Pubblichiamo un estratto del romanzo HITLER MON AMOUR, di Francesco Roat (Avagliano, 2014)
La scheda del libro
La relazione tra il dittatore tedesco e la sua giovane amante, narrata attraverso un diario che l’autore immagina scritto febbrilmente da Eva nelle ultime ventiquattr’ore, all’interno del bunker sotto la Cancelleria del Führer, durante la conquista di Berlino da parte dell’Armata Rossa. Il potente Führer della Germania e una semplice ragazza piccolo-borghese che, a quanto risulta dalle testimonianze storiche, nazista convinta non fu mai, e neppure ostile agli ebrei: cosa unì fino alla morte due individui così profondamente diversi? La donna torna indietro con la memoria, inizia a raccontare in prima persona l’incontro a Monaco, nel 1929, con lo sconosciuto che in pochi anni sarebbe diventato il padrone della Germania e di mezza Europa. Lei è un’adolescente, lui già un uomo fatto. Iniziano a frequentarsi, malgrado la disapprovazione dei genitori della Braun. Col tempo diventa “segretaria” particolare del Führer ma mantiene sempre un ruolo appartato. Sino alla vigilia della sconfitta tedesca e al giorno in cui deciderà di condividere la sorte di Adolf. I due si sposano. Il giorno dopo il matrimonio, il 30 aprile 1945, Adolf Hitler ed Eva Braun si suicidano nel bunker della Cancelleria. Una fatale storia d’amore che non finisce di scioccare il mondo.
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I primi due capitoli del romanzo HITLER MON AMOUR, di Francesco Roat (Avagliano)
1
Ero sospesa a mezz’aria quando sei entrato in negozio e nella mia vita. La piccola Eva alle prese col gran re dei cervi da appendere su una parete troppo spoglia.
Con la sinistra tenevo il quadretto contro il muro e con la destra un martello esitante. Stavo mirando giusto alla testa del chiodo, mentre ho sentito il signor Hoffmann annunciare, ruffiano: “Bentornato, Herr Wolf!”
Tu − senza rispondere a parole, ma forse con un cenno − hai fatto tre passi decisi verso il bancone (io udivo soltanto: gli occhi persi nel ritratto del maestoso anima- le). Poi c’è stato un silenzio, interminabile e tranquillo: con la sospensione di ogni impazienza, di ogni cura. La foto era appesa da un po’ e io, sempre sulla scala, ad aspettare forse solo il mio destino, già catturato dal tuo sguardo rivolto alle mie gambe.
Sei rimasto lì – quanto, mon amour? – a fissarmi, a penetrarmi sin nella natura; ma senza alcuna insolenza, senza prevaricazione.
Avevo appena diciassette anni: una ragazzina. E tu, uomo navigato, m’hai fatta donna all’istante. È stato un concedersi definitivo; anche se dopo non è successo nulla: giusto la tua mano che sorregge la mia finché scendo, mentre chiedi: “Posso aiutarla, signorina… Signorina?”
Allora ci siamo scambiati i nomi.
Tu indossavi un trench leggero, color panna, di foggia inglese. Io non ricordo che vestito avessi. Strano: ogni particolare ho presente di quel pomeriggio, ma il mio abito no. S’è aperta una falla nel mio ricordo: un buco nero mai più colmato. Il dettaglio è irrilevante, capisco bene, eppure oggi – fra tanti orrori, sotto le bombe, persa la guerra, la capitale sul punto di cadere – questa perdita mi sembra così grande. Anche se son convinta che niente finisce col perdersi del tutto; nulla svanisce mai di quel che è stato. Credo nell’eterno ritorno, come quel Nietzsche di cui tanto parlavi sempre. Noi siamo eterni, nonostante la morte. Per questo non bisogna averne paura; ma nemmeno invocarla – mon amour – come ti sento fare troppo spesso in questi giorni di lutto.
Invece allora, a Monaco, dentro quella bottega della Amalienstraße, come mi sei apparso pieno di un vitalismo incontenibile! E c’era determinazione nel grigio azzurro del tuo sguardo, la stessa regalità che avevo scorto negli occhi del gran cervo.
Poi il signor Hoffmann ci ha separati intromettendosi, venendo col tuo ritratto sotto vetro e in cornice d’argento. A chi volevi donarlo? Forse a Geli, che a quel tempo impazziva per te? Non l’ho mai più vista quella fotografia in cui posavi vestito di panno e cuoio, come un modesto Bauer tirolese. Nel ’29 io non sapevo di altre tue donne.
E anche quando ho saputo, non ero veramente gelosa.
Mi dirai: e allora perché infilare a tradimento nelle mie tasche biglietti amorosi nella speranza che Geli li leggesse?
È vero, l’ammetto, l’obiettivo era quello. Volevo venire allo scoperto e scoprire le sue carte. Nessuna gelosia, solo informarla della mia presenza; farle capire che non aveva chance, che tu eri destinato a me. Bastava solo comprendesse questa semplice, definitiva realtà. E invece − la nipotina − che ostinazione nel volerti solo per sé, povera illusa! Quando persino io, in tutti questi anni, ho dovuto dividerti con milioni di donne e di uomini che – fino a ieri – ti idolatravano.
Sì, Geli non sapeva della tua decisione di sposare la Patria. Solo con Lei hai voluto legarti indissolubilmente, nella buona e nella cattiva sorte. Io stessa a lungo sono stata incapace di rendermene conto. Ma che ne poteva sapere una ragazza come me di politica o di Terzo Reich Millenario?
Fino alla sua dissoluzione, sei stato una cosa sola con la Germania. Un matrimonio fedele, durato oltre vent’anni. E appena adesso che Lei non c’è più, acconsenti a sposarmi. Ma va bene così. Lo ripeto, non sono mai stata davvero gelosa. Avrebbe voluto dire perderti. Invece, dopo tante separazioni e lontananze ci siamo finalmente, definitivamente ritrovati. E domani sarà il gran giorno.
Ne sono grata a Dio. In tutta la mia vita non potevo augurami di meglio.
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