativo).
È sera, marito e moglie sono a tavola, il figlio è in corridoio, gioca.
Il marito, a volume normale: “Unn’è?“
La moglie, gridando: “Chi dicisti?“
Il marito, gridando pure lui: “Unn’è?“
Da qui in avanti i due urlano.
La moglie: “Cu?“
Il marito: “U sali!“
(Il salino è al centro della tavola)
La moglie: “Nun u viri?“
Il marito: “U viriu“.
La moglie: “U vvoi?“
Il marito risponde con un cenno del capo, affermativo.
La madre, a volume normale: “Piccirì“
(Il figlio non risponde)
La madre di nuovo ma urlando: “Piccirì!!“
Il figlio urlando a sua volta: “Chi cc’è?“
La madre: “Veni!“
Il figlio: “Picchì?“
La madre, quasi raggiungendo la soglia critica dei novanta decibel:
“Veni!!!“
(il bambino si presenta)
“Chi vvoi?“
La madre, a volume normale: “Passaci u sali a to’ patri“
Il figlio gridando: “Chi dicisti?“
La madre, superando la suddetta soglia critica:
“Passaci u sali a to’ patri !!!“
Di fronte ai Middia c’è l’appartamento occupato da Cremia Osvaldo con moglie Balbina e figlio Gabriele che passa la maggior parte del tempo a disegnare indiani sui muri di casa. Marito e moglie sono operai del cotonificio, turni diversi per badare al figlioletto. L’Osvaldo però è nel consiglio di fabbrica e ciò, unito al fatto che è coetaneo dell’Augusto, lo porta spesso ad affermare che i due sono fatti della stessa pasta. L’Augusto quando se lo sente dire pensa, Stessa pasta un cazzo, lui è un p.i., perito industriale e non un semplice “operario”, come ama definirsi il Cremia. Prima di ritirare la busta con l’affitto l’Augusto sa bene che deve sorbirsi le lamentele dell’Osvaldo che gli elenca le cose che non vanno nel Caseggiato, a guisa di un capocasa. Si deve tener presente che il Cremia non ha mai tenuto in gran conto grammatica, sintassi, consecutio temporum e “tutte quelle balle lì”. E’ uno pratico, bada e va al sodo. Però quando il Cremia apre la bocca bisogna stare saldi, poiché l’avvio delle lamentazioni è da brivido.
“Se dovrei dirti tutto quello che non va ci vuole una mattina”.
Superato lo shock, il resto va via liscio (per modo di dire). Lo si ascolti.
“La spuzza dei Middia, le macchie di umidità quando che piove, la radio della Clementina che parla ad alta voce solo roba di messa che noi due non siamo mica tanto di chiesa, la figlia del messo Corti, che tra l’altro primo, lui non saluta e allora, secondo, nemmeno lui saluta lui, che tira lo sciacquone a ogni ora del giorno e della notte quando i cristiani dormono e sembra che vengono giù le cataratte del cielo, quei tiratardi del bar sotto, tiratardi della madonna anzi, che stanno lì a cacciar balle perché non sanno che c’è gente che si deve alzare perché c’è gente che deve andare a lavorare ma tanto chissenefrega neh! e poi, non per dire, anche i miao miao della Lisetta…”.
Il Cremia va avanti così per un bel quarto d’ora poi conclude.
“Bisogna farci qualcosa”.
L’Augusto concorda.
“Io te l’ho detto”, insiste l’Osvaldo.
“E io ho sentito”, afferma l’Augusto.
“Promesso”?, chiede l’Osvaldo.
“Promesso”, ribatte l’Augusto.
Poi, fuori, una volta solo:
“Ma vadavialcù”!, mentre scende verso il primo piano.
Al primo piano abita Lisetta Perbuoni, vedova, coetanea della zia Tripolina, abita dirimpetto a lei, è svanita come una minestrina senza sale. La principale occupazione della vecchina è mantenere la compagnia di gatti che popola il cortile interno del Caseggiato gettando loro quello che avanza. Dopo pranzo e dopo cena la Lisetta va sul terrazzino e comincia la litania.
“Micio micio, micio micio,
miao miao, miao miaoooo“
Ma anche:
“Cì cì e ci cì
Cì cì e cì cì“.
I gatti sono talmente abituati a quel cerimoniale che se per caso la Lisetta non avanza niente la chiamano, limitandosi a lunghi, talvolta penosi:
“Miaooo… miaooo“.
La Lisetta allora esce per dire che non ha niente da buttare e in un paio di occasioni si è beccata la secchiata d’acqua che il Cremia, appena sopra di lei, aveva pronta per i gatti. Altra però è la musica quando il Prinivelli passa per l’affitto. Ai miao miao, ai micio micio si sostituiscono i tric e trac e i trac e tric dei cassetti che la Lisetta apre e chiude mormorando in continuazione:
“Ossignùr, Omadòna!“, alla ricerca di monete, monetine, monetaglia e qualche raro biglietto cartaceo per mettere assieme la somma. Alcuni mormorano di un nipote della Lisetta, emigrato da anni in Argentina, che da quelle terre le manderebbe di tanto in tanto un vaglia. Sarà! Di fatto, tra un tric e trac, un Ossignùr! e un Omadòna!, in più di un’occasione l’Augusto ha messo mano al suo portafoglio per raggiungere la quota. Al momento dei saluti la confidenza che regna tra i due viene fuori.
“Alla prossima Lisetta, ciao“, dice l’Augusto.
“Ciao“, fa lei. O forse miao.
(Quelli del bar Sport al piano terra fanno da sé, alla scadenza recapitano la busta alla Tripolina, lavorano come matti, aprono alle cinque del mattino e chiudono a mezzanotte, non hanno tempo da perdere e se ne hanno un po’ di libero fumano come turchi).
Il “giro dell’economia” è ormai alla fine quindi, manca solo una tappa. L’Augusto è spossato quando ritorna dalla zia Tripolina per consegnarle il conquibus e si prepara all’ultimo atto: sottobraccio alla vecchietta, che lestamente s’è infilata le buste in una tasca del scosàa, va verso la sua camera da letto dove gli farà vedere il vestito che dovrà mettergli da morta. La scena ha un che di orrorifico poiché la camera è sempre al buio, l’anta dell’armadio scricchiola un po’, l’odore di naftalina (o forse è formalina?) impregna l’aria. In ogni caso, alla vista di quel vestito, la zia Tripolina si mette a piangere. Non è tanto per l’idea di dover morire quanto per quella di lasciare solo il nipote. Quindi, chiudendo l’armadio, dice che per intanto sarà meglio se non muore.
Ecco fatto, Caseggiato e relativi occupanti sono stati presentati e la storia può cominciare. La vita del p. i., perito industriale Augusto Prinivelli, a questo punto sta per svoltare, anche se ancora non lo immagina. E’ la mattina di mercoledì 8 febbraio 1956 infatti, da poco l’Augusto è alle dipendenze della “Bazzi Vinicio-minuterie metalliche” di Lecco. Al momento è a testa china su una spianata di lucidi sui quali ha disegnato i progetti di una serie di rivetti, pomoli e viti a registro che devono entrare in produzione.
Quando sulla soglia del suo ufficio compare Bazzi Birce, figlia del proprietario.
(Riproduzione riservata)
© Andrea Vitali
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La scheda del libro: “Cosa è mai una firmetta” di Andrea Vitali (Garzanti)

Di stare a Bellano il venticinquenne Augusto Prinivelli, perito industriale, non ne può più. Sogna un’altra vita, sogna la città. Così ha cercato e trovato lavoro a Lecco presso la Bazzi Vinicio-minuterie metalliche. E non è finita. Quando l’anziana zia Tripolina, con cui vive da che è rimasto orfano, dovesse morire, venderà il putrido caseggiato di quattro piani di cui lei è proprietaria, manderà al diavolo quei morti di fame che sono in affitto e tanti saluti. Ma l’Augusto non ha fatto i conti col destino. La mattina di mercoledì 8 febbraio 1956, infatti, irrompe sulla scena Bazzi Birce. È la figlia di Bazzi Vinicio, il titolare dell’azienda, ed è colpo di fulmine. Corteggiamento, brevissimo; fidanzamento, un amen; nozze. E per il futuro? No, niente figli, piuttosto, il caseggiato… Venderlo? Alt! Un momento. Lo sa l’Augusto cosa ne verrebbe fuori rimettendolo a posto? No? Lo sa lei, la Birce, imbeccata dal padre, che per certe cose ha il fiuto giusto. E poi non si può stare ad aspettare che la zietta muoia, perché a dispetto di tutto e di tutti pare un tipo coriaceo. Non si potrebbe invece farle mettere una firmetta su un atto di cessione? Cosa sarà mai! Andrebbe tutto a posto in un niente. Oltretutto bisognerebbe arginarla la zietta, perché morta la vicina ha già trovato una nuova affittuaria. È una giovane vedova trasferita da Colico che la notte sembra lamentarsi spesso, forse avrebbe bisogno di un dottore. Sì, ma di che tipo? In questo Cosa è mai una firmetta, l’estro narrativo di Andrea Vitali sperimenta nuovi percorsi. L’osservazione del paesaggio umano che abita il suo mondo letterario si fa ancora più tagliente e impietosa. Capace di strappare un sorriso a ogni piega del racconto con le sue fulminanti invenzioni, non risparmia lo scavo tra gli istinti primordiali dei suoi personaggi, fino a metterne a nudo il cinismo che li divora.
Le prime pagine del romanzo sono disponibili qui.
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Andrea Vitali è nato a Bellano nel 1956. Medico di professione, ha esordito nel 1989 con il romanzo Il procuratore, che si è aggiudicato l’anno seguente il premio Montblanc per il romanzo giovane. Nel 1996 ha vinto il premio letterario Piero Chiara con L’ombra di Marinetti. Approdato alla Garzanti nel 2003 con Una finestra vistalago (premio Grinzane Cavour 2004, sezione narrativa, e premio Bruno Gioffrè 2004), ha continuato a riscuotere ampio consenso di pubblico e di critica con i romanzi che si sono succeduti, costantemente presenti nelle classifiche dei libri più venduti, ottenendo, tra gli altri, il premio Bancarella nel 2006 (La figlia del podestà), il premio Ernest Hemingway nel 2008 (La modista), il premio Procida Isola di Arturo Elsa Morante, il premio Campiello sezione giuria dei letterati nel 2009, quando è stato anche finalista del premio Strega (Almeno il cappello), il premio internazionale di letteratura Alda Merini, premio dei lettori, nel 2011 (Olive comprese). Nel 2008 gli è stato conferito il premio letterario Boccaccio per l’opera omnia, nel 2015 il premio De Sica, nel 2019 il Premio Giovannino Guareschi per l’Umorismo nella Letteratura e nel 2022 il premio Racalmare Leonardo Sciascia.
I suoi romanzi più recenti sono Un bello scherzo e La gita in barca.
Il suo sito è: www.andreavitali.info
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