“L’avventura terrestre” di Mauro Covacich (La nave di Teseo)
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di Consuelo Consoli
Un acufene, il fastidioso sintomo che altera la percezione dei suoni e che si mantiene persistente, assordando chi ne è affetto, è l’innesco de L’avventura terrestre.
Generalmente riconducibile alla presenza di un tappo di cerume ostruente il canale uditivo, il fastidio, a un consulto con l’otorino, si rivela essere un problema molto più serio, che necessita di opportuni approfondimenti diagnostici per stabilirne l’origine. Per il protagonista dell’ultimo romanzo di Covacich, uno scrittore cinquantenne che conduce una vita dai meccanismi ben oleati, è l’inizio dell’incubo.
Senza saltare nessuna delle tappe in cui inciampa chi avverte il pericolo incombente alitargli sul collo, lo scrittore inizia la sua ricerca su internet, solidarizza mentalmente con sconosciuti – Claudia che ha trentotto anni e ha un medulloblastoma, Filippo con un tumore della guaina dei nervi periferici – , tenta, in sostanza, di fraternizzare con termini sconosciuti come proliferazione neoplastica delle cellule di Schwann, radioterapia stereotassica, mettendo in atto il più ingenuo dei trucchi esorcizzanti: conoscere per padroneggiare.
Ma una neoformazione cerebrale è qualcosa che sfugge al controllo, è un grumo di cellule impazzite e inconsulte che cresce indipendentemente dalla volontà. Le cellule di una neoformazione non conoscono l’apoptosi, il processo naturale di morte programmata in base al quale si esauriscono, muoiono e vengono rimpiazzate a milioni. Le cellule di una neoformazione ignorano come anarchici l’immolazione genetica, vogliono vivere, proliferare. Sono solo un ospite indesiderato impossibile da addomesticare.
Lo comprende presto “lui”- così come indefinitamente l’autore chiama il suo protagonista – precipitando in abissi di paura. È in questi abissi che, come un novello Enea, discende e incontra il padre nei campi Elisi, larva incorporea e inafferrabile, destinata a gioire in eterno. Quello stesso padre che, assistendo alla traslazione delle spoglie, ha visto ridotto in un fagotto di ossa non più grande di un neonato.
”Morirai” ha soffiato al suo orecchio il guardone nella cabina mentre, allora ventitreenne, “ lui” consumava un amplesso forsennato con la barista. “Morirai” gli ripete la neoformazione non ancora diagnosticata.
È su questa certezza inconfutabile che “lui”, “Il conte”, lo “scrittore”, “Muschio”, “Mosca vecchia” o qualunque altro dei nomignoli improbabili con i quali “lei”, la sua donna, lo chiama, si addentra nello spazio temporale che lo separa dal responso, o meglio ancora, da quel verdetto che stabilirà a sua permanenza in questa vita o ne sentenzierà la fine. Nella lunga, lucida, riflessione che lo scrittore fa sulla vita, scopre il significato del corpo, del cuore, del sangue, lo stesso sangue che viene pompato da un muscolo solerte con centomila battiti al giorno.
Un corpo dal quale nessuno vuol essere espulso anche quando questo si è deteriorato, crepato, infracidito come un castello in rovina. Quel castello, per quanto malandato, è il contenitore irrinunciabile di noi stessi. Non ne esiste uno di ricambio, è insostituibile. Lo scollamento tra materia – il corpo che tradisce – e pensiero si traduce in una scrittura in cui “lui” diviene l’agente, colui cioè che, nonostante si senta stritolare nelle maglie di un terrore crescente, prova a trascorrere normalmente una routine collaudata nei tre giorni che lo separano dalla sentenza, mentre l’osservatore, colui che al corpo frappone distanza, ne riporta la cronaca fedele e sottilmente derisoria. I programmi della tv con le sequenze di donne obese che vogliono risorgere, il riflesso abulico dello schermo nelle pupille di “lei” che gli sta accanto assorta, prostrata. Il desiderio di rituffarsi nella piscina blu del ventre materno, galleggiare nel liquido amniotico, retrocedere a morula, gastrula, farsi incoscienza. Il rimorso di quelle email alla fisioterapista che lei potrebbe scoprire dopo, quando il suo “corpo castello”, “la tana” si sarà dissolto e di lui non resteranno che le foto mandate in loop sullo schermo mentre si consuma la veglia funebre. La smania quasi paranoica di assegnare l’esatto nome a quelle aree sconosciute del cervello. E poi, ancora, la paura folle di dover attraversare il tunnel osceno della malattia, subirne le inevitabili devastazioni, perdersi in vita e desiderare per questo di trovare la forza di annichilirsi con un gesto estremo come Carlo Michelstaedter, il giovane goriziano, studioso di Platone e Aristotele che, arrivato all’ultima pagina della sua tesi, estrasse la pistola e si sparò. Emularne le gesta con un suicidio “estetico”, magari buttandosi giù da un ponte sul Tevere dopo aver svuotato il portafoglio, regalandone il contenuto a un clochard. Scoprire in sé un misticismo religioso insospettato che intima di non rinunciare all’integrità del corpo se si vuole risorgere secondo la promessa delle Sacre Scritture. Rimpiangere la vigliaccheria di non aver saputo rendere madre “l’allenatrice”, la donna che ama e che lo ama, essersi macchiato della colpa di rifiutare quella cosa, una crocetta, prima ancora che questa assumesse un’identità precisa, entrasse in competizione con “lui”, strappando il primato nel cuore di “lei”.
Una crocetta che forse ora se ne sta appollaiata sulle spalle del padre, nei campi Elisi, come un pappagallino, o forse, su quelle di Moana o del giovane Michelstaedter. Chissà.
Con una trama ordita sui fili invisibili dell’anima, annidata negli interstizi della paura, Mauro Covacich consegna un libro dalle profondità abissali, privo di veli e fraintendimenti. L’uomo e non solo “lui” ma tutti gli uomini, hanno una sola certezza, quella di dover morire. C’è un unico strumento per cercare di annientare il terrore della fine: l’amore. Quell’amore che compulsa verso l’altro, che induce a trasgredire i comandamenti biblici-non desiderare la donna d’altri -, che rende leggeri e vuoti al risveglio del mattino dopo, mentre “lei” si affaccenda ai fornelli con i capelli sporchi di sperma raggrumato. Ed è ancora amore, istinto, pulsione ormonale quello che sospinge in un lunedì mattina a inventarsi un improbabile parcheggio davanti all’ospedale dove quel cervello verrà finalmente scandagliato, mentre lei si sfila il casco rivelando il volto segnato delle righe dell’imbottitura e gli occhi arrossati.
In fondo a separare dal salto finale è solo il tempo, quel tempo che il “camminante” cerca di ingannare con i suoi infiniti peripli intorno al condominio. E questa, e solo questa, è l’avventura terrestre di ogni uomo.
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La scheda del libro: “L’avventura terrestre” di Mauro Covacich (La nave di Teseo)

Un uomo di mezza età compare in forme non chiare, forse allucinatorie, forse reali, in alcuni episodi cruciali della vita di un ragazzo. Sicché il ragazzo comincia a inseguirlo per capire chi è quest’uomo. Via via che gli si avvicina, crescendo, traslocando, cambiando più volte città, il ragazzo può osservarlo meglio e così, sempre più interessato alla vita privata di questo sconosciuto, finisce per pedinarlo. L’azione si svolge in una manciata di giorni, un lungo interminabile weekend nel quale l’uomo sta aspettando di sottoporsi a una risonanza magnetica per un calo dell’udito molto sospetto e consuma con la sua compagna la difficile attesa in una quotidianità fatta di piccoli gesti, tutti mirati a nascondere la paura. Lo spettro di una fine potenzialmente vicina lo costringe a fare i conti, controvoglia, con tutti i fili sospesi della sua esistenza, rancori, desideri, bugie. A complicare le cose, ci sono le mail di una giovane madre alla quale lui a un certo punto ha commesso l’errore di rispondere. Le brevi epifanie dell’uomo nella vita del ragazzo sembrerebbero collocate nel passato, mentre il pedinamento del ragazzo ai danni dell’uomo – ma chissà che invece non lo voglia salvare – è collocato nel presente, in una Roma gloriosamente indifferente ai destini umani, dove all’uomo succede di tutto, di finire in una rissa, di fare una lezione in uno scantinato, di cadere dalla bicicletta, di svenire nei bagni di un museo e anche, sì, di pensare di suicidarsi.
Attraverso le peripezie di due vite destinate a incontrarsi, Mauro Covacich costruisce un eroe che affronta a viso aperto le sconfitte e le vittorie, scoprendo le une dentro le altre. In un romanzo che si legge come un’imprevedibile avventura tragicomica, finisce forse per svelare qualcosa di sé, rivelando sicuramente moltissimo di noi, grazie a una scrittura dotata di una nuova, sorprendente libertà.
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Mauro Covacich (Trieste, 1965) è autore della raccolta di racconti La sposa (2014, finalista premio Strega) e di numerosi romanzi. Presso La nave di Teseo ha pubblicato in una nuova edizione il “ciclo delle stelle”, A perdifiato (2003), Fiona (2005), Prima di sparire (2008), A nome tuo (2011, da cui Valeria Golino ha tratto il film Miele), La città interiore (2017, finalista premio Campiello), Di chi è questo cuore (2019), Colpo di lama (nuova edizione 2020) e il saggio Sulla corsa (2021). Nel 1999 l’Università di Vienna gli ha conferito l’Abraham Woursell Award. Vive a Roma.
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