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NULLA VOLERE, SAPERE, AVERE. I SERMONI DI MEISTER ECKHART

dicembre 14, 2022

Nulla volere, sapere, avere. I sermoni di Meister Eckhart - Francesco Roat - copertina“Nulla volere, sapere, avere. I sermoni di Meister Eckhart” di Francesco Roat (Le Lettere, 2022) – un brano estratto dal volume

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Francesco Roat – saggista, narratore e critico letterario trentino –, già insegnante di lettere nella scuola secondaria e consulente editoriale, scrive da decenni di temi culturali su quotidiani, settimanali e riviste. Il suo nuovo libro, pubblicato da Le Lettere, si intitola “Nulla volere, sapere, avere. I sermoni di Meister Eckhart“. Ne pubblichiamo un estratto

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Testo tratto dal saggio di
Francesco Roat
Nulla volere, sapere, avere. I sermoni di Meister Eckhart
Le Lettere, Firenze 2022, pp. 224, euro 18,00

“Il vocabolo Dio rappresenta un termine sommamente metaforico, nel senso che allude a un oltre e a un’alterità riguardo a ogni ambito discorsivo; esso è simile al dito che indica la luna, è segno d’altro rispetto a quanto è possibile dire per verba: attraverso le parole; anche per il semplice fatto che: «Dio, nessuno lo ha mai visto».
Non per nulla la teologia apofatica – o negativa – appare da sempre ai mistici più condivisibile di quella catafatica – o positiva –, nel limitarsi a dire cosa Dio non sia, rispetto alla presunzione di poter affermare che cosa Egli sia (tranne tramite l’utilizzo di metafore, in quanto esse sono appunto tali). Come ebbe a considerare Agostino, essendo Dio l’ineffabile, dobbiamo ammettere che intorno a Lui: «qualunque cosa si può dire non è l’ineffabile», che siamo tenuti a riconoscere la nostra “ignoranza” nei suoi confronti e che solo: «tacendo si penserebbe forse qualcosa degna dell’ineffabile».
Persino il nome Dio è solo una parola a rischio di fuorvianza se ci aggrappiamo a essa idolatricamente; in quanto, dice bene Goethe: «il nome è suono e fumo / che offusca l’ardore celeste» (Name ist Schall und Rauch, / Umnebelnd Himmelsglut).
Ogni teologia – tranne il particolarissimo dire mistico – è sempre a rischio di ideologia, è dogmatismo, giacché in greco il vocabolo dogma, oltre che decreto significa opinione. Perché allora il mistico parla intorno al divino se il silenzio sarebbe forse la scelta migliore? Sulla motivazione di questa modalità esplicativo-discorsiva ho indicato altrove che: «Il mistico, è ovvio, potrebbe/vorrebbe tacere. Se parla, lo fa a beneficio altrui. La sua è una vocazione/attenzione pedagogica. Per questo egli non si stanca di reiterare quelli che ritiene argomenti essenziali, a rischio di apparire monotono, ripetitivo, ridondante persino».
Meister Eckhart utilizza a ogni piè sospinto il termine: Dio/got, eppure in uno dei suoi Sermoni più noti – Beati pauperes spiritu, quia ipsorum est regnum coelorum – ardisce proferire: «[…] prego Dio che mi liberi da Dio» ([…] bite ich got, daz er mich quit mache gotes).
Sconcertante, nevvero? Ma il Domenicano – oltre a farci inciampare in una sorta di scandalo utile a mettere in scacco la nostra logica ordinaria, secondo la quale la proposizione citata appare contraddittoria/assurda, specie se enunciata da un religioso – qui sembra toccare l’apice del suo misticismo relativamente al distacco, da lui ritenuto essenziale per la rinascita spirituale. (…)
Tornando all’enunciato paradossale di Eckhart – che prega Dio di potersi liberare dal condizionamento di ogni desiderio, foss’anche il più pio, compreso quello di Dio –, credo sia opportuno cogliere in questa apparente contraddizione il massimo della paupertas: il nulla pretendere, nemmeno Lui/da Lui. E a proposito di preghiera, come non sottolineare la deprecazione/avversione del Meister nei confronti di chi utilizza quest’ultima come un mezzo per raggiungere un fine e non esclusivamente quale lode o ringraziamento nei confronti di Dio, che non è certo un idolo da impetrare allo scopo di ottenere qualcosa. La frase provocatoria di Eckhart esprime/riassume quindi la rinuncia a ogni esigenza, persino alla suprema realizzazione spirituale: brama pur sempre egoica e deleteria. Eppure proprio la massima indigenza – se accettata – dà adito alla maggiore abbondanza. (…)
Un’altra concisa, tassativa e altrettanto provocatoria affermazione del magister tedesco può riassumere egregiamente – più dell’insegnamento teorico/dottrinale proposto all’uditorio dei Sermoni – l’indicazione in merito alla prassi da tenere da parte dell’uomo pneumatico, che: «nulla vuole, nulla sa, nulla ha».
Lapidaria ma di una nettezza estrema questa sentenza compendia davvero ciò che significa/implica la paupertas spirituale, le cui caratteristiche stanno giusto nella consapevolezza della nostra ignoranza rispetto al mistero (Dio, universo), nel lasciar cadere ogni brama, nel non ritenersi – o ambire ad esser – padroni di nulla: se non altro per il fatto che in qualsiasi momento la sventura o la morte ci possono strappare tutti i nostri possessi effimeri, sempre e solo provvisori/aleatori.
Questo insomma intendono essere i Sermoni: non già testi teologici ma omelie: discorsi rivolti a un pubblico non necessariamente colto – costituito, com’era, soprattutto da suore (e da qualche chierico) –, formulati in volgare e non in latino (come invece altre opere accademiche del magister). Eppure dette prediche costituiscono la parte migliore e più fortunata degli scritti eckhartiani; da esse si può ricavare il suo ammaestramento mistico, incentrato – come più volte ha puntualizzato Vannini – sul distacco che ci permette un’esistenza all’insegna della più alta/ profonda religiosità/spiritualità”.

(Riproduzione riservata)

© Le Lettere

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La scheda del libro: “Nulla volere, sapere, avere. I sermoni di Meister Eckhart” di Francesco Roat (Le Lettere, 2022)

I sermoni tedeschi sono testimonianza d’un intento: rinnovare il modo d’esser cristiani. In primo luogo aborrendo ogni pratica mercantilistica che veda il rapporto tra uomo e Dio basato sulla trattativa del do ut des: mi comporto in un certo modo per ottenere un qualche ausilio/conforto dalla divinità. Semplificando alquanto, la tematica basilare affrontata in questi sermoni sta nel proporre una condotta all’insegna dell’abnegazione e del “distacco” (abegescheidenheit) da ogni attaccamento mondano quali prerequisiti indispensabili a un approccio esperienziale di tipo mistico; ciò onde ottenere la generazione del Logos nell’anima. Ma se si intende far sì che il Figlio abbia a nascere nell’anima è necessario predisporla in modo che essa sia priva d’ogni forma di brama o egotismo, mediante un abbandono che è insieme magnanimità e non-dipendenza dall’inessenziale. Nell’ottica eckhartiana il distacco si coniuga all’accettazione serena della realtà/esistenza, anche (o soprattutto) quando essa comporti privazioni, pene, lutti. Un’accettazione non certo masochistica, che non ha nulla della passività o dell’apatia ma che si configura come una sorta di noluntas, di abdicazione alla propria volontà/egoità in modo da non pretendere più nulla; per quanto, paradossalmente, nulla cercando molto si ottiene. Solo così, per il mistico Eckhart, gli uomini possono divenire – qui e ora, non in un futuribile/ineffabile eden – davvero “beati” (saelic). Perciò l’uomo pneumatico: «nulla vuole, nulla sa, nulla ha» (Sermone 52). Va precisato, ovviamente, che questa serie di nulla si riferisce soprattutto alla hybris dell’egocentrismo e alla sua perenne smania desiderante e alla pretesa di comprendere intellettualmente ciò che valica i limiti dell’umano sapere (Dio); infine alla fame insaziabile di possesso/primato: in primo luogo quello, apparentemente encomiabile, costituito dal proposito di acquisire la piena realizzazione spirituale. Riguardo a tale massimo traguardo, il mistico tedesco è sin troppo chiaro: «se l’anima deve conoscere Dio, deve dimenticare sé stessa e deve perdere sé stessa» (Sermone 68). Solo questa presa di distanza consente all’anima di giungere al proprio “fondo” (grunt), che sembra non discostarsi molto dall’heideggeriano Abgrund: quell’abisso vuoto e senza fondamento che può angosciare solo chi cerca solide certezze cui ancorarsi. Infine: per il predicatore Eckhart è valida appena la teologia apofatica, in quanto su Dio si può dire appena cosa non è. E giusto con questa consapevolezza il mistico si deve sempre misurare: conscio dell’impossibilità di parlare dell’ineffabile, ma al contempo sospinto dalla compassione/charitas a fornire una bussola orientativa al pellegrino incamminatosi per l’arduo sentiero dell’autentica spiritualità. (Presentazione di Marco Vannini).

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Francesco Roat – saggista, narratore e critico letterario trentino –, già insegnante di lettere nella scuola secondaria e consulente editoriale, scrive da decenni di temi culturali su quotidiani, settimanali e riviste. Ha pubblicato i saggi: L’ape di luglio che scotta. Anna Maria Farabbi poeta (LietoColle), Le Elegie di Rilke tra angeli e finitudine (Alpha beta), La pienezza del vuoto. Tracce mistiche negli scritti di Robert Walser (Vox Populi), Desiderare invano. Il mito di Faust in Goethe e altrove (Moretti&Vitali), Il cantore folle. Hölderlin e le Poesie della torre (Moretti&Vitali), Religiosità in Nietzsche. Il vangelo di Zarathustra (Mimesis), Beatitudine. Angelus Silesius e Il pellegrino cherubico (Àncora), Miti, miraggi e realtà del ritorno (Moretti&Vitali).

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