In esclusiva per Letteratitudine, pubblichiamo l’introduzione – firmata da Antonio Di Grado – del volume LA PAURA E ALTRI RACCONTI DELLA GRANDE GUERRA, di Federico De Roberto (edizioni e/o)
di Antonio Di Grado
Un eroe per caso, protagonista d’una involontaria, esilarante impresa; un eroe vero che, al cospetto dell’orrore, preferisce disertare dalla vita; un disertore che dal suo domestico “rifugio” era creduto eroe; infine un martire che da quel remoto e bramato nido d’affetti è miseramente rinnegato.
Eroi pentiti o traditi, antieroi esecrabili o spassosi: eccola, la Grande guerra narrata da Federico De Roberto, l’autore di quei Viceré che vent’anni prima avevano rivoltato come un guanto la recente storia dell’Italia unita, smascherando menzogne e imposture di un’oligarchia immarcescibile e trasformista.
Quattro, i racconti di guerra qui di seguito proposti, scelti tra quanti, fra il 1919 e il 1923, lo scrittore affidò a giornali e riviste e solo nell’ultimo trentennio sono stati raccolti in volume da
Sarah Zappulla Muscarà prima e poi da Rossella Abbaticchio, con un saggio introduttivo di Nunzio Zago. Forse i più significativi, certo i più adatti a ricordare il centenario di quel tragico conflitto con una commozione che non ceda alla retorica e non rinunzi allo sdegno.
Di guerra, di quella guerra, Federico De Roberto aveva cominciato a scrivere al culmine del suo soggiorno romano, che fu per lui l’ultima evasione e l’ultima occasione prima di essere risucchiato per sempre dal vorace amore materno nel grembo soffocante della provincia; e che lo vide – lui che nella stagione milanese degli anni Novanta dell’Ottocento aveva pubblicato alacremente, dai Viceré alla saggistica e agli articoli per il Corriere della sera – aggirarsi fra aule parlamentari, redazioni e alcove cercando invano spunti e ispirazione per L’Imperio, il “libro terribile” sulla capitale del malgoverno che rimarrà incompiuto.
Intanto collaborava con il Giornale d’Italia, il quotidiano diretto da Alberto Bergamini, oggi celebrato come l’inventore della “terza pagina” e allora militante sul fronte della destra antigiolittiana.
Alle giovani generazioni, già alla vigilia della guerra, e cioè nella fase più intensa della collaborazione derobertiana, quel giornale appariva un rispettabile club di sopravvissuti: “Ci collabora tutta la più brava gente d’Italia, dalle cattedre e dalle provincie; […] è gente che ha ottenuto un gran successo di stima, che tutti rispettano ma che nessuno andrebbe a cercare. Se c’è dei solitari, degli incompresi, dei mezzo dimenticati, il Giornale è fatto apposta per loro”. Parole ben tristi, queste di Renato Serra, ribadite più crudamente, qualche anno dopo, a proposito di De Roberto, collocato “più in disparte e più in alto” dei suoi contemporanei, ma anche “un po’ indietro, in una seconda luce austera e discreta”.
De Roberto esordisce, sul Giornale, pubblicando nel febbraio 1909 il racconto Nora, o le spie, ispirato a un caso di cronaca (un intrigo giallo-rosa tra un capo di stato maggiore e un’attraente spia tedesca) e giocato nelle tonalità un po’ frivole del racconto spionistico che vira al grottesco per inadeguatezza dell’oggetto.
Pubblica poi, fino al ’22, una cinquantina di pezzi: divagazioni sull’amore (tema ricorrente nell’opera sua, finora ritenuto a torto marginale, in realtà turbato dagli stessi fantasmi che abitano l’universo del Potere), ma anche contributi letterari (novelle e recensioni) e infine interventi, analisi, divagazioni storiche e letterarie sul tema obbligato della guerra, che intanto imperversa e coinvolge l’Italia.
Questi ultimi scritti saranno raccolti nel 1919, da Treves, nel volume intitolato Al rombo del cannone, cui seguirà l’anno seguente, sollecitato da un mercato ancora sensibilizzato alla letteratura bellica, All’ombra dell’olivo. Due libri, questi, tutt’altro che centrali e risolutivi, nel contesto della produzione e della riflessione derobertiane: ma ancora una volta sbaglierebbe chi li relegasse al rango di disimpegnate di vagazioni. Si leggano le pagine di Moralità e immoralità della guerra, nell’ultimo dei due volumi. Già il titolo dice a chiare lettere quale sia l’approccio alla materia. E infatti De Roberto inizia il suo scritto rivolgendo un perentorio atto d’accusa all’intellighenzia tedesca: dietro
la logica cinica e brutale dell’imperialismo guglielmino starebbero, infatti, “la predicazione di Zarathustra” e la cultura che cir cola in quelle università. Tale asserzione, benché schematica,
coglie le corresponsabilità politiche degli intellettuali, non più disinteressati creatori, ma mediatori del consenso e diffusori di miti riconoscibili e praticabili. E comunque si spiega non solo con l’incomprensione del pensiero di Nietzsche, ma pure con un retroterra di predilezioni e di interessi scarsamente orientati verso l’area mitteleuropea e centrati, piuttosto, su quella francese: uno schieramento d’idee e d’autori, dunque, che è il corrispettivo letterario delle potenze dell’Intesa. Ovvero: civilisation contro Kultur.
Ma subito l’argomentazione scivola nel moralismo più scoperto e manicheo, tranne laddove lo scrittore si dimostra consapevole delle valenze politiche del dibattito coevo sulla guerra e coglie i limiti di certa mitologia interventista; e contro ogni tentativo di estetizzazione del conflitto, non esita a definire “orrenda” la guerra.
È superfluo ricordare le speranze di palingenesi di cui tanti intellettuali italiani avevano caricato lo storico appuntamento del 1915, Leggi tutto…