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LA RAGAZZA DELLA MONTAGNA di Veronica Del Vecchio (Newton Compton)

febbraio 16, 2023

https://www.newtoncompton.com/files/cache/bookimages/17085/la-ragazza-della-montagna-x1000.jpg“La ragazza della montagna” di Veronica Del Vecchio (Newton Compton): un esordio letterario

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Veronica Del Vecchio è nata a Como nel 1996. Diplomata alla Scuola Teatro Arsenale di Milano, è co-fondatrice della compagnia Auriga Teatro. La ragazza della montagna è il suo primo romanzo, vincitore della sezione narrativa inedita del Premio Europa in Versi 2020.

Abbiamo chiesto all’autrice di parlarcene.

* * *

«Come nascono le storie?
Alcune arrivano e basta. Irruenti e pretenziose un giorno bussano alla tua porta e a te non resta che lasciarle entrare, accoglierle, assecondarle», racconta Veronica Del Vecchio a Letteratitudine. «Se di alcune ricordi perfettamente la miccia, altre sono invece ammantate di nebbia. Puoi stare lì a chiederti quando, come, perché sono nate, qual è stata la causa scatenante, senza trovare risposta alcuna.
Quest’ultimo, è il mio caso.
Non ricordo esattamente come è nata la mia storia. Se cerco di tornare a quel momento, solo un’immagine mi appare chiaramente, facendosi largo nella foschia delle memorie: un circo.
C’era un circo in cima a una montagna. Lo vidi un mattino dietro le palpebre ancora stropicciate. Netto, dai contorni ben definiti, si ergeva imponente oltre l’intrico di cime e foreste. Che ci faceva lì? E perché era proprio lì, in un luogo estraneo che non gli apparteneva?

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Foto dell’autrice: © Linda Rosewall

È l’unica cosa di cui ho memoria.
Questa cosa del non ricordare – proprio io, che ricordo tutto, che verso i ricordi ho un morboso attaccamento, io che archivio ogni cosa, nella mia collezione di immagini patinate del passato e dell’infanzia – questa cosa del non ricordare, dicevo, mi indispone. Mi fa sentire incompleta, mancante di una tessera prima trascurabile, d’un tratto divenuta estremamente indispensabile.
Eppure non ricordare è semplice, basta una svista, un tassello messo al posto sbagliato, un eccesso di volontà. Sono tante infatti le cose che non ricordiamo o che, a volte, non vogliamo ricordare.
Io, per esempio, non ricordo neppure quando è stata la prima volta in cui i miei genitori mi hanno portata al circo. Negli anni, mi sono convinta che non mi ci abbiano portata mai. Cosa che è stata recentemente confermata da mia madre.
Al contrario di Fellini, nella mia infanzia nessun tendone è apparso dal nulla sotto una luna piena. L’idilliaca quiete delle mie notti non è mai stata rotta da voci masticate e corpi contratti nello sforzo di montare lo chapiteau. Nessun direttore di pista dal cilindro nero mi ha mai accolta nel suo regno con un occhiolino né ho visto mai elefanti, mangiatori di spade o miracoli della natura.
E forse è proprio per questo che crescendo, quasi ci sia stata una legge degli opposti a dominare la mia vita, mi sono ritrovata a scappare con il circo, a seguire le orme ferrate e mutevoli dei primi saltimbanchi, a studiarne la storia con maniacale ossessione, a farne – insieme al teatro e alla clownerie – motore, passione e lavoro della mia vita.

È dunque da questa mia tardiva infatuazione per il circo, dimensione magica e universo poetico che ha la rara capacità di stare dentro e al tempo stesso fuori della società, che è nato il romanzo La ragazza della montagna.

In questa storia – di cui il come mi è oscuro, ma il cui cosa si impone invece fermamente – c’è un circo. Non poteva essere altrimenti.
Un circo come tanti di quelli che negli ultimi anni ho incontrato o sotto il cui tendone mi sono esibita. Un circo come difficilmente nella narrativa viene rappresentato. Niente prodigi straordinari, uomini forzuti o donne barbute. Niente fenomeni da baraccone, stranezze della natura o freaks a cui siamo stati (erroneamente) abituati.
Solo uomini e donne.
Un piccolo tendone.
Una famiglia.
Un circo familiare, degli anni ‘40, come lo erano tradizionalmente in Italia e in Europa. Madri, padri, figli. Generazioni di artisti, acrobati, cavallerizzi. Nati sotto il tendone, svezzati dalle bestie, cresciuti lungo la strada.

Un’umanità, quella circense, qui spogliata di lustrini e applausi.
Cosa rimane quando i riflettori si spengono? Quando il trucco viene rimosso e i costumi riposti nel baule?
E ciò che resta – i legami, la famiglia, gli amori, le frustrazioni, i fallimenti, le angosce, i tentativi, i dubbi, l’umanità assordante e caleidoscopica di cui il circo è composto – come sopravvive alla guerra?

Non in molti si sono fermati a riflettere sul destino di queste persone durante il secondo conflitto mondiale.
Ancora una volta, è stata la mia fissazione verso la storia di questi miei antichi colleghi a guidarmi verso un passato di vite di carta.
Per scrivere un romanzo storico, infatti, devi nutrirti di storie che qualcuno ha scritto prima di te. Libri, archivi, fotografie, racconti sono stati il mio pane per settimane. Prima di affrontare la pagina bianca, sono partita per un lungo viaggio. Stando ferma nella mia casa, ai tempi del primo lockdown che cambiò le nostre vite, quando non mi era più concesso calcare il palco né la pista, mi sono messa a cercare nuove piste, quelle altrui, quelle di un tempo.
Ho viaggiato sul tetto di carrozzoni arrugginiti, ho seguito l’ombra di carovane che si snodavano per chilometri e confini, ho camminato sotto i lampioni tremolanti del 18 arrondissement di Parigi per poi mischiarmi alla folla di borghesi stretti nei loro panciotti, in attesa di entrare al circo Medrano. Lì ho assistito ai numeri dei migliori artisti dell’epoca – Grock, i Fratellini, Rivel, Dario e Bario, Buster Keaton – e una volta lasciato quell’edificio di cemento e meraviglie, ho ripreso la strada, ho seguito il nitrito dei cavalli e i piccoli circhi di provincia che sostavano ai margini delle città, ho camminato sulla segatura, indietro, sempre più indietro, fino alle origini, a quel primo scarno, rudimentale e affascinante “spettacolo equestre”, la cui diffusione in Europa nel ‘700 è da attribuire all’italiano Antonio Franconi. E nel mezzo di questo inesauribile viaggio tra nazioni, ho dormito sotto il tendone di alcuni circhi all’alba del loro bombardamento, ho conosciuto direttori che hanno combattuto contro i fascisti e nascosto ebrei e ricercati, sono fuggita insieme a compagnie di artisti rom il cui destino è stato poi tragico e ingiusto.
Storie vere, brutali, drammatiche, ma colme di quel radicato sentimento di condivisione e comunità di cui il circo si fa portatore e che, durante la guerra, ha continuato a nutrire per proteggere e accogliere, per la prima volta, anche chi non era figlio del suo tendone.
E poi dal circo, inaspettatamente, e ancora una volta senza che io abbia avuto il tempo di chiedermi come, mi sono ritrovata sui campi di battaglia, con una divisa indosso, in Germania, tra gli alberi millenari della foresta di Teutoburgo, nei campi ad assistere i malati insieme ad Antonia Setti Carraro, a leggere lettere colme di errori grammaticali di uomini – giovani, giovanissimi, spaventati, sconosciuti – arruolatosi per amore della patria o per paura, per resistere, per salvarsi.
Infine sono tornata in Italia, sui monti sopra il lago di Garda, dove questa storia aveva ormai preso vita, inarrestabile, dove il circo non era più solo, ma il suo destino aspettava di incrociarsi con quello di altri: una ragazza in fuga giunta dalla montagna, un soldato della repubblica di salò braccato dai rimorsi, in cerca di riscatto e libertà.

Tre storie italiane dove fantasia e realtà si intrecciano. Tre storie che trovano ispirazione in avvenimenti realmente accaduti. I circensi, gli ebrei stranieri in Italia, i soldati dell’esercito della RSI.
Destini minori, spesso inascoltati o ignorati.
Storie che, seppur ai più sconosciute, si inseriscono in quel solenne e crudo mosaico che è la Storia.
Il come siano arrivate, allora, diventa irrilevante. Sono arrivate. Quello basta. L’importante è raccontarle. Scriverne. Scrivere di questi ultimi, di questi dimenticati, di queste vite vulnerabili, autentiche, ignote che ci hanno preceduti. Storie marginali, facilmente dimenticabili, non menzionate negli annali, ma pur sempre storie. Quelle che sin dall’alba dei tempi cerchiamo: per comprendere, per riconoscerci, per vivere e, in questo caso, per ricordare e vincere l’oblio delle nostre limitazioni umane».

* * *

Un brano estratto da “La ragazza della montagna” di Veronica Del Vecchio (Newton Compton)

https://www.newtoncompton.com/files/cache/bookimages/17085/la-ragazza-della-montagna-x1000.jpg

Settembre 1942,
da qualche parte in Val di Sur, Italia

Arrivò dalla montagna.
Piangeva e inciampava. Inciampava e gridava.
A dare l’allarme fu Tonino, lo ricordo bene. Mi disse: «Guarda!
C’è una signora che danza là sopra. La vedi anche tu? E sta
anche cantando. Senti?».
La pura e immaginifica ingenuità dei bambini.
Io stavo giusto per dirgli che in realtà non stava ballando, né tanto
meno cantando e che, per di più, forse una signora non era. Ma
Tonino non mi diede neppure la possibilità di replicare che già era
corso via e, scivolando sotto il tendone, ben attento a non urtare i
picchetti, era andato a dare l’annuncio dell’arrivo di un forestiero.
Lo seguii.

«Mamma, mamma!».
«Un attimo solo, Tonì».
«Mamma, c’è…».
«Tonì, t’ho detto che non è il momento. Non vedi?! Sto finendo
di cucire il costume per to soru Lina, per il suo numero
equestre».
Con la schiena piegata e i capelli raccolti sulla nuca, Anna era
immersa tra le stoffe. Due spilli tra le labbra e il filo che scivolava
veloce nella cruna. Né io né Tonino replicammo che quello
di nostra madre era in realtà un gesto inutile: di spettacoli non
ve n’erano in programma e, probabilmente, non ce ne sarebbero
stati per gli anni a venire.
«Vincè, portalo fuori».
«Mà, in realtà…», cercai di dirle.
«Portalo fuori, ho detto». Il suo sguardo mi inchiodò. Era
uno di quegli ordini cui era impossibile scampare. Solo Tonino
pareva sempre risultarne immune.
«Ma c’è una donna che balla qui fuori!», insisté lui. Le sue
mani si aggrapparono al braccio in movimento. L’ago sbagliò
traiettoria, disegnò una curva e trovò la carne sotto il tessuto.
«Mi ti cascassiru i mani», imprecò Anna. Subito avvicinò il dito
medio alla bocca per succhiare il sangue che iniziava a fuoriuscire.
Una piccola goccia scura dai contorni perfetti.
Non era mai stata un’abile sarta mia madre. Nun putiru fari
n’occhiu a ’na pupa, le diceva sempre nostro padre, per farle intendere
che non era in grado di realizzare niente di buono. Ma
con il tempo le cose erano cambiate. O meglio, la situazione e le
necessità alla fine l’avevano resa tale. Quasi maestra sopraffina.
In anni in cui non era più possibile trovare del filo o dei bottoni
degni di essere chiamati tali neppure al mercato nero, acume e
ingegno erano parole d’ordine e non restava altro da fare che
accettare l’impossibilità di avere nuovi costumi e darsi da fare
affinché quelli già esistenti potessero durare in eterno.
Anna allontanò il dito e tornò a osservare il corpetto. Era quello
dorato. Il tulle veleggiava sul taglio della vita.
«Te lo ricordi, Vincè?». Le sue labbra si piegarono in una
debole curva, il dito ferito sfiorò il cotone lasciando impressa
una minuscola macchia vermiglia. Non sembrò neppure accorgersene.
Annuii. Lo ricordavo. L’avevamo comprato a Maletto dopo
una giornata passata insieme a girare tra i banchi di stoffe, a
contrattare, indecisi su quale tessuto scegliere, su quale fibra
sarebbe stata la più adatta per il debutto del nuovo numero di
Lina in scena.
Mi mancava Maletto. L’afa estiva da affrontare seduti sul terzo
gradino di pietra, con le spalle poggiate alla porta di legno. Il
sapore del pistacchio a invadere la bocca riarsa; brulla, come il
paesaggio intorno. La camicia impregnata di sudore; l’Etna, a
muntagna fremente. E il mare, sempre così distante.
«Mà, ti prego, vieni fuori a vedere». Tonino approfittò
dell’assenza che aveva colto entrambi e di nuovo cercò la gonna
a cui aggrapparsi. I folti capelli scompigliati premuti sulla
fronte dal sole settembrino, la sua mano sudata a cercare le
nostre.
«Anna, dovresti venire. È urgente». Era la voce roca di Boris,
adesso, il vecchio clown. La sua figura ricurva si stagliava in
controluce nell’apertura del tendone. Si grattò la barba bianca
e rimase in attesa di un cenno di nostra madre.
Questa volta Anna non fece resistenza. Il sorriso sparì lasciando
posto a quella sua espressione corrucciata che sempre la accompagnava.
Si alzò con fatica dallo sgabello, posò il corpetto sul provvisorio
tavolo di legno, afferrò lo scialle, infilò gli zoccoli e ci fece
strada fuori dal tendone.

Eravamo gli ultimi arrivati. Tutti gli altri, richiamati dalle grida
insolite, erano già accorsi per vedere cosa stava succedendo.
Eravamo tutti lì.
E c’era una donna.
Che piangeva e inciampava, e inciampava e gridava.
Scendeva dal pendio dirigendosi verso di noi e proprio a noi
gridava parole che però non potevamo comprendere.
Rimanemmo fermi, increduli, domandandoci chi fosse quella
figura che incespicando correva nella nostra direzione. Non si
vedevano più tante persone passare da quelle parti, in realtà,
non si vedeva più nessuno da un pezzo, e per di più in quelle
condizioni.
Fu Boris a prendere l’iniziativa. Era il più riflessivo tra di noi,
il più saggio, colui a cui ti rivolgevi se eri in cerca di un consiglio
o di una spalla in cui approdare.
Imboccò la salita e a passi lenti si diresse verso la donna che
nel frattempo si era fermata.
Erano quasi due figurine nere in lontananza.
Ci era impossibile udire il loro scambio di parole, che poi
scambio non era, piuttosto un grido, un tentativo. Una richiesta
disperata che oltrepassava incomprensibili parole di conforto.
Erano irraggiungibili l’uno all’altro.
Immagino che Boris ce l’abbia messa tutta, non era uno che
demordeva al primo colpo, ma la donna non pareva intenderlo.
Continuava a indicare un punto alle sue spalle e da quel punto
cercava progressivamente di allontanarsi, un passo alla volta.
Gridava e piangeva parole che però noi non potevamo comprendere.
Non perché non fossero udibili, non era quello, ormai erano
anche quasi arrivati vicino a noi. Ma per il semplice, e altresì
complicato fatto, che non era la nostra lingua quella che usciva
dalla sua bocca.
Ero assai dispiaciuto di non poter essere d’aiuto. E neppure
gli altri, nonostante tra di noi vi fossero persone di nazionalità
diverse. Italiani, spagnoli e francesi. Ma nessuna di queste nostre
lingue pareva corrispondere a quella della donna.
«Plishá», gridava, indicando la cima del monte che ci sovrastava.
Boris era sconsolato, non capiva e scuoteva la testa. Io restai
in disparte, come facevo sempre, ma gli altri, tutti, le si
fecero intorno e così non riuscii neppure a vederla da vicino.
«Plishá».
Da quella parte – sembrava voler dire – là, in cima, o oltre la
montagna.
Piangeva e indicava, indicava e pronunciava: Plishá.
Cosa cercava di dirci?
Giosuè allora si fece avanti e iniziò a risalire il pendio.
«Vado a vedere», ci disse.
Ma non vide né trovo nulla in cima al monte, e neppure oltre.
Tornò indietro scuotendo la testa come Boris aveva fatto poco
prima di lui e alzò le spalle.
Forse quello che lei vedeva oltre il monte non esisteva nella
nostra lingua? E allora non soltanto non poteva essere visto, ma
neppure udito, percepito, capito.
Non poteva essere raccontato.
Smise di singhiozzare a un certo punto, mentre tra di noi serpeggiavano
sussurranti domande e risposte. Chi era? Da dove veniva?
Non era italiana, quello era certo. Ma che importava a noi?
Tribù di nomadi artisti. Risultato di una commistione delle più
disparate nazionalità. Non era per un sentimento di nazionalismo
che facevamo rimbalzare quella domanda da una bocca all’altra.
Inoltre ci guardavamo bene dall’avvicinarci a teorie nazionaliste,
in quel periodo poi, ne avremmo volentieri fatto a meno.
No. Era solo curiosità. E impotenza di fronte all’ignoto. Desiderio
di scoperta di un avvenimento che era giunto a rompere
la nostra già precaria, ma agognata, e duramente conquistata,
quotidianità. Incapacità di comprendere.

Tonino si spostò un po’ di lato, permettendomi così di scorgerla
da lontano.
Non era una donna, o almeno non ancora.
Era una ragazza.
Stava seduta in terra, con i piedi nel fango e le ginocchia al
mento, e continuava a ripetere quella parola morbida e guizzante.
Era bella; gli occhi guardavano ancora la cima del monte. D’una
bellezza così fragile.

(Riproduzione riservata)

© Newton Compton

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La scheda del libro: “La ragazza della montagna” di Veronica Del Vecchio (Newton Compton)

https://www.newtoncompton.com/files/cache/bookimages/17085/la-ragazza-della-montagna-x1000.jpg1942, Val di Sur. Tra i boschi sterminati ai piedi del monte Spino si nasconde una compagnia circense. Sono uomini e donne legati dalla paura: neppure gli abitanti del paese vicino devono sapere che sono lì, se scoperti rischierebbero l’arresto.
E così, quando le urla di una ragazza sconosciuta che scende precipitosamente dalla montagna diventano impossibili da ignorare, il gruppo si ritrova davanti a un bivio: accoglierla e mettere a rischio la sicurezza di tutti o abbandonarla al suo destino? Vince la linea dell’accoglienza, ma dopo il suo arrivo le cose non saranno più le stesse: tra litigi, vecchie ferite e nuovi legami, col trascorrere del tempo la tensione si fa sempre più alta. Il prosieguo della guerra mette a dura prova tutti e quando un manipolo di soldati tedeschi scoprirà il loro nascondiglio, evitare una scelta drammatica non sarà più possibile. Un romanzo ispirato a vicende reali accadute durante la Seconda Guerra Mondiale tra le valli bresciane, dove la pace non sembrava potesse più tornare.

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