“Le parole mute. Tra sussulti e bisbiglii dell’anima” di Carmela Calcagno (La Bussola)
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CATANIA – Nell’Auditorium “Concetto Marchesi” del Palazzo della Cultura, promossa dalla Presidenza del Consiglio Comunale di Catania in collaborazione con l’Università etnea e il Lions Club Catania for an Absolute Serve (presidente Giuseppe Salerno), ha avuto luogo la presentazione del volume “Le parole mute. Tra sussulti e bisbiglii dell’anima” (ed. La Bussola) di Carmela Calcagno, ex docente e latinista, cultrice di letteratura e poesia, oggi dedita soprattutto al sociale.
A fare gli onori di casa è stato Sebastiano Anastasi (presidente Consiglio Comunale di Catania), che si è soffermato sull’importanza di valorizzare il patrimonio etneo attraverso le opere degli studiosi e degli scrittori nostrani contemporanei. Sergio Sciacca, docente, studioso nonché giornalista, nel suo ruolo di relatore, ha acutamente analizzato tematiche e stile del volume, introdotto dalla pregnante prefazione di Sarah Zappulla Muscarà (già ordinaria di Letteratura italiana nell’Università di Catania), la quale ha peraltro coordinato i lavori. A restituire la voce di molti dei componimenti della raccolta sono stati Maria Valeria Sanfilippo (dottore di ricerca in Filologia nell’Università di Catania), cui si deve la postfazione della raccolta, e Salvo Valentino, dottore in Lettere nell’Università di Catania, attore professionista nonché fondatore della Compagnia dei Giovani.

da sinistra Sebastiano Anastasi, Carmela Calcagno, Sarah Zappulla Muscarà, Sergio Sciacca, Salvo Valentino, Maria Valeria Sanfilippo.
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Dalla prefazione di SARAH ZAPPULLA MUSCARÀ:

Carmela Calcagno
Poesia come narrazione autobiografica, corposa eppure scorrevole, portavoce delle intermittenze del cuore lungo il trascorrere degli anni, in unità di suoni, immagini, significati, quella di Carmela Calcagno. Per il tramite di un linguaggio sorgivo, germinativo, nel segno di un’immediatezza della parola poetica.“Barlumi”, i suoi, con un bel termine montaliano, che disvelano un universo non soltanto privato, intimo, ma pure la grandezza delle piccole cose e in cui affiorano elementi d’ingiustizia sociale. Il mistero non si cela in ciò che è impenetrabile ma nella realtà ordinaria di ciò che ci circonda, nell’aspetto fortemente spirituale del quotidiano. La poesia di Carmela Calcagno scaturisce infatti da un’osservazione costante, curiosa, generosa, a tratti serena, a tratti severa, a tratti inquieta, dell’ ‘esserci’ e dell’ ‘altro’. Non solipsistica.
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Dalla postfazione di MARIA VALERIA SANFILIPPO
Perché si scrive? A volte si cerca di superare l’horror vacui della pagina bianca per poter parlare ad una folla o nell’illusione di essere tramandati di generazione in generazione. Altre volte invece, più semplicemente, si scrive per dare corso alle urgenze di un fiume sotterraneo che scava, solca, lambisce l’anima, imponendo ad un essere sensibile la catarsi dello sfogo. È questo il caso di Le parole mute. Tra sussulti e bisbiglii dell’anima, la silloge poetica di Carmela Calcagno, edita da La Bussola, con la pregnante prefazione di Sarah Zappulla Muscarà e il corredo di ritratti in graffite a cura di Patrizia Stefania Baiunco. Le liriche obbediscono infatti alla logica di una scrittura che si fa diga per arginare i travasi dell’anima, gli sciabordii del cuore, le intemperanze della ragione. Il logos del dettato lirico restituisce al lettore la fotografia dell’hic et nunc, consentendogli di indugiare su di una immanente quotidianità, i versi sono espressi mediante una ‘lingua delle cose’, che diviene scavo archeologico del campionario umano dei sentimenti, geografia dell’anima, recupero di un patrimonio personale che diviene a un tempo collettivo. Il senso della ricerca di se stessi conferisce una dimensione temporale e a-spaziale. La scrittura, talvolta, prende abbrivio da luoghi fisici: la “smagata e fantasmagorica” Torino, la Venezia, “carezza di visioni smerlate”, la nostalgia per la natìa Raddusa, che sempre torna ad accamparsi nei ricordi. Anche quando lontana anni luce, basta poco per evocarla… si riaccendono i volti che la popolavano e ne determinavano le sue usanze (Richiami indelebili). Il ricordo sublima la figura di un mondo in via d’estinzione come quella del Conciacapiddi, il quale, attraversando il tempo, da “lamento sordo” e “monotona esibizione” diviene lamento carezzevole, / che nella sua immutabile cantilena / riporta la poesia, / la freschezza, l’innocenza / della dolce puerizia, / il fascino d’un personaggio, / indispensabile sfondo del paesaggio.
Il più delle volte, tuttavia, il verso non risponde a perlustrazioni di luoghi specifici quanto piuttosto agli aspetti odeporici di un ‘ulissismo’ tutto interiore. La poesia è gazza ladra di materiali umorali dal forte valore testimoniale, del dettaglio poco eclatante, sottocutaneo. Il tratto della penna è testimone oculare, cronista minuzioso, infaticabile bracconiere della realtà. Il volume non è sfoggio erudito di un poeta, bensì mediazione di bisogni, istanze trasfigurate in ‘pensieri erranti’, in paziente recupero di un sostrato umano, che può riaffiorare dall’oblio con una forza dirompente, destrutturarsi per ricomporsi alla luce di un’operazione che, per dirla con Pirandello, può forse compiersi solo quando lo scrittore si guarda vivere, come fosse un altro, estraneo da sé.
Fortemente autobiografico, il volume si configura anche come un bilancio dell’esistenza, che abbozza le figure più rappresentative, le soste più significative, le speranze, le sconfitte, le vittorie di un percorso straordinario pur nell’ordinarietà di una vita vissuta con sobrietà ma anche con gli eccessi dell’amore in tutte le sue accezioni: filiale, fraterno, materno, umanitario.
Le sezioni della raccolta disegnano il tracciato della parabola esistenziale della stessa autrice, consegnando l’evoluzione di una figura femminile dal primo affacciarsi alla vita ai sacrifici dello studio, dall’affermazione nel mondo del lavoro alle fasi degli amori sino al costituirsi di una nuova famiglia, coltivando gli affetti primitivi e quelli connessi al ruolo di moglie e di madre, dalle gioie ai dolori sino all’instaurarsi della maturità piena e consapevole. In ogni fase tuttavia non c’è mai egocentrismo. L’occhio è sempre vigile sul prossimo e su ciò che vi gravita attorno.
Nelle Liriche giovanili fa irruzione il rapporto io-società, avvertito nelle sue contraddizioni, nelle frizioni essere-apparire di hessiana memoria, con scenari di ascendenza pirandelliana che invocano la crisi d’identità, annaspando nell’accettazione della propria indole. Lo testimonia la poesia Da sensibile a stravagante!? in cui l’autrice si domanda: Puoi dare un calcio al tuo essere sensibile? / Sarebbe come impedire al sole di splendere, / d’incalzare al vento, / di danzare all’aria, / al grillo di stridulare.
È l’età degli abissi e insieme dei voli pindarici, il momento in cui urti i tuoi sogni / ogni tuo pensiero / nel duro scoglio di Realtà Regina. Ma gli ostacoli non sono da rimuovere, né da scansare, poiché attraversare il “ponte malmesso” è l’unica via per acquisire fermezza e resistenza (Alea). Di poesia in poesia emergono le contraddizioni dell’anima, gli ardori della gioventù e la volontà di prendere di petto la vita (in Utopia: Ho voglia di andare / incontro al vento / nel suo andare furente/ gli insegnerei la strada). La mente, l’anima e il corpo della scrivente crescono in armonia con il desiderio di mettersi in ascolto del cosmo, di proiettarsi nello slancio empatico verso uomini, animali e piante, antropomorfizzati per cogliere, come nella lirica All’alba, “il respiro del mondo che dorme”, “il chiurlante bisbiglio”, “il sommesso alato parlottio”, “il bacio delle farfalle”, “la pace uditiva” di altre creature viventi.
La protagonista ausculta con lo stetoscopio gli afflati di tutti gli esseri, ne ricerca la consonanza per tracciare la propria fisionomia, trovare la propria collocazione nel mondo. E l’attenzione propende per l’infinitamente piccolo, per l’essere apparentemente insignificante che può però ribaltare gli stati d’animo della donna che, immersa nella solitudine e nella fatica delle ‘sudate carte’, scorge con stupore una formica che non vuole schiacciare per non rendersi colpevole di un “atto di viltà”. Il minuscolo essere è rivalutato perciò nella sua dignità: Ho visto in te un’anima / di vita, di amicizia, / e una porzione microscopica / della divina opera (La formica).
Lo slancio cosmico, talvolta intriso di sapore francescano, si fonde sin da subito con le esigenze filantropiche e con una vibrante tensione etica. Ne è prova Questo mondo, questa vita… Nuovo libro da scrivere nella sua profetica visione: Non ci sarebbe più guerra, / non ci sarebbe più paura, / né urla d’angoscia / né sospiri di solitudine / né spinte all’impossibile, / ma pace negli animi, / ma una grande, unica, ricca famiglia, dove l’Amore è pane / la solidarietà, la giustizia: il companatico, / l’uguaglianza: il dolce, / l’odio, l’egoismo: la spazzatura, / gli esseri umani: angeli / con le ali nell’anima. Fa eco il desiderio di candore di Anima nera, che annulla le differenze e al contempo le approfondisce: C’è gente che non desta / sguardi di riprovazione: / il suo volto è bianco, / bianche son le mani. / Se avesse il viso nero… / Tutti la guarderebbero, / ma il nero è dentro / e ogni tocco della mano bianca, / ogni sguardo col volto chiaro / lascia impronte di nero livore… / non sono i neri dell’Africa, / quelli hanno il viso nero / e l’anima bianca, / sono i neri della malvagità / quelli col viso bianco / e l’anima nera!
Ma leggere Parole mute significa altresì immergersi in un romanzo in versi, nell’autobiografia di una donna i cui affetti affiorano dall’intimo nucleo di liriche dedicate ai familiari. Tra le altre spiccano quelle dedicate alla madre, simbolo del suo tempo, di una cultura atavica e ancestrale. Frutto dell’entroterra siciliano più primitivo, vittima e prigioniera del pregiudizio, Maria Greco è al centro dei pensieri della figlia. Un rapporto di amore non senza conflitti. Talvolta fa capolino il desiderio di riscatto per aver provato, troppo a lungo, il “deserto dell’assenza”, per non aver potuto raccogliere a piene mani l’affetto di una madre, spesso dimostrato ma mai pronunciato. Sono le ‘parole non dette’ che sterrano voragini, innalzano muri. Pesano come macigni, che tuttavia spingono l’elaborazione un nuovo stereotipo di donna: l’autrice, che da figlia è divenuta madre, proietterà nel novello tenero rapporto con la sua creaturina, quel tracciato di dialogo amoroso disperatamente inseguito, lenendo in parte il tormento per il rapporto consumatosi con l’ormai anziana madre. Con la maternità la donna si evolve, mutano le priorità, vengono deposte le istanze egocentriche: Dal dì che nascesti / ho smesso ogni profumo / dal dì che ti porto sulle mie braccia / non ricerco più ninnoli e borsette (Profumo inebriante).
Nei versi rivolti invece alla persona amata, al compagno di tutta una vita, la tavolozza si arricchisce di colori e sfumature, mentre matura e si scaltrisce la tecnica poetica. Tra gioie e avversità rimarrà traccia di un amore che sa andare oltre la vita terrena e la morte fisica: Se un giorno la tua mano / lascerà per sempre la mia / prima lentamente poi con scatto secco / cespugli pungenti dilanieranno il mio cuore / il sangue delle mie vene / avidi succhiando / e… inebetita… / resterò su questa terra / a guardare il mondo senza vederlo. / Se un giorno io lascerò / per sempre la tua mano / prima lentamente / poi con scatto deciso / tu non lascerai che cespugli pungenti / possano dilaniarti il cuore / e succhiare il tuo sangue a goccia a goccia / ma resterai a guardare il mondo / con i miei occhi eternamente sposati ai tuoi. (Il giorno che verrà)
Dalle lettere in versi dedicate ai propri cari si stagliano per importanza quelle indirizzate al padre Filippo, il pilastro, il Padron ’Ntoni della casa del Nespolo, il saggio dalle parche parole, dette al momento giusto, con il quale per tutta una vita è stata tessuta una ‘corresponsione d’amorosi sensi’, così intensa che il cuore del genitore “risuona inquietante” in quello della figlia, la quale soffre i patimenti del lavoro paterno, per gli spacchi della pelle / per i frammenti metallici infilzati, / per l’ingrossamento delle vene in superficie (Le mani del lavoro), ma, proprio in virtù di tale eroica resistenza, si bea di esserne la figlia.
Tra i tanti volti troneggia anche quello di un Dio misericordioso e amico che cammina a fianco delle sue creature. In Dubbio nel petto, pace nel volto si legge: Mi son trovata a mani piene / mi son tastata a mani vuote, / per una via mi son smarrita / ricca di mezzi parca di risoluzioni, / né intravvedo la cima / né scorgo del sentiero l’avvio, / vo’ tastando alla cieca / con tanta fede nel petto / tanta speranza nel cuore / tanta illusione negli occhi / e smarrimento irto nel fondo. […] Eppur vedo Te, Padre mio Santo, / e luce torna ad accendere il mio volto! La spasmodica ricerca di Dio, del suo discernimento e della sua guida sono una costante di tutta la raccolta: Nei silenzi più assoluti / nelle assenze più marcate / nelle risposte mai pervenute (Equilibrio ristabilito). Anche quando chiamata a lavorare come docente in quartieri problematici, come quelli etnei della Zia Lisa e di Nesima, la donna sa scorgere, nella strada “difficile e irta” e “vivida di travagli”, il riflesso di una volontà superiore. In quest’ottica ogni prova appare più dolce, meno temibile. Lo rivelano i componimenti che hanno per oggetto la vita scolastica, una continua sfida che stimola come ne La tempesta del dubbio a mettersi continuamente in gioco, soprattutto quando il materiale umano è particolarmente fragile e bisognoso. Sono molti i “fiori spontanei”, che danno anche il nome ad una lirica, da raddrizzare, sostenere, alimentare. Un carosello di nomi e di volti, sovente ripetuti, a testimonianza della particolare attenzione suscitata dalle specifiche esigenze psico-fisiche dei propri alunni. C’è in queste parole tutto il sapore della sfida educativa e il non gettare la spugna diventa un must anche quando sembra impossibile e-ducere, carpire il buono, il bello, l’operativo: Se potessi entrare / nel profondo del tuo cervello / tirerei fuori tutte le tue incertezze / e penelopea dipanatrice / scioglierei ogni nodo / per rendere agevole / il procedimento della tessitura (A Johnny).
La tristezza e l’impotenza appaiono nefasti per contrasto al profondo attaccamento ad una vita di cui la donna vorrebbe ancora godere ma l’incombente malattia condiziona, logora le fibre. Il buio, dunque, s’insinua con ripiegamenti e solipsismi, eppure in ultimo, in controluce, è la spes della fede.
L’autrice ama sperimentare talvolta forme espressive alternative. È il caso della lirica dialogica Immigrati africani o Neocolonialismo, in cui il lettore ideale può rimestare stati d’animo che gli appartengono, compiacersi di aver già meditato su quei passi, di aver fatto a tratti i conti con la paura, la diffidenza, ma anche con l’umana pietas rivolta ai troppi sventurati in cerca di una vita migliore. Nell’ultima strofa è la denuncia, che scuote la coscienza e apre scenari di riflessione: Vergognati fratello civilizzato del 2000 / nonostante i mezzi in tuo possesso / sei rimasto l’uomo delle caverne / novello Hitler hai predato ancora / imponendo il tuo dominio in terra sprovveduta / che per niente ti appartiene! / Con forza bruta hai ripetuto gli errori del passato. I versi hanno quasi il sapore dell’amarezza quasimodiana di Uomo del mio tempo, ponendo inoltre l’attenzione sull’annoso problema di rendere autonomi i Paesi più fragili, mediante la cultura dell’implementazione di know how, con trasfusioni di conoscenze e competenze direttamente erogate nei luoghi ingiustamente sfruttati e depredati.
La saggezza degli anni sbarra il passo alla voce per poter apprezzare l’epifania del silenzio, con il suo valore e il suo carico di risposte. Così in Primavera 2020 si scorge l’inno di speranza intonato dalla natura. Tutt’altro che mera cornice, essa partecipa alle aspettative come pure alle inquietudini dell’umanità messa sotto scacco dall’emergenza epidemiologica del Coronavirus. Anche gli uccelli infatti vivono il tempo coevo, sospendendo i loro “giochi aerei”. Nel paesaggio immobile i corpi sono prigionieri e la ragione frena gli slanci della fantasia che vorrebbe sconfinare. Nella crudeltà e tragicità del momento la poetessa si domanda se i “pellegrini assetati di reciprocità” potranno ricavare una lezione, un insegnamento per riordinare la propria scala di valori, per ricollocare le priorità dell’esistenza: Come bimbi ai primi incontri ludici coi coetanei / riapprezzeremo il gioco della fruttuosa convivenza / e impareremo a guardare con gli occhi dell’anima / la miseria, la solitudine, l’alienazione / di chi ci vive accanto o lontano… / Cambieremo il corso della storia / il volto della vita / moltiplicando ogni giorno / i gesti di reciproco Amore!
I paesaggi-stati d’animo sono ricorrenti nella poetica della Calcagno, la quale, come ogni cantore lirico che si rispetti, possiede delle cifre peculiari, delle componenti-cardine che la identificano: l’occorrenza di metafore, similitudini, onomatopee, allegorie, antitesi, anafore e enjambement disseminati qua e là. Frequenti chiasmi, sinestesie e giochi di assenze-presenze, luce-buio, veli-penombre. Personale l’uso della punteggiatura: a volte dosata, a volte drasticamente ridotta, spesso omessa, quasi a seguire il flusso joyciano dei pensieri. Né la raccolta è immune da una ‘poetica dei sensi’, che erompe in colori, suoni, odori, sapori e fiorisce proustianamente nel ricordo; paradigmatico caso Mezzogiorno paesano, scenetta bucolica di vita paesana, popolata di “silenzi e vitali suoni”: dai coccodè e i chicchirichì al tocco delle campane, dal saltellìo ritmato di una palla al pianto di un bimbo sino alle urla della madre; a seguire il dominio gastronomico degli odori della cucina solennizzati dal martellio dell’incudine paterna in un tripudio di profumi misti a stimoli visivi e input sensoriali che danno vita già di per sé ad un codice autonomo e risultano, con Max Lüscher, “emozioni dirette”, giacché non si impantanano nel tentativo di descriverle. Il lettore-spettatore assiste perciò ad eventi sensori ed esercita la propria immaginazione in spazi in movimento. Ed è possibile scorgervi un invito destinato ad ogni anima, perché per tempo sappia cogliere impronte e indizi, ‘sussulti e bisbiglii’, l’eco potente di ‘parole mute’ o ‘non dette’.
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