In esclusiva per Letteratitudine, pubblichiamo un ampio stralcio del volume INT’ALLU SALENTO, di Giancarlo De Cataldo
A Est dell’Equatore, 2012 – pagg. 120 – euro 14
Intall’u Salento racconta storie di malavita in transito – Napoli, Roma, Puglia, Albania – che, rispetto al celebrato Romanzo Criminale, vanno invece verso la piccola furfanteria, si occupano di miserie indigene, umanamente concentriche. Come sottolinea Davide Morganti nella prefazione al volume, i dialoghi sono spinti al massimo in un susseguirsi pirotecnico di battute che portano al baldanzoso finale. L’aspetto tragico, in De Cataldo, va sempre di pari passo con un andamento apparentemente scanzonato, fracassone che raccoglie le voci della strada fino a ridurle a suoni ben distinti di fragili cadute. Si leggono con piacere i racconti dello scrittore-magistrato di Taranto, anche perché del male lui ne fa materia da trattare non soltanto come un crimine, ma soprattutto come un luogo da disinnescare e riutilizzare in altro modo. E lo fa con eleganza ironica, disincantata e arguta. Sono storie che sembrano spuntare dall’acqua sporca che si raccoglie ai lati dei vialoni di periferia o di qualche circumvallazione suburbana. E sono sempre strade e territori del Sud che De Cataldo sceglie per condividere con il lettore questo prezioso volume.
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Prefazione
Ho visto per la prima volta Giancarlo De Cataldo in una strada laterale della Ferrovia, a Napoli, dovevamo andare a un incontro organizzato per lui alla casina vanvitelliana, al Fusaro. La sua andatura lenta, sorniona, compassata, la parlata che pensa su tutto ciò che dice, lo sguardo, dietro gli occhiali, dritto in avanti; tutto questo scompare nei suoi racconti, nella sua scrittura che ha un carattere torrentizio, impetuoso, anche quando si tratta, come nell’occasione dei presenti testi, di corpi brevi, leggeri. De Cataldo utilizza il dialetto tarantino con arguzia, sono piccoli fuochi d’artificio, come già accadde nel complesso romanzo storico I traditori, dove le lingue si sommano, accavallano, ammassano sulla faticosa unità d’Italia e che, nella incomprensibilità delle regioni, refertano la malattia dei localismi. In questo piccolo volume, invece, le storie, sono di piccolo cabotaggio, vanno verso la piccola furfanteria, si occupa di miserie indigene, umanamente concentriche. I dialoghi sono spinti al massimo, specie nel primo racconto, in un susseguirsi pirotecnico di battute che portano al baldanzoso finale. L’aspetto tragico, in De Cataldo, va sempre di pari passo con un andamento apparentemente scanzonato, fracassone, che raccoglie le voci della strada fino a ridurle a suoni ben distinti di fragili cadute. Si leggono con enorme piacere i racconti brevi dello scrittore-magistrato di Taranto, anche perché del male lui ne fa materia da trattare non soltanto come un crimine, ma soprattutto come un luogo da disinnescare e riutilizzare in altro modo. E lui lo fa con eleganza ironica, disincantata e arguta allo stesso tempo. Inutile spiegare trame – a che serve se uno ha deciso di comprare questo volume? – ma mi va di dire che quando De Cataldo accende la miccia, il racconto parte a razzo, senza indugi, coinvolgendo il lettore come se fosse salito a bordo di un ottovolante e non si ha più intenzione di scendere. Si sta comodi nella sua scrittura, perché ti avvolge immediatamente con il suo ritmo percussivo, che sa sintonizzarsi immediatamente con la storia di oggi, che poi è quella nostra. Leggere De Cataldo, dunque, non perché sia uno degli scrittori più noti e venduti, cosa che personalmente, in qualità di lettore, non ha mai solleticato il mio interesse quando ho incontrato fascette roboanti, ma per il piacere antico, sempre presente, della narrazione che, in queste pagine, hanno il gusto intenso dei frutti appena raccolti.
Davide Morganti
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Uno stralcio del volume INT’ALLU SALENTO, di Giancarlo De Cataldo
Uno
«Curu ete nu pacciu!», inorridì Tonio Lu Siccu, bloccando il vecchio Ape al margine della carreggiata.
«None. Curu ete nu strunzu!», filosofò Santiago, tergendosi il sudore dalla fronte.
Ma i due vecchi pescatori non ebbero il tempo di riprendersi dalla sorpresa, diciamo pure dallo choc, che alla Volvo lanciata a velocità folle sui tornanti della Duchessa fece seguito un’altra berlina.
Tonio notò i vetri oscurati, Santiago il braccio che sporgeva dal lato passeggero, e impugnava una mitraglietta, o forse un fucile a canne mozze.
«Hai visto?», chiese Santiago.
«Aggiu visto», annuì Tonio Lu Siccu.
«Contrabbandieri?».
«O furastieri. Hai visto come fuciono?».
Perché solo due pazzi o due forestieri potevano scatenarsi a centocinquanta su quell’infame tratturo quando mancavano solo due, tre chilometri al massimo alla Curva Maledetta.
Cioè alla morte sicura.
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