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IL QUINTO SIGILLO di Davide Cossu (Newton Compton)

febbraio 3, 2023

https://www.newtoncompton.com/files/cache/bookimages/17027/il-quinto-sigillo-x1000.jpg“Il quinto sigillo” di Davide Cossu (Newton Compton): incontro con l’autore e un brano estratto dal romanzo

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Davide Cossu è nato a Cagliari nel 1987. Laureato in Storia del Cinema e Filosofia, ha studiato Scrittura Creativa presso la Scuola Holden di Torino. Il quinto sigillo è il suo primo romanzo.

Abbiamo chiesto all’autore di parlarcene…

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«La Storia può condensarsi in un’immagine e, da quella singola immagine, altre storie vengono alla luce», ha detto Davide Cossu a Letteratitudine.
«La mia storia parte da un affresco. Uno dei più ricchi e controversi dell’arte rinascimentale, La cavalcata dei Magi di Benozzo Gozzoli, che decora la cappella privata del palazzo costruito da Cosimo de’ Medici a Firenze sull’allora via Larga, oggi palazzo Medici Riccardi. Sulle pareti della cappella, un lungo corteo di personaggi sontuosamente abbigliati si snoda, ammiccando allo spettatore, in un paesaggio fiabesco. La ricchezza della natura, la precisione dei dettagli, il carattere dipinto su ogni volto: un’opera-fiume, che trascina in un mondo lontano e prezioso e pone chi guarda davanti a una scelta. Immergersi in quel vortice, col rischio di perdersi.
I Magi, che guidano a cavallo la carovana, hanno una fisionomia troppo accurata per essere immaginari. Benozzo volle immortalare nei saggi venuti da Oriente tre figure che vide in gioventù: il patriarca Giuseppe di Costantinopoli, l’imperatore d’Oriente Giovanni Paleologo e il suo ambiziosissimo fratello Demetrio. Dietro di loro, l’artista ritrasse la folla dei personaggi che, vent’anni prima della composizione dell’affresco, popolarono Firenze in occasione del concilio che intendeva riunire la cristianità d’Oriente e d’Occidente. Un evento quasi sconosciuto e politicamente votato al fallimento da cui si svilupperà, grazie alla sapienza tramandata dagli ospiti greci, la grande stagione del Rinascimento.
https://64.media.tumblr.com/4391a3ffc21f0db3b2e3dc3cd7b50937/062b1c44afcf39b8-c1/s500x750/495b7b416f61c2b185ccf5d3a74f9a60e248ffa5.jpgFin qui, lo sfondo dell’affresco. La storia raccontata nel romanzo ha come fulcro la sete di conoscenza comune a greci e latini di cui i protagonisti non possono fare a meno, al pari di una droga, e la struttura del giallo mi ha portato durante la scrittura a confrontarmi con le idee per le quali quegli stessi personaggi sono disposti a vivere e a morire. La ricerca filosofica non è poi tanto diversa dallo svolgersi di un’indagine: forza i protagonisti – e con loro il lettore – a porsi delle domande, investigare sulle cause, ipotizzare soluzioni. E può darsi che, alla fine, sia i protagonisti che il lettore avranno più domande che risposte perché, come detta la filosofia che si intreccia alla storia, la ricerca della verità non conosce la parola “fine”.
Per condurre un’indagine, mi serviva un detective. Chi meglio allora di Leon Battista Alberti? Una figura straordinaria e complessa, mossa da mille interessi e non poche contraddizioni. Un genio universale pronto, come in tanti a quel tempo, a dannarsi l’anima per un libro. In più, con una tendenza a mettere in discussione il mondo che lo circonda, nella segreta convinzione che la realtà non sia mai quella che appare ai suoi occhi.
Vedevo in Leon Battista un prisma su cui quell’epoca magnifica e crudele potesse riflettersi, senza esserne deformata. Nel romanzo, Alberti osserva le cose con gli occhi del cinico alla perenne ricerca di un briciolo di fede, quella fede che invidia all’amico Tommaso e di cui diffida per paura che lo ostacoli nel cercare la verità. Il suo dilemma è la contraddizione insita nel Rinascimento: un mondo in cui, se l’uomo è al centro di ogni cosa, salgono alla ribalta i dubbi, le ansie e le inevitabili imperfezioni che ogni essere umano porta dentro di sé. Quel che fa di lui un uomo “moderno” e, pertanto, assai vicino a noi».

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Un brano estratto da “Il quinto sigillo” di Davide Cossu (Newton Compton)

 

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I

«Antiquam exquirite matrem… Hic domus Aeneae cunctis dominabitur oris… Et nati natorum…».
Battista percepì dei passi nel corridoio e smise di leggere. Sollevò lo sguardo dalla pergamena ma non vide nessuno. La grande sala della cancelleria era vuota, i tavoli ancora ingombri di carte e la grata sul fondo chiusa dalle tende di broccato, da quando gli altri curiali erano stati dispensati dal lavoro per assistere i padri conciliari nelle sedute pomeridiane.
Sentì i passi avvicinarsi e nascose il codice dell’Eneide sotto una pila di minute. Si sistemò la berretta sulla testa e intinse la penna nell’inchiostro, attendendo l’arrivo del cancelliere.
«…Et qui nascentur ab illis. Finisci almeno il verso», disse l’uomo nel corridoio, e Battista vide un viso tondo e bonario sorridergli dalla porta. «Virgilio non va sprecato, nemmeno una sillaba».
«Tommaso!», esclamò Battista con sollievo, «sei una visita più gradita del previsto».
«Quale onore», rispose l’amico. «Mi aspettavo di trovarti sommerso dal lavoro, e infatti non mi sbagliavo», e prese ad accarezzare il dorso del libro sepolto sotto le carte per saggiare la qualità della rilegatura. «Conoscendoti, avrai disseminato tesori nascosti come questo in ogni anfratto del convento».
«Tu li chiami tesori, io li chiamo porti sicuri. Mi impediscono di annegare in questo mare di scartoffie».
«Curioso», disse Tommaso, «non conosco uomo in tutta la cristianià che ami le lettere più di te. E nessuno che se ne lamenti così tanto quando deve averci a che fare».
«Nonostante le apparenze», sibilò Battista indicando il tavolo da lavoro, «mi piace considerarmi uno scrittore, non uno scrivano».
Tommaso rise, sfregandosi la punta affilata del naso.
«Non ci insegna il tuo Cicerone che a volte è proprio la diligenza a scuotere dal torpore l’ingegno?»
«A volte», rispose assorto Battista, «persino a Cicerone capitava di sbagliare. A che debbo la tua visita?»
«Sua Eminenza il cardinale mi ha mandato a chiamare», disse l’altro con tono serio. Battista sapeva che il porporato era noto in curia, oltre che per il gusto della buona tavola, per i frequenti attacchi di collera e trattenne le labbra al pensiero che l’amico, malgrado fosse da quasi vent’anni segretario e protetto del cardinale, fosse ancora capace di tremare alla chiamata del padrone come uno scolaro davanti alla cattedra.
«Non temere, Tommaso, sono certo che non è nulla di grave. Sarà il solito problema di traduzione con i delegati greci».
«Temo sia qualcos’altro», replicò Tommaso, «sei convocato anche tu».
«Io?»
«Vuole vederci il prima possibile».
Battista pensò a cosa potesse aver fatto per dispiacere il cardinale non trovando nulla, a parte le distrazioni letterarie, particolarmente degno di reprimenda.
«Sei preoccupato?», chiese l’amico.
«Per nulla», si schermì Battista.
«Ottimo». Tommaso si sistemò la veste e si avviò verso la porta. «Adesso so che se Sua Eminenza vorà svestire i panni dell’affettuoso padre di famiglia non saò l’unico a prendere le bastonate».
Battista abbozzò un sorriso e spense la candela. Guardò fuori dalla finestra mentre il sole si posava sulle colline, e prima di raggiungere Tommaso ripose l’Eneide in mezzo a due grossi volumi di decretali.
Scesero la scalinata che portava al chiostro grande, facendosi largo tra la folla. Il convento di Santa Maria Novella brulicava di teologi, canonisti, politicanti e faccendieri di ogni specie da quando il concilio, indetto per riunire dopo quattro secoli di scisma la Chiesa latina e quella greca, si era mosso da Ferrara, fuggendo la peste che lì infuriava. Le sale del cenobio domenicano risuonavano dei colpi di martello degli operai e del serraglio di lingue dei delegati, in cui la cantilena del greco si mescolava al latino solenne della curia e alla schiettezza delle parlate volgari. Un soffuso mormorio si levò, segnalando la chiusura della seduta del pomeriggio, e i due videro i padri conciliari sciamare dalla sala capitolare e riunirsi in capannelli sotto le arcate del chiostro, confabulando tra loro con ampi gesti. Quando la disputa saliva di tono interveniva un interprete a calmare gli animi mentre, isolati dagli altri, domenicani dal lungo scapolare e dignitari greci in dalmatica azzurra passeggiavano sotto braccio nei vialetti del giardino. L’occhio di Battista anò alle barbe fluenti e alle vesti sontuose dei padri orientali, trapunte di oro e cobalto, chiedendosi se fossero proprio quegli uomini i depositari dell’antico splendore tramandato dalle pagine dei classici.
«Non sembrano soddisfatti», sussurrò a Tommaso.
«Siamo a un punto morto», rispose l’amico, «i delegati della Chiesa greca non acconsentono più a dibattere in sessioni pubbliche. Sua Eminenza è molto preoccupata e anche il Santo Padre, a quanto ne so, inizia a dare segni di nervosismo. L’ultimo incontro con i rappresentanti dell’imperatore non è andato bene».
«Papa Eugenio è un sottile diplomatico. Queste cose si risolvono più con la politica, caro Tommaso, che non con gli argomenti di dottrina».
«Temo sia la politica», concluse l’altro, «lo scoglio più insidioso in questo mare di chiacchiere. Sua Eminenza mi ha avvisato che al nostro incontro sarà presente anche il cancelliere».
Battista non riuscì a nascondere una smorfia di disappunto.
«Non quel cancelliere», disse Tommaso sottovoce, e girò all’improvviso verso la sagrestia del capitolo, rischiando di inciampare nello stipite della porta.
Battista scosse la testa e lo seguì, fendendo la calca dei religiosi che guadagnavano l’uscita.
Si ritrovarono in un ambiente piccolo e male illuminato. Alle pareti campeggiavano affreschi stinti, notò Battista con disprezzo, di chiara foggia barbarica. Riparato dietro una colonna, il cardinale Albergati parlava a bassa voce con un uomo alto ed esile, avvolto in un mantello dalle maniche foderate di pelliccia e un marzocchino nero ad ampie falde. Entrambi, mentre discorrevano, chinavano il capo con riguardo verso l’angolo più buio della stanza. Il porporato fece cenno a Tommaso e Battista di avvicinarsi.
«Figlioli miei», proferì con tono insolitamente docile, «venite avanti». Toccò il braccio del gentiluomo, indicando i due curiali.
«Coloro di cui vi parlavo poc’anzi. Da molto tempo fanno parte della mia famiglia e so che potete contare sulla loro discrezione, oltre che sulla mia. Figli miei, vi presento ser Leonardo Bruni, cancelliere della Repubblica fiorentina».
Abbassarono il capo in segno di rispetto. Battista conosceva di fama il massimo esponente della diplomazia fiorentina, oltre alla reputazione di erudito che Bruni aveva saputo costruirsi negli anni al servizio della Repubblica.
«Servo vostro», dissero i due all’unisono, ricambiati dal Bruni con un accenno di inchino. Battista osservò l’eleganza dei modi e l’altera figura del cancelliere, non provando per esse alcuna simpatia.
«Messer Bruni», continuò il cardinale, «questi sono i miei virgulti. Tommaso Parentucelli da Sarzana, il mio segretario personale e bibliotecario, vi confido che sarei perso senza di lui», e Tommaso a tali parole arrossì di orgoglio, «e il vostro stimatissimo concittadino Battista, della nobile famiglia degli Alberti, abbreviatore della cancelleria apostolica».
Una voce risuonò dal fondo buio della stanza.
«Conosciamo bene Leon Battista Alberti e quanto può dare alla sua città».
Bruni e il cardinale fecero un passo indietro. Dall’oscurità emerse la figura di un uomo emaciato, dalla car- nagione olivastra, assiso su una seggiola. Era vestito di un pesante panno cremisi e sotto la berretta di lana si muovevano senza posa due occhi vivi e curiosi. Le pieghe del vestito lasciavano intuire una corporatura agile, nonostante le rughe del viso tradissero il passare degli anni. Battista stette immobile per un attimo e, dopo averlo riconosciuto, chinò il viso.
«Messer Cosimo, la vostra considerazione oltrepassa i miei meriti».
Cosimo de’ Medici strinse i pomelli della seggiola e si alzò. «Conosciamo», disse con un sorriso affabile, «anche le qualità di Tommaso da Sarzana, naturalmente. La nostra biblioteca necessita di buone cure e a quanto dicono i miei amici nessuno coltiva l’amore per i libri con più sollecitudine di voi».
«Mi onorate», balbettò Tommaso.
Il più illustre cittadino di Firenze si avvicinò alla luce, prendendo posto accanto a Bruni e al cardinale.
«Siete voi», chiese il cancelliere a Battista, «l’autore di quel trattato sulla pittura?»
«Sono io».
«Un’opera notevole, di grande ingegno», scandì piano Bruni, «siete riuscito ad applicare in maniera mirabile i concetti del sommo Euclide a un campo ancora poco battuto dalla nostra scienza».
«Spero che i miei concetti non sfigurino accanto a quel- li del sommo Euclide».
«Per quanto i nostri concetti volino alto, messer Alberti, essi si ispirano ai grandi uomini che ci hanno preceduto, senza per questo pretendere di essergli pari».
«Ne convengo, messere. Possiamo però pretendere di essere diversi», ribatté Battista.
Cosimo lanciò una rapida occhiata al cardinale che interruppe la discussione.
«Figlioli, vi abbiamo convocato per una questione DElicata che va affrontata col massimo tatto. E, se possibile, in silenzio. La presenza del cancelliere e di messer Cosimo de’ Medici dovrebbe avervi già fatto capire la serietà della faccenda e quanto la Repubblica tenga a risolverla il prima possibile».
Tommaso e Battista si guardarono e il cancelliere Bruni, dopo un cenno di Cosimo, li tolse dall’imbarazzo.
«Abbiamo perso un membro della delegazione greca». «Perso?», pigolò Tommaso.
«Il segretario del metropolita Bessarione, Teodoro Niceta, non ha presenziato ai lavori del concilio. Su richiesta del metropolita avevamo cominciato la ricerca, sia nel convento che in città, quando è stato ritrovato questa mattina. Morto».
«È una spiacevole situazione», commentò il cardinale giungendo le mani in preghiera. Gli altri tacquero, finché Battista non ruppe il silenzio.
«Dov’è stato trovato?»
«A Santa Maria del Fiore», intervenne Cosimo, «proprio accanto all’altare».
«Sospettate che le cause della morte non siano naturali?»
«Lo temiamo fortemente, messer Alberti», disse Bruni, «non sappiamo se per volonà propria o altrui, ma tutto fa credere che il greco sia precipitato dalla cupola».
Battista si voltò perplesso verso Tommaso e il cancelliere tossì nervosamente.
«A parte messer Cosimo e i capi delle delegazioni, nessun altro è al corrente dell’accaduto. Il cardinale Albergati ha garantito sul vostro riserbo».
«Eminenza», disse Battista rivolgendosi al cardinale, «non capisco…».
«Figliolo, Sua Santità ha deciso, su richiesta della Signoria, di esonerarvi dalle vostre mansioni qui in curia. Dovrete chiarire le circostanze che hanno portato il greco alla morte e trarre le debite conclusioni».
«Ci state chiedendo di… indagare?», chiese incredulo Tommaso.
«Questa è la volontà del Santo Padre. Nonché la mia».
«Eminenza», replicò umile il segretario, «vi sono sicuramente uomini con maggiore esperienza e autorità, più abili a trattare simili questioni. Noi siamo solo curiali».
«Potresti avere ragione, Tommaso. Sfortunatamente gli uomini di cui parli hanno il notevole svantaggio di essere conosciuti, ed essendo conosciuti vengono braccati a ogni passo, sia dagli amici che dai nemici. Soprattutto dai nemici. Non possiamo correre il rischio che il concilio venga turbato da questa vicenda. Troppe cose dipendono dalla sua riuscita».
Il cardinale fece il gesto di tacere, portandosi le dita guantate alla bocca, e Tommaso si quietò.
Cosimo fissava con occhi socchiusi le reazioni di Battista, come stesse infilando il capo del filo in una cruna. Il curiale sentì su di sé quello sguardo intento a soppesarlo da capo a piedi e decise di giocare a carte scoperte.
«Eminenza, se questo è il desiderio della Signoria e di Sua Santità, obbediremo. Per far luce sulla morte di un uomo bisogna scavare nel passato di quell’uomo ed è sempre un’operazione scomoda poiché si corre il rischio di smuovere acque che avevano tutta l’intenzione di rimanersene placide nell’oscurità. Avremo bisogno dell’autorità massima che potrete concederci».
«L’avrete», annuì il cardinale.
«E inoltre», continuò Battista, «dovremo poterci muovere liberamente con la corte imperiale e con la delegazione greca».
«Faremo in modo che collaborino», rispose il cancelliere, «con la dovuta cautela, si intende».
Cosimo de’ Medici assentì soddisfatto e prese il braccio di Battista. I due si allontanarono dagli altri fino a giungere alla bifora che dava sul chiostro dei morti.
«Ti sono grato. E anche Firenze ti è grata», bisbigliò a Battista come un vecchio amico, «ma vedo che non hai ancora fatto la domanda che desideravi porgermi».
Il curiale guardò fuori e vide uno stormo di rondini planare sul lastrone lucido del pozzo.
«Messer Cosimo…».
«Sì?»
«Perché proprio io?».
Cosimo stirò le labbra in un sorriso.
«Mio caro Leon Battista, non sottovalutare il tuo ingegno. In molti tendono a fare quest’errore. Io no».
«Ma Tommaso ha ragione», rispose il curiale, «la giurisdizione criminale compete ai magistrati della città». «Io sono un semplice cittadino», sentenziò Cosimo, «e agli organi della Repubblica ho il dovere di rimettermi. Eppure vi sono situazioni particolari in cui, per ragioni di opportunità, non conviene confidare eccessivamente nella probità dei magistrati, specie quando questi risultano ancora vicini a chi trama nell’ombra per minare la stabilità della Signoria».
L’allusione a Rinaldo degli Albizzi non colse di sorpresa Battista, che ben conosceva l’odio nutrito per i Medici dal vecchio magnate costretto all’esilio.
«Riferirai esclusivamente a me», continuò Cosimo, «se ho scelto te per questo compito, l’ho fatto per ottime ragioni. Sei fiorentino, innanzitutto. Conosci la città, sai come muoverti».
«Mio padre era di Firenze», mormorò Battista.
«Lo sei anche tu. L’essere nato in esilio non fa di te uno straniero, ma al tempo stesso permette di presentarti come estraneo alle beghe della città. In più, in quanto membro della curia, hai accesso ai lavori conciliari e agli uomini che li dirigono senza che la tua attività desti eccessivi sospetti. Per quanto riguarda i greci, lo sai, sono tanto sapienti quanto protervi, ma confido che sarai in grado di rendergli pan per focaccia. Tommaso da Sarzana ha una grande conoscenza della lingua greca e delle mene teologiche in cui affoghiamo, Iddio mi perdoni, da ormai quattro mesi. Egli è incaricato quanto te, ma sarai tu a condurre l’indagine, così come sarai tu ad aggiornar- mi sul suo sviluppo. Spero di aver fugato i tuoi dubbi».
«Vi ringrazio, messere».
«Un’ultima cosa», aggiunse Cosimo, «un consiglio, se posso. Osserva molto, ascolta tutti, ritieni il giusto e non fidarti di nessuno. Molti, per malizia o cecità, vorrebbe- ro la rovina di questo concilio e non capiscono che l’unione delle due Chiese è imprescindibile per il mondo. I turchi battono alle porte di Costantinopoli. Un accordo tra i prìncipi cristiani è l’unica possibilità di salvezza per l’imperatore. Se il concilio fallisce Costantinopoli cadrà, trascinando nel crollo l’intera cristianità. E Firenze con essa».
«Temete ci sia una tempesta all’orizzonte?», domandò Battista, e il viso rabbuiato di Cosimo si voltò a cercare la luce del chiostro.
«Le tempeste sono sempre all’orizzonte. Temere cose non ancora avvenute è l’occupazione principale di chi regge i popoli. Ciò che possiamo fare è spingere la tempesta un po’ più in là, prima che ci travolga tutti quanti. Ma ho fede che messer Domineddio, se faremo il nostro, vorrà concederci una volta ancora la sua benevolenza».
«Non vi facevo così devoto», osservò il curiale con un sorriso complice, «eppure una volta diceste che gli stati non si governano con i paternostri».
«Vero», rispose l’altro, e si mise a tamburellare con le dita sulla croce di rubini che teneva al collo, «ma devo ammettere che a volte, per la salute degli stati, persino i paternostri possono rivelarsi utili».
«Anche quando sono insinceri?»
«Tanto più», sorrise amaro Cosimo, e gli batté la mano sul gomito.
«Fate bene, ma fate in fretta. Conto su di voi».

(Riproduzione riservata)

© 2023 Newton Compton Editori s.r.l.

 

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La scheda del libro: “Il quinto sigillo” di Davide Cossu (Newton Compton)

https://www.newtoncompton.com/files/cache/bookimages/17027/il-quinto-sigillo-x1000.jpgFirenze, 1439. Durante il delicatissimo concilio ecumenico, un inquietante evento rischia di creare ulteriori e pericolose tensioni tra la Chiesa latina e quella greca: un delegato greco, appena ventenne, precipita dalla cupola di Santa Maria del Fiore. Cosimo de’ Medici incarica subito Leon Battista Alberti, noto per il suo ingegno acuto, di indagare segretamente su quell’evento tanto violento. I segni sul collo della vittima costringono presto Leon Battista a informare Cosimo che l’ipotesi di suicidio inizialmente elaborata è da scartare. Non solo, infatti, il giovane è stato strangolato, ma il cadavere aveva in bocca un fiorino d’oro e un foglietto con su scritto “TIMEO”.
Alberti e Parentucelli, raffinato e dotto teologo che lo affianca nell’indagine, non impiegano molto tempo a scandagliare la vita della vittima, il giovane Teodoro, i suoi affari, le sue frequentazioni. Ma chi possa avere avuto interesse a ucciderlo resta un mistero. E soprattutto, perché? C’è forse qualcuno che trama perché l’unione tra le due Chiese fallisca?
Quando un altro crimine bagna di sangue le strade di Firenze, i due si rendono conto che dietro a quelle morti c’è uno schema concepito con diabolica precisione da una mente lucida e spietata. Se non troveranno al più presto l’assassino, non solo le morti finiranno per moltiplicarsi, ma il destino della cristianità sarà in grave pericolo.

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