In esclusiva per Letteratitudine, pubblichiamo un ampio stralcio del saggio DIVERGENZE, di Antonio Di Grado
A Est dell’Equatore, 2012 – pagg. 120 – euro 14
Un altro Novecento. Non il novecento di Pirandello e Svevo, di Montale e Moravia, di Gadda e Calvino. Non il novecento della “Ronda” o di “Solaria”; del neorealismo o delle sedicenti avanguardie. Quattro scrittori ed intellettuali remoti, viceversa, da tendenze e schieramenti, isolati dal loro stesso sdegno o dalla loro irrequietezza. La consuetudine con la cultura mitteleuropea e l’esilio negli Stati Uniti per Borgese; le due guerre e le rivoluzioni totalitarie per Malaparte, il romitaggio intellettuale e il reiterato rifiuto degli editori patito fino al suicidio per Morselli e infine la Sicilia del crimine mafioso per Sciascia. Divergenti esperienze che tuttavia convergono in un’accigliata, gridata, desolata o pensosa solitudine. Parlare di un “altro Novecento” non significa, perciò, soltanto rivendicare l’importanza di alcuni scrittori ma pure rileggere con i loro occhi un secolo di furori ed emergenze.
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Uno stralcio del saggio DIVERGENZE, di Antonio Di Grado
Istruzioni per l’uso
Giuseppe Antonio Borgese, Curzio Malaparte, Guido Morselli, Leonardo Sciascia: fisionomie intellettuali, modalità di scrittura, scelte di vita assai diverse, le loro. Perché allora schie¬rarli fianco a fianco in una improbabile armata delle ombre? Parrebbe un accostamento arbitrario e fortuito, come in quelle rapsodie raccogliticce di saggi e articoli che noi docenti universitari cuciamo alla svelta, senza curarci della coerenza, per sottoporre più pagine che sia possibile all’arcigna e sbadata commissione d’un concorso.
No, questa non è una raccolta di saggi. È l’immodesta proposta di un altro Novecento. Non il Novecento di Pirandello e Svevo, di Montale e Moravia, di Gadda e Calvino, giusto per fare i nomi consacrati dal “canone” corrente. Non il Novecento della “Ronda” o di “Solaria” o del neorealismo o delle sedicenti neoavanguardie. Quattro scrittori (e intellettuali) remoti, viceversa, da tendenze e schieramenti, isolati dal loro stesso sdegno o dalla loro irrequietezza, trascurati da una critica che accorpa anziché distinguere e che accorre sempre – avrebbe detto un Flaiano – in soccorso del vincitore.
La critica. Da critico, la detesto: anche la mia. Attività parassitaria, morbosa metastasi, delega deresponsabilizzante. Per conto mio, auspico come Lutero o meglio come gli anabattisti il sacerdozio universale e il libero esame. Diffido dei ragionieri della letteratura espertissimi in tecniche da laboratorio con cui selezionare i testi e dissezionarli, così come diffido dei chirurghi della psiche che sminuzzano i sogni o li battezzano, o degli storici delle religioni che mettono in fila delle vuote spoglie. Il torto più grande che si possa fare a una poesia, a un mito, a una fede, a un sogno, a una narrazione, è quello di soppesarne l’involucro: la forma, i moventi, gli esiti. Credere: questa è la parola giusta. Lasciare che quella scorza si schiuda senza forzarla, che si riveli, che il suo segreto innominabile ci invada.
In ogni libro cercare il Libro. Pretesa insensata, che carica ogni pagina di delusa fatica. Ma è proprio quando hai ceduto alla deriva del senso, e stai attraversando con rassegnata in-differenza pagine inerti, che all’improvviso ti ferisce un fiotto di luce. Ti sei imbattuto in un’anima che aspettava solo te per svelarsi, in un compagno segreto che ha valicato secoli e continenti per raggiungerti, e per aprire quel varco anche a te. E la scrittura di chi ne tratta asseconda quella voce, non la sovrasta e non ne sospetta: vola e divaga, accarezza e non fruga, dubita e non asserisce.
Da quella critica che, come Minosse, «giudica e manda secondo ch’avvinghia», o almeno da più d’un compilatore di beneducate storie delle patrie lettere, i quattro autori in questione sono stati trattati da “irregolari” se non addirittura da “minori”, non rientrando nelle opposte schiere (ma per ciò stesso gratificate da una legittimazione bipartisan) dei distillatori d’innocue metafore autorizzate dal pulpito o dei fabbri d’eroici furori be¬nedetti dal partito, anzi disertando le sedi deputate all’italico certame per riprendere fiato nelle ariose temperature d’oltralpe. Perciò eccoli confinati nel limbo sovraffollato in cui sgomitano gli inclassificabili, eccoli costretti alla quarantena in cui espiano i cosiddetti irregolari.
Quanto a una condizione “irregolare”, estranea o addirittura eversiva rispetto a una norma, dovrebbe a rigore parlarsene laddove la norma stessa risultasse indiscutibile ed effettualmente indiscussa: il che non è dato in alcun’epoca o contesto, neppure in quelli che pigre storiografie o strumentali mitografie si ostinano a tramandarci compatti e aureolati. Il Rinascimento, per esempio: questa categoria dello spirito che ha fatto aggio sulla complessa realtà e sul tortuoso svolgimento d’un secolo che a tal punto la smentisce da costringerla a ritrarsi sempre più nei suoi primi decenni; e anche lì a scalpitare tra corpi estranei e inassimilabili tensioni, talmente ingombranti da invadere opere e figure (perfino Ariosto, perfino Bembo) invano tenute al riparo di olimpiche icone; e talmente esigenti da obbligare all’invenzione critica di un “anti-Rinascimento” o di un Rinasci¬mento “inquieto”, suggestive ma infruttuose formule che non rendono conto in alcun modo dei contenuti ideologici, religiosi, estetici di quell’antagonismo o astratta inquietudine che fosse. E si fingono schieramenti contrapposti dove fu accesa pluralità d’idee e polverizzazione di scelte e di destini; e si spingono i classici nell’olimpo della infalsificabilità mentre negl’inferi della trasgressione si ammassano figure tra loro inassimilabili come Cellini o Folengo, Aretino o Doni, Berni o Gelli o Castelvetro.
E il Novecento? Una valutazione più coraggiosa del moralismo dei vociani o delle oltranze di Tozzi rischierebbe di scompaginare certe rassicuranti raffigurazioni dell’età giolittiana e prefascista come scampagnata di fanciullini, superometti e calligrafi; e l’auspicabile riscoperta delle stralunate avanguardie e degli impuri “contenutisti” degli anni Venti-Trenta scardinerebbe l’ossatura di una ricostruzione di parte largamente ac-creditata, che alle raffinatezze iniziatiche e all’“aura” eterea e sfocata del côté ermetico-solariano fa seguire senza soluzioni di continuità un neorealismo pedagogico e buonista, ammansito con consolante leggiadria. Leggi tutto…