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IL GRAN BUGIARDO di Ermanno Cavazzoni (La nave di Teseo) – recensione

febbraio 11, 2023

Il gran bugiardo - Ermanno Cavazzoni - copertina“Il gran bugiardo” di Ermanno Cavazzoni (La nave di Teseo)

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UN ROMANZO SCRITTO NEL SEGNO MOZARTIANO DELLA FELICITÀ DEL NARRARE

di Salvo Sequenzia

Aveva ragione il grande critico George Steiner quando, in Vere presenze (1998), invitava il lettore a stare in guardia dal linguaggio, depositario di ogni verità e rivelazione, ma anche di ogni menzogna e mistificazione. In Italia, il tema della bugia e della menzogna comincia a farsi strada nella narrativa degli anni Settanta, e sarà ripreso dalla narrativa del secondo Novecento in un modo del tutto nuovo – tra le teorie del Gruppo 63 e le sperimentazioni di Italo Calvino e di Giorgio Manganelli – e con altre finalità rispetto alle esperienze precedenti, nelle quali tale tema si manifestava nei romanzi spesso assumendo le vesti del personaggio bugiardo o del  narratore inattendibile che si prende gioco del lettore secondo una strategia di depistaggio narrativo pianificata a tavolino dall’autore.
Alcuni scrittori, nei decenni precedenti, sedotti dalla sirena della menzogna, hanno guardato alla realtà come illusione e inganno, sgomitolando l’antico filo di una tradizione filosofico-letteraria che, dalla Poetica di Aristotele giunge carsicamente sino al Pirandello del saggio L’umorismo (1908). L’inganno non risiederebbe soltanto nella scrittura, bensì nella stessa natura costitutiva del reale,  incomprensibile e ambigua.
Ad annodare al suo ago l’«occulto stame» di questa tradizione è Ermanno Cavazzoni con il suo recente romanzo  Il gran bugiardo (La Nave di Teseo, collana Oceani, pp. 208, 2023).
Il romanzo reperisce (sarà vero?) la «storia di un caso estremo, raro, esemplare, ispirato a un fatto accaduto», di un «bugiardo che si può definire patologico», un «povero disgraziato […] immigrato in città, venuto come studente di medicina. Aveva cominciato con una modesta bugia, rimediabile, non sapeva che era il primo passo in quel gorgo che l’ha poi inghiottito».
La prima «modesta bugia» diviene il peccato originale che marchia lo strambo individuo sino alla fine della storia e che, allo stesso tempo, scatena il furor della confusio linguarum che scuote e si agita in tutto il romanzo.
Per tutelare l’anonimato di questo individuo realmente esistito l’autore, nel romanzo, lo appella soltanto con il suo nome proprio: Nicola, Nic. E lo cognomina – forse occhieggiando al manzoniano episodio dell’Innominato dei Promessi sposi – con un convenzionale, mentito XY.
Ebbene, Nicola XY è un personaggio fregoliano.
Per sedurre la giovane e avvenente Mirta, sprofondata nella lettura di un libro in tram, è in grado di indossare i panni di uno scrittore, tale Luc Barbaresco; e, nel giro di poche ore, per entrare nelle grazie di Ester, appassionata di musica, riesce a trasformarsi in un direttore d’orchestra, il celebre maestro Olgiati-Parenti. Allo stesso tempo, Nic, con sublime naturalezza si fa credere ora barbone (con tanto di barba finta) alla mensa dei poveri, dove mangia per risparmiare; ora medico specializzato, luminare della medicina (lui mai laureato e millantatore di laurea in medicina con tanto di specializzazione in endocrinologia ai suoi genitori che lo credono un primario) nell’appartamento in cui ha affittato una camera negli anni d’università e dove vive fingendosi medico e curando l’anziana padrona di casa, la signora Cortesi, insieme all’altrettanto attempata governante, le quali lo credono, oltre a un medico affermato, anche un benefattore e, addirittura, un santo («è Gesù!!!»): «La vecchietta, la signora Cortesi, lo amava molto, Nic, cioè Nicola XY; lo adorava pur nel suo vaneggiamento mentale, soprattutto perché lo credeva medico, il dottor Oscar, s’era presentato con questo nome, che non era il suo nome, nell’eventualità che dovesse sparire se non avesse avuto più soldi…».
Nic «mente per fare breccia nelle ragazze, o mettersi in buona luce con le persone; ma con bugie gigantesche, insostenibili, che gli escono come se lui stesso ne fosse vittima, al prezzo di gravi angosce e l’accavallarsi inestricabile delle vicende». In un certo senso, il suo mentire è l’espressione di una purezza e di una sacralità riconducibili ai primordi dell’umano, all’innocens e al puer sacer, mendax ab initio, figura archetipica indagata da James Hillman e legata alla fantasia distruttrice e ri-creatrice iperborea, connotata nei suoi aspetti più obliqui: l’irrequietezza, l’immaturità, la volontà di sovvertimento del kosmos per una naturale aspirazione a re-instaurare il  kaos originario. Il vagabondare di Nic da una donna all’altra è quello di uno spirito senza attaccamenti, di un narcisista dissolutore dell’ordine  del reale more geometrico demonstrato.
Nel rimbalzo esilarante di travestimenti e di fraintendimenti in cui la vicenda si avviluppa sino a una katastrophè tragicomica, realtà e finzione convergono nel linguaggio, colmando il divario incolmabile tra parola e mondo.
Ne Il gran  bugiardo, Cavazzoni  si fa inventore inesauribile e irresistibile, abilissimo  nel tessere la fragile tela della bugia sul telaio della scrittura sino a dare dimensione di senso e di significato all’universo inverosimile concepito dal suo personaggio: un mondo falso, fondato iuxta propria principia sulla menzogna che, per un breve frangente, urta e sovrasta, travolgendolo in una tragicomica deflagrazione, il mondo vero.
Nic dice di essere medico e, nel momento in cui lo afferma, lo è, esercitando buffonescamente la professione sino ad aprire una piccola clinica nel palazzo in cui vive. Nic dice di essere scrittore senza avere mai scritto, e nel momento in cui lo afferma lo è, sostituendosi al vero scrittore sino a farsi pubblicare un libro (scritto, ovviamente, da un altro scrittore) e di vincere un premio letterario. Con la stessa naturalezza e genialità, egli è  un barbone, è un direttore d’orchestra, mettendosi a dirigere senza saper nulla di direzione e di musica. Il vero Olgiati-Parenti, patito di spiritismo e di donne, lo crede un diavolo (il Grande Mentitore?), un emissario del ministero delle finanze, un sindacalista, un astuto impostore (l’Ulisse polytropos, dalle molte forme?), un fantoccio (il Pinocchio creatura infera raccontato da Manganelli nel suo «libro parallelo»?) nelle mani di poteri inverificabili. Nic è l’Uno, nessuno e centomila pirandelliano, l’Hermès  proteiforme indagato dal filosofo francese Michel Serres nei suoi studi compiuti a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, il messaggero degli dei e custode degli incroci, emblema del «nomadismo strutturale» caratteristico della nostra epoca, che invita gli uomini all’erranza, all’unione di ciò che non può essere unito, alla trasmutazione alchemica e al deragliamento, alla persuasione attraverso la parola, il logos, l’unica entità in grado di unire forze della natura e forme della cultura fra loro contrapposte.
È il linguaggio, è la parola, dunque, a fondare la verità del mondo. E a dissolverla.
D’altra parte, Cavazzoni non è nuovo nell’arte impareggiabile dell’inventio di personaggi e di biografie polimorfe, di creature ‘inesistenti’ nella realtà ma, quasi alchemicamente, vivono  dentro il linguaggio: come nel caso del «rinomato scrittore Learco Pignanoli», o dello scrittore reggiano Daniele Benati: personaggi «di cui non si sa nulla», usciti fuori dalla penna di Cavazzoni, presentati in convegni e in scritti con uno statuto biografico di individui veramente esistenti, ma non nella realtà, bensì in quel Limbo delle fantasticazioni (2009) tanto amato dallo scrittore tra le cui plumbee nebbie viene propiziata la «genesi di quell’assenza da sé» che rappresenta – insieme al sarcasmo corrosivo, all’estetica dell’estraneazione e al  politically uncorrect, cifra della scuola emiliana (che vanta, tra gli altri, nomi quali Gianni Celati e Ugo Cornia) – una delle costituenti della poetica di Cavazzoni, come acutamente ha notato Carlo Crosato sulle pagine de il Manifesto (2022).
In questo «limbo», vittima di se stesso, in un vorticoso proliferare delle menzogne, Nic – Nicola XY, Oscar,  Luc Barbaresco, Olindo Olgiati-Parenti, etc. etc. – trascina anche gli altri personaggi del romanzo, aggregandoli in un’orda frenetica di invasati, posseduti dal demone della bugia. D’altra parte, non è il Diavolo il Gran Mentitore, colui che, usando la parola – come lo scrittore –  semina la discordia e diffonde il disordine nel mondo? Un soffio mefistofelico spira tra le pagine del romanzo, tramutandole ora in avventura picaresca, ora in una pièce goldoniana, ora in un libretto d’opera buffa.
Irretiti, intrappolati, in una trama di allucinazioni verbali che sembrano assediare la realtà del quotidiano, i personaggi di Cavazzoni –  sospettosi, fermentanti, sollecitati dall’abisso, inquietati da formule, da invocazioni, da ombre, da congiure fatali e da ‘voci’ sin dal Poema dei lunatici (1987), che ispirò a Federico Fellini la ‘favola’ del film La voce della luna (1990), sino a La galassia dei dementi (2018) – diventano protagonisti di una dimensione gogoliana dell’esistere, abbagliati dalla parola e, malgrado loro, voyeur e cerimonieri del linguaggio, l’unico universo in cui  sia per loro tollerabile esistere, come gli eroi dei poemi cavallereschi nella restituzione tragicomica che ne ha fatto il romanzo moderno.
In questo universo essi si muovono in un crescendo sul cui impeto la storia incede  spingendosi sino al precipizio. E, anche, oltre. All’orlo del collasso, quando realtà e finzione si scontrano definitivamente nell’epochè definitiva, saltando il precipizio, per felice complicità del caso, la storia si invererà, infatti, in un epilogo tanto grottesco quanto – quest’ultima volta – reale.
Cavazzoni ha costruito un romanzo di straordinaria efficacia narrativa, con una felicità stilistica mozartiana e con una capacità di orchestrare personaggi, di variare situazioni e scene dal comico, al ridicolo al drammatico degne di un  genio della scrittura.
La nota di fondo che si riverbera in tutto il romanzo insegue, come in un segreto, intimo accordo tra un libro e l’altro, il motivo che Giorgio Manganelli ha cifrato in quello spartito sublime che è  La letteratura come menzogna (1967), dove si legge: «L’opera letteraria è un artificio, un artefatto di incerta e ironicamente fatale destinazione. L’artificio racchiude, ad infinitum, altri artifici; […] Il destino dello scrittore è lavorare con sempre maggiore coscienza su di un testo sempre più estraneo al senso».

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La scheda del libro: “Il gran bugiardo” di Ermanno Cavazzoni (La nave di Teseo, 2023)

Cavazzoni_Il-gran-bugiardo

Dall’autore di La galassia dei dementi, premio selezione Campiello 2018, una storia tragicomica di un caso estremo, raro, esemplare, ispirato a un fatto realmente accaduto.

“È il caso di un bugiardo che si può definire patologico, che mente per fare breccia nelle ragazze, o mettersi in buona luce con le persone; ma con bugie gigantesche, insostenibili, che gli escono come se lui stesso ne fosse vittima, al prezzo di gravi angosce e l’accavallarsi inestricabile delle vicende. Arriva a dire di essere medico ed esercitare; scrittore senza avere mai scritto; barbone, e direttore d’orchestra, dovendo poi dirigere senza saper nulla di direzione e di musica.
Vittima di se stesso, rapidamente le bugie si accumulano, si gonfiano, pesano, in un crescendo sempre più prossimo al precipizio e alla catastrofe. Cui si aggiunge la tendenza anche degli altri a mentire.
Come finisce? Non ve lo dico. Dico solo che tutti mentiamo continuamente, anche senza badarci, anche solo per fare bella figura, sulle nostre capacità, sulle competenze, sui nostri trascorsi: questa è la storia di un caso estremo, raro, esemplare, ispirato a un fatto accaduto.
Ogni tanto potrebbe anche divertire e far ridere; oltre che meditare sulle più tipiche fatali propensioni dell’umanità.”
Ermanno Cavazzoni

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https://www.lanavediteseo.eu/wp-content/uploads/2016/04/ermanno-cavazzoni-nave-teseo-278x300.pngErmanno Cavazzoni, nato a Reggio Emilia, vive a Bologna. È autore di vari libri di narrativa: Le tentazioni di Girolamo (1991), I sette cuori (1992), Le leggende dei santi (1993), Vite brevi di idioti (1994), Cirenaica (1999, riedito come La valle dei ladri, 2014), Gli scrittori inutili (2002), Storia naturale dei giganti (2007), Il limbo delle fantasticazioni (2009), Guida agli animali fantastici (2011), Il pensatore solitario (2015), Gli eremiti del deserto (2016). Per La nave di Teseo ha pubblicato La galassia dei dementi (2018), vincitore del Premio Campiello – selezione Giuria dei Letterati, e Storie vere e verissime (2019) e Il poema dei lunatici (nuova edizione 2020) È stato, con Gianni Celati e altri, ideatore e curatore della rivista “Il semplice”.

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