“Del nostro meglio” di Carmela Scotti (Garzanti)
* * *
di Daniela Sessa
“La bugia dell’assoluto” è un’immagine di shakesperiana ferocia. Anche nell’ambiguità del senso. E’ l’assoluto nella sua forma ingannevole o è la menzogna a insudiciare l’assoluto? Nel traslato esistenziale il dubbio di Amleto e l’inganno di Claudia assumono una drammatica specularità. Cosa fare quando un’intera esistenza viene sballottata, dilaniata, spezzata dal dubbio? Cosa fare se il dubbio arriva tardi, quando tutto il male di vivere ha rotto gli argini e ha travolto corpi, menti e mani? E cosa se il dubbio arriva dopo la colpa e l’espiazione? Fare del nostro meglio a volte può bastare, a volte no. A volte può infrattarsi dentro un romanzo e lì farsi largo a gomitate, tirare colpi bassi e alla fine provare a espugnare il nemico. E’ una lotta tra la vita e le parole per raccontarla il nuovo romanzo di Carmela Scotti “Del nostro meglio”. Una lotta in cui la scrittura si prende la scena. Perché se tutto è stato scritto, allora vale come lo si scrive. Vale la prosa tersa e tesa, vale la disequazione tra la vita periclitante di Claudia figlia e Caterina madre – in quest’ordine per non tradire il tema del romanzo – e la parola. Una parola mai indulgente perché usa suoni aspri, mai vile quando cerca somiglianze tra i fatti e le emozioni: “come d’istinto si apre una mano per lasciar cadere un oggetto che brucia”, mai distratta perché la polisemia è un rischio “l’assoluzione non è l’antidoto a tutto, e fare i conti con il dolore, imparare a guardarlo in faccia, è l’unico modo per convincerlo ad andarsene con le buone, senza doverlo prendere a calci in culo”. Il romanzo di Carmela Scotti è una sfida totale tra il narratore anfibologico (non solo per la staffetta tra prima e terza persona) e i lettori cui sembra prima di dover risolvere un delitto, poi di erigere un rogo per l’ennesima Medea e infine sentirsi come le domande di Caterina “esploratori perplessi davanti al vuoto”. Quell’abisso in cui precipitano le vite delle donne che abitano il romanzo. Che è l’abisso della memoria.
Uno scrittore non deve mai trascurare la felicità di chi legge, quindi deve rompere gli argini. Carmela Scotti sa tracimare prima sul piano della scrittura e poi su quello della storia. Non gioca sull’originalità dell’invenzione (conflitto madre-figlia, figure di contorno plausibili, finale di facile intuizione) quanto su domande archetipiche che hanno tracciato sentieri letterari e filosofici. Ogni domanda assume un corpo e sono corpi di donne. Guai, però, a incasellare “Del nostro meglio” nei recinti malsani degli stereotipi della narrazione al femminile. Qui in ballo ci sono urgenze di un’umanità al bivio tra colpa e pena, verità e giustizia, amore e odio, veglia e sonno, desiderio e realtà, inconscio e coscienza, maternità e aborti emotivi. “Del nostro meglio” è l’odissea della memoria umana. Tutta la trama ruota intorno al nòstos della memoria, la vera protagonista di cui Claudia e Caterina sono due forme, le due navi da ricondurre sulla terraferma. La memoria autobiografica di Claudia e Caterina è fallace. Claudia scrive i capitoli devastanti della sua vita di bambina e di adolescente nella convinzione di aver ucciso il padre e quelli della sua maturità nel tentativo di ricostruire il processo interiore dalla colpa alla pena. Claudia ha un assoluto bugiardo ed è il padre, amato così tanto da mentire a se stessa riguardo alla sua paura verso quell’uomo violento e infelice. Caterina trasforma i capitoli della sua vita in una favola nera riempiendo di bugie a dismisura la mente sua e della figlia e il proprio corpo di cibo, fino a far esplodere nella bulimia della carne la fame ossessiva dell’amore assoluto per Fausto. Caterina è un personaggio bellissimo. Cattiva e disperata, Caterina è tanto respingente quanto patetica: è la rappresentazione di quella fragilità che si trasforma in debolezza, nella disperata callidità del servo di fare servo l’altro. Caterina è conformista fino alla nausea, cinica e anaffettiva ma i corsivi che la scrittrice le dona sono pagine di stupefacente e raro magma letterario. Paragonare Caterina a Medea è facile perché al centro del romanzo c’è il tema della maternità: quella scandalosamente umana di Caterina travolge, sconvolge e ricrea quella salvifica di Claudia. “Che è una madre o che ha fatto la madre, imitando malamente le altre madri? Forse nessuna delle due. Non ha mai capito neppure il significato della parola e perché mai madre sia l’unica parola a non avere un verbo corrispondente, sonno ha «dormire», cibo ha «mangiare», speranza ha «sperare», ma madre non ha niente. È una parola ferma”. Paragone automatico solo se il giudizio è viziato dall’idolatria della maternità. Caterina è la Nora di Ibsen incattivita e sconfitta o un’Emma Bovary scritturata da Alfred Hitchcock.
Claudia porta con sé due pesi. Il primo è tutto interno al romanzo ossia la rassicurante emersione dal sottosuolo (casa famiglia, droga, sesso occasionale, gravidanza non cercata) alla superficie della normalità e della compiutezza dell’identità con la necessaria delega del romanzo al genere di formazione. Il secondo è il peso della letteratura. Claudia da un lato mostra i soliti fraseggi dostoevskijani sulla responsabilità della colpa, sebbene qui resi con una magistrale capacità di maneggiare la materia classica con le istanze contemporanee; dall’altro sembra destrutturare la trama di “Espiazione” di Ian McEwan ovvero farsi attrice di espiazione senza colpa, inseguire e scovare l’assassino trasformandosi da vittima in detective. Con il rischio di inoltrarsi in sentieri ardui, viene da dire che Claudia sia il barlume sciasciano dentro una storia che Sciascia non avrebbe mai raccontato. Eppure, gli inganni della memoria, l’impostura della parola che reifica le vite, la ricerca di una verità mai davvero assoluta sembrano far capolino tra le pagine. Claudia ricostruisce la scena del delitto della sua vita a partire dai ricordi, che man mano affiorano quanto più conquista la normalità negli affetti certi (la zia Dora, l’amica Vio, la figlia Nina, il marito Andrea, il vero padre Emilio) come farebbe un detective simenoniano a caccia di indizi, prove e testimoni. La scena del delitto è quel “del nostro meglio” che trasforma la verità in malinconia. Dal violino di Nina arriva la colonna sonora della malinconia, che nel romanzo è anch’essa sospesa tra ciò è e ciò che appare. Dal violino di Nina il suono del passato detta lo spartito del presente, come se quelle corde fossero il climax di tutta la musica punk che Claudia si sparava nelle orecchie. Un punto di arrivo fortemente simbolico che dona un altro pregio a questo romanzo: declinare l’onnipresente citazione musicale, così trend nella narrativa attuale, in un’immagine non scontata o noiosa. Perché nulla vi è di scontato nel romanzo di Carmela Scotti, nemmeno realizzare alla fine del libro che forse c’è un altro indizio celato in queste domande “E ora io cosa dovrei farci con tutta questa storia? Cosa dovremmo farci tutti, con questa vita che ci scorre tra le mani?”.
* * *
La scheda del libro: “Del nostro meglio” di Carmela Scotti (Garzanti)
Claudia conosce un solo modo per difendersi. Cammina armata dei suoi tatuaggi, dei piercing e della musica che rimbomba negli auricolari. Solo così si sente protetta dalla rabbia che l’accompagna fin da piccola. Cresciuta in fretta, senza nessuno che le insegnasse a essere “bambina”, Claudia convive ogni giorno con il peso ingombrante dei ricordi. Quando era solo una ragazzina, un incidente ha messo fine alle grida dentro casa ma anche alla sua infanzia, scavando una distanza incolmabile tra lei e la madre Caterina. Una distanza che l’ha resa solitaria, animale di periferia, e che solo la paziente zia Dora e la migliore amica Vio riescono a colmare, una tendendo l’orecchio, l’altra unendosi al baccano di una “vita spericolata” per le strade della Brianza. Eppure, diventata madre, Claudia sente che qualcosa non torna, nei suoi ricordi. La visione dell’incidente la perseguita, anche se sono passati tanti anni, e tra madre e figlia resta un muro di omertà che soltanto un atto di coraggio può demolire. Con la tenacia di chi non ha nulla da perdere, Claudia tornerà a quel passato morto e mai sepolto, scoprendo che fatti e verità quasi mai coincidono, e che nel solco tra i due può sbocciare una possibilità di futuro. Dopo “L’imperfetta”, finalista al Premio Calvino, Carmela Scotti gode ormai della fiducia della stampa e dei lettori. Il pubblico ha imparato a riconoscere la sua voce tagliente che scava a fondo nelle relazioni familiari. Nel suo nuovo romanzo, descrive con rara veridicità un complicato rapporto tra madre e figlia, e una perdita dolorosa che si rivelerà l’occasione per una rinascita.
* * *
Carmela Scotti si è diplomata in pittura e fotografia all’Accademia di Belle Arti di Palermo. Ha vissuto a Palermo, a Roma e a Milano, facendo i mestieri più diversi. Oggi vive in Brianza e collabora con i settimanali «Cronaca Vera» e «Tu Style». L’imperfetta, il suo romanzo d’esordio, è stato finalista al prestigioso premio Calvino. Ha pubblicato Chiedi al cielo e La pazienza del sasso.
Del nostro meglio è il suo nuovo romanzo. Tutti i suoi libri sono editi da Garzanti.
* * *
© Letteratitudine – www.letteratitudine.it
LetteratitudineBlog / LetteratitudineNews / LetteratitudineRadio / LetteratitudineVideo
Seguici su Facebook – Twitter – Instagram
Mi piace:
"Mi piace" Caricamento...
Correlati