“Bulky” di Raffaella Simoncini (Neo Edizioni, 2022): incontro con l’autrice e un brano estratto dal romanzo
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Raffaella Simoncini è nata a Milano e vive a Pescara. Frequenta laboratori e spazi teatrali, studia scrittura creativa presso la Scuola Macondo. È tra le fondatrici dell’Associazione FonderieArs, che si occupa di arte e teatro. Alle otto timbra il cartellino e nel tragitto verso il luogo di lavoro immagina storie. Affida alla trasfigurazione del romanzo la sua esperienza della malattia e scrive Bulky, suo esordio letterario.
Abbiamo chiesto all’autrice di parlarcene…
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«L’idea alla base di questo romanzo affonda le radici nella mia storia personale», ha raccontato Raffaella Simoncini a Letteratitudine. «Ho avuto il cancro a 25 anni e ho vissuto quell’esperienza nell’unico modo per me possibile: con intensità, rabbia, ironia. La malattia però in “Bulky” non è protagonista indiscussa, ma diventa elemento contingente, pretesto narrativo, grazie al quale racconto una storia che parla di conti in sospeso, di trasformazione e di un’amicizia improbabile e viscerale.
Le due protagoniste, Luce e la Cuoca, si incontrano loro malgrado in una stanza d’ospedale: non potrebbero essere più diverse per età, professione, approccio alla vita. Costrette a condividere uno spazio esiguo e ristretto, con il passare dei giorni quel luogo diventerà sempre più lo specchio delle loro esistenze, in un gioco di contrapposizioni tra ciò che accade dentro e fuori le mura ospedaliere. Mentre la vita continua la sua corsa su binari prefissati che le protagoniste credevano essere fatti appositamente per loro, la malattia arriva: e con il suo arrivo cadono i capelli, il senso del gusto si perde, le allucinazioni uditive accompagnano le notti insonni e sentimenti fino a quel momento sopiti vengono a galla. Luce, giovane e brillante avvocatessa, è una donna apparentemente controllata. La Cuoca, prossima alla vecchiaia, condisce ogni parola di rabbia e disgusto. Cosa le unisce? Cosa trasformerà la loro iniziale insofferenza in un legame di amicizia profondo e tenace? La certezza di qualcosa di ingombrante, di scomodo, che occupa uno spazio che non dovrebbe occupare. “Bulky” è metafora di tutto ciò che ci toglie il fiato, e che rende la vita solo mera sopravvivenza. I cambiamenti fisici imposti dalla malattia causano dei profondi cambiamenti interiori nelle due protagoniste: l’energia si propaga come un’onda d’urto e travolge anche i familiari che gravitano attorno a Luce e alla Cuoca, che ne usciranno irrimediabilmente cambiati a loro volta. Può esserci una libertà ritrovata proprio all’interno di un luogo limitato e asettico come l’ospedale? Può la costrizione fisica farci comprendere le costrizioni mentali che fino ad un attimo prima pensavamo essere parte necessaria delle nostre vite? Durante un percorso fatto di rinunce e di rivincite, tutti i personaggi saranno alla fine nudi, ridotti all’essenziale. Di fronte ad uno specchio che ormai non fa più paura, chi senza capelli, chi senza cravatta, chi senza foulard, chi senza sigarette, sapranno di aver attraversato un mare in tempesta e di esserne usciti con qualcosa in più: un’immagine nuova di se stessi».
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Un brano estratto da “Bulky” di Raffaella Simoncini (Neo Edizioni, 2022 – estratto pag. 11-14)

ORE 4.00
La Cuoca è la peggiore compagna di stanza che mi sia capitata negli ultimi quattordici mesi.
Anche ora, durante l’ennesima passeggiata notturna, sbatte contro la sedia, il tavolo, la porta, il letto mio, il comodino, la sbarra, il letto suo. Lo fa sempre, e sempre in quest’ordine. Chiude le porte con disprezzo, accende luci che poi non spegne, apre tiretti malfermi, ciabatta impunemente sul linoleum, molla bestemmie.
Di giorno strepita, senza sosta e cognizione dei decibel. Si lamenta dei pasti, che manda indietro brutalmente, mangia in piedi come i cavalli, si siede sul bordo del letto in camicia da notte, a gambe larghe, e sottolinea rumorosamente mancanze che non esistono. Occupa l’unico tavolo disponibile con vestaglie, calzini, bicchieri, fazzoletti, succhi di frutta, rotoli di carta, scatole di wafer lasciate a metà, caramelle, giornali, e un marito accasciato lì, pronto ad affogare nel mare di bile che lei gli riversa contro. Riesce a infilarsi in bagno sempre prima di me e sempre a bagno appena pulito, e resta dentro per un tempo interminabile; temo che prima o poi possa perdere la pelle, tanta è la forza con cui si lava, e a volte la sogno che percorre il corridoio con muscoli e organi in vista mentre si strofina con una spazzola di crine e si getta sul cranio scoperto interi barattoli di borotalco.
È dentro da sette giorni, e sembrano sette mesi.
I capelli sale e pepe (li ha ancora, lunghi fino al sedere) li tiene orgogliosamente legati in nobili code di cavallo. Ha gli occhi scuri e accesi, le mani forti, il viso di chi ha vissuto mangiando sabbia e spalando merda.
Mi agita. È un mormorio continuo che non mi dà pace. Finirò per picchiarla, appena ne avrò la forza. Le stringerò il tubo della flebo intorno al collo fino a farla rantolare. Fino a che, finalmente, soffrirà in silenzio.
È notte e sono nel mio letto immobile, le do le spalle. Lei trascina la sedia e mi si para davanti.
«È inutile che fai finta di dormire. Ti ho capita, sai? Tu pensi di essere meglio di me».
L’alito malsano si incolla alla mia testa calva. I muscoli del collo si irrigidiscono, il battito aumenta; cerco di calmare il respiro ma sono in preallarme, una sopravvissuta a un naufragio che ora, a mare quieto, intuisce l’arrivo di una nuova tempesta.
All’improvviso, il suono del campanello mi colpisce in pieno volto, lo stomaco reagisce facendomi scattare in avanti. L’infermiere arriva, blocca l’allarme e accende le luci. Il bianco lattiginoso della stanza mi avvolge.
«Grazie a Dio l’hai spento» fa la Cuoca.
«Che succede?» chiede l’infermiere.
«Ha suonato lei, io mi ero alzata per andare in bagno».
«Ma io stavo dormendo».
«Siete solo in due, qui. Una di voi dev’essere stata».
«La notte si agita così tanto che secondo me ha chiamato per sbaglio» continua la Cuoca.
«Scusa, ma dove lo tieni il campanello?» fa lui, contrariato.
«Lo tengo qui, vicino al cuscino… al comodino non ci arriva, il cavo è troppo corto».
«Ma se lo tieni lì basta un movimento qualunque per farlo suonare».
La Cuoca allarga le braccia e scuote la testa, spazientita.
«Ora spostiamo il comodino, così il problema è risolto. A lei il comodino qui non dà fastidio, vero?»
«Ma figurati, l’importante è che riusciamo a dormire».
L’infermiere ci lancia lo sguardo arreso di chi vuole solo buttarsi di nuovo sulla brandina, finire il turno e tornare a respirare. Spegne le luci, accosta la porta e se ne va. Ma subito la Cuoca accende la lampada notturna del suo letto, si siede e inizia a pettinarsi con lentezza.
«Può spegnerla, per favore?»
«Perché?»
«Vorrei provare a dormire».
«Se volevi dormire, non dovevi suonare il campanello».
«Ma non l’ho suonato!»
«Ah, quindi sarei stata io?»
«Prima, mentre dormivo, lei si è avvicinata per parlarmi. Forse in quel momento…»
«Parlarti? Io ragionavo tra me e me».
«Senta, lei mi ha parlato, e per farlo si è appoggiata al mio letto e ha suonato il campanello».
«Ah, quindi non stavi dormendo».
«Cosa?»
«Io mi siedo a riflettere su questa disgrazia che mi è capitata e tu, che invece fai finta di dormire, ti metti a origliare i miei discorsi?»
«Non stavo facendo finta, ho il sonno leggero, per cui è facile…»
«Per cui è facile che ti sbagli».
Rotea la spazzola in aria e raccoglie un nodo di capelli morti che lascia lì, sul tavolo.
Mi giro e cerco di concentrarmi su qualcos’altro. La spia rossa dell’infusore a pompa, in questa eterna penombra sfocata, è l’unico punto fermo. Decido di non spostare gli occhi da lì. Non dormo, ma non voglio che lei se ne accorga. Non voglio che ricominci a parlarmi. Il punto rosso inizia a vibrare e le vibrazioni si trasmettono al mio corpo. Poi dondola da un lato all’altro, è un panno che sventola davanti a un animale selvaggio.
Sento la Cuoca alzarsi dalla sedia. Chiudo gli occhi, stringo le palpebre fino a che le guance mi fanno male.
Coraggio, forza, speranza: non c’è più posto nel mio intestino, nelle mie ossa. Il mio corpo è saturo. Resta solo un filo rosso a tenerne insieme i pezzi. La rabbia, lucida e controllata, è tutto ciò che mi è rimasto di umano. Non sarà questa donna a portarmela via.
(Riproduzione riservata)
© Neo Edizioni
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La scheda del libro: “Bulky” di Raffaella Simoncini (Neo Edizioni, 2022)
L’autrice parte dalla propria esperienza personale per un romanzo che racconta la malattia e l’amicizia tra due donne accomunate da una stanza d’ospedale e dalla presa di coscienza di voler cambiare la propria vita.
Luce è in ospedale. Nella cartella clinica ha trovato un termine inglese: bulky. Ecco il nome della sua malattia, di quel tumore raro che bisogna asportare. Un nome che arriva ad abbracciare anche la freddezza e l’asetticità dell’anamnesi, delle terapie, della convalescenza.
Come compagna di stanza ha una donna anziana, insopportabile. Un’ex cuoca arrabbiata con il mondo, di quella rabbia che ferisce perché dice la verità.
Per Luce il tempo sembra fermarsi, il senso di inadeguatezza cresce, i giorni incespicano in una grammatica nuova, che le due donne dovranno imparare per scoprire di avere in comune qualcos’altro oltre la malattia: un conto in sospeso con le proprie vite.
Traendo ispirazione dal proprio vissuto, Raffaella Simoncini racconta di due destini che, loro malgrado, si intrecciano in un presente senza più certezze. E lo fa con un romanzo in cui questo presente diventa un fondale inesplorato da scandagliare per raggiungere la superficie e riuscire a scivolare via, come gli origami di carta che la protagonista faceva con sua nonna da bambina.
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