Pubblichiamo le prime pagine del romanzo SCOMPENSO, di Andrea Sartori (Exòrma Edizioni) che ha ricevuto la menzione speciale del Premio Perelà.
[Leggi la “conversazione” con l’autore]
I. Venezia
Uscire di casa
Quando squilla il telefono, Alberto si è già alzato da alcuni minuti, spossato. Il suo orologio segna le 7 e 45. In un quarto d’ora deve vestirsi, fare colazione al bar sotto casa e recarsi alla vicina Direzione dei Servizi Sociali, dove svolge il servizio civile. Informa la madre su come sta, mentendo per non metterla in agitazione, e le assicura che finirà di scrivere la sua tesi di filosofia in tempi molto brevi – pietosa bugia sulla quale non ha alcun controllo – con la prospettiva di discuterla in autunno.
Mentre parla all’apparecchio, Alberto prova all’altezza dello sterno una sensazione di smarrimento e di incertezza analoga a quella che lo coglie ogni qualvolta deve confrontarsi con qualcosa o qualcuno che gli ricordano le origini, la famiglia, o che lo proiettano nel futuro.
Quest’ultimo gli è divenuto, infatti, piuttosto incerto. E le origini e la famiglia sono arretrate fino ad assumere una lontananza che molto assomiglia allo stemperarsi dei ricordi in una persona anziana.
Nel rapportarsi a queste due dimensioni del tempo, Alberto fronteggia un’indeterminatezza, un’evanescenza che porta con sé il dolore dello svanire, del non essere più una certa persona, e del non essere ancora qualcuno di diverso. Anzi, il non più e il non ancora non gli si presentano neppure come un che di definito, da cui separarsi o a cui avvicinarsi, ma evaporano nel nulla e lo lasciano in contemplazione di un vuoto senza nome. Soffre per qualcosa che ha cessato di conoscere, o che non conoscerà mai. Una sofferenza strana, certo, ma molto intensa. Non si sente parte di un processo o di un percorso, semplicemente scorre.
Di tutto ciò la madre Lucia non ha sentore. Non è tanto il parlare per monosillabi del figlio a determinare la sua ansia, poiché vi è abituata. Desta in lei apprensione, piuttosto, il saperlo coinvolto in quella cosa utile a evitare il servizio militare, che gli farà però perdere altro tempo.
Due anni prima, Mario, il padre di Alberto, si era adoperato affinché il giovane ottenesse un contratto di lavoro all’estero – venendo pertanto esonerato da qualunque dovere verso lo Stato – ma i suoi tentativi fallirono. In compenso il figlio fece domanda d’obiezione di coscienza proprio a Venezia, ed essa venne accolta.
Terminata la telefonata, Alberto esce di casa e a contatto con l’aria afosa del mattino inizia a sudare copioso. In queste condizioni, nella Calle Lunga di Santa Maria Formosa, vede davanti a sé un uomo e una donna incinta che gli si avvicinano sorridendo tra loro. La coppia si ferma a guardare gli abiti da sposa esposti in una vetrina e il giovane, colto da un istintivo quanto immotivato terrore, scarta di lato. Teme di scontrarsi con la donna e di procurare un danno a lei e al nascituro.
Per la strada, gli spazi dell’abituale transito hanno cessato di avere le loro proporzioni, ma di questo mutamento Alberto non si è accorto. La prossimità gli pare eccessiva, pericolosa. Non vuole provocare dolore alla coppia di estranei: l’emergenza di un parto prematuro, un probabile aborto, un terribile lutto. È passato loro troppo vicino, e la città, con il caratteristico risuonare dei passi sulla pietra, diventa sempre più simile a un grande appartamento in cui ci si può scontrare in modo rovinoso.
Inizia a fare esperienza di una dimensione familiare allargata nella quale chiunque può entrare, e dove lui stesso può imbattersi in qualcuno che non lo riconosce, o a cui può fare paura. Il familiare e l’estraneo si danno convegno nelle calli di un luogo tutto sommato piccolo e in fase di spopolamento, ma anche attraversato da continui e consistenti flussi di sconosciuti turisti.
Allontanatosi dal punto dell’incontro, conservato un debole sollievo per lo scampato pericolo, Alberto fa colazione al bar del Campo e poco dopo entra nel palazzo della Direzione.
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Tra il telefono e il fax
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