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Posts Tagged ‘renzo montagnoli’

STORIA DI SIRIO, di Ferdinando Camon (una recensione)

STORIA DI SIRIO – Parabola per la nuova generazionedi Ferdinando Camon

Garzanti Libri – pagg. 152 – € 12,00

di Renzo Montagnoli

La speranza non deve morire

Non si può certo dire che Ferdinando Camon sia monocorde, che i suoi scritti trattino sempre lo stesso tema e così, dopo aver dato alle stampe i romanzi del Ciclo degli ultimi, per intenderci quelli che parlano della scomparsa della civiltà contadina, ha osservato il mondo che lo circonda, la società che lo occupa, cogliendo, insieme con gli aspetti esteriori più significativi, le carenze di fondo, in un invito a meditare e, soprattutto, a cercare di cambiare le tante troppe storture. E’ il caso questo anche di Storia di Sirio, che sembra un’opera rivolta più all’attuale generazione giovanile, ma che interessa tutti, anche quelli più avanti negli anni, figli di quel dopoguerra che hanno accettato supinamente la civiltà industriale, quella dei consumi, salvo poi lamentarsi sterilmente. Un giovane deve necessariamente maturare attraverso le esperienze e Sirio è un emblema di questo processo, un prodotto tipico in cui la generazione attuale troverà non pochi punti di contatto. Ma finisce con l’essere un atto di accusa anche nei confronti dei genitori, ingabbiati, come i figli, in una struttura piatta che nell’illusione di uno sprazzo di benessere finisce con lo schiavizzare, con il rendere succubi a un sistema capitalistico impietoso che poco dà per togliere invece tanto. In questo quadro Sirio, figlio di un industriale, quindi di un capitalista, con quella voglia di aria nuova che è proprio dei giovani, prima si ribella al padre, avviando una serie di esperienze totali come una vita da sbandato con l’assunto che lavoro equivalga a schiavitù, poi prova l’ebbrezza del primo amore e la delusione che ne deriva quando questo diventa noia, e infine arriva all’autoanalisi interiore, quasi a voler dimostrare che qualsiasi aspirazione di cambiamento è inevitabilmente destinata alla sconfitta se non cambiamo prima noi stessi. Però, se è pur vero come dice Camon che si tratta di una parabola per la nuova generazione, ho colto altri motivi di interesse, forse nemmeno tanto impliciti, che l’uomo, scrittore, insegnante e padre, non può aver messo lì per caso o unicamente a supporto del suo discorso. Leggi tutto…

DAL SILENZIO DELLE CAMPAGNE, di Ferdinando Camon

Dal silenzio delle campagneDAL SILENZIO DELLE CAMPAGNE, di Ferdinando Camon
Prefazione di Fernando Bandini – Garzanti Libri – Poesia – pagg. 118
Prezzo € 7,75 (e-book € 4,90*)
[L’ebook appena uscito ricomprende anche la silloge ormai introvabile Liberare l’animale]

recensione e intervista a cura di Renzo Montagnoli

Prima e dopo

Venuto dalle campagne, poiché lì vi è nato da famiglia contadina, l’ormai inurbato Camon, affrancato dal percorso di studi effettuato e dall’attività di insegnante che nulla ha a che fare con il mondo rurale, in un’epoca in cui quella millenaria civiltà dei lavoratori dei campi si è conclusa, volge lo sguardo all’intorno sui nuovi comparsi (gli agricoltori), ma anche suscitando il ricordo di un tempo passato e che mai più ritornerà.
Nasce così questa raccolta di poesie, mai cedevoli al lirismo, ma volte, come è scritto anche nel sottotitolo, a riportare in versi raccontini del mondo agreste, alla luce anche di nuovi eventi che si innestano in una realtà sorta forse confusamente, ma che é la civiltà del benessere, in cui non si soffre più la fame, si fatica meno, ma anche si vive alla giornata, depauperati dalle radici di un passato e perciò figli di nessuno. È così che l’opera presenta delle sottosillogi tematiche (Dagli allevamenti di tori; Dalle fattorie; Dalle città e dalle periferie), realizzando in pratica un fine trattato sociologico in versi.
Il substrato, il palcoscenico è quello di un Nord-Est che anni fa faceva la fame, ma che ora imborghesito si pasce di ricchezza, continuamente perseguita, in una desertificazione del senso etico da cui nascono nuovi mostri (stupratori, assassini, serial killer). Se con i suoi primi romanzi, in cui così bene ha descritto la civiltà contadina e la sua scomparsa, Camon non si era fatto certo amici al suo paese, con questa raccolta di poesie, radicata in un territorio più ampio, deve avere accresciuto in modo sostanziale i suoi nemici e solo per il semplice fatto che raccontare la verità non è per niente facile e le conseguenze sono sempre di forti contrasti quando questa viene a toccare qualcuno.
Da quest’opera esce un quadro della grettezza propria dei nuovi agricoltori, travolti dall’idea di far sempre più soldi, orfani del senso della famiglia, della religione e anche della patria. E qui non vorrei che qualcuno pensasse che gli antichi richiami nazionalisti e fascisti di Dio, patria e famiglia fossero il nocciolo di tutta l’opera, perché si sbaglierebbe di grosso. Camon non ha un concetto retorico di questi tre stilemi, ma avverte tangibilmente che l’aver rinunciato a una famiglia patriarcale, dove ognuno dei componenti era in funzione degli altri, l’aver abdicato al senso pregnante di una religione rifugio per i propri problemi e maestra di vita, l’aver circoscritto la patria solo alla propria azienda, mezzo e fine del tutto, non può che portare a un inaridimento in cui possono albergare tutte le pulsioni possibili, e soprattutto quelle distruttive (Da terre sante e assassine: …/ Di lui non sappiamo tutto. / Stuprava le vittime col pugno / e col calcagno, / faceva cose che i periti / coprono col segreto, / per paura che l’umanità / sentendole faccia un salto indietro. / …). E questa poesia, piuttosto lunga, non a caso rappresenta l’epilogo, un monito con il quale il poeta, in precedenza assai meno drammatico, anzi ironico, richiama la sua gente – ma che è tutta la gente facente parte della civiltà post-contadina – a un riesame della propria coscienza, se questa esiste ancora.
E’ forse una conclusione che non mi aspettavo, anche se logica, ma questo avviene alla luce delle precedenti poesie venate da un’ironia quasi ludica, in cui difetti e sfregi sono così ben descritti in versi tanto da ricavare l’impressione che l’autore sia lì davanti a te, e quindi con un tono conviviale, da moderno cantastorie. E se di ironia si tratta, credo proprio che comprenda anche una buona dose di autoironia, un’ancora di salvezza per prendere sul serio, ma non troppo, la vita, come il personaggio di Il lupo della steppa, di Hermann Hesse.
Divertono questi versi, ma pungono, piano piano scavano dentro al punto da chiedersi alla fine come mai abbiamo potuto ridurci così, immemori del passato, apatici nel presente, incapaci di programmare un futuro che non sia solo quello di far soldi a ogni costo. Van bene gli sghei, perché quando non ci sono e servono sono dolori, ma ridurre tutta una vita all’unico valore monetario è sprecarla inutilmente.

Aggiungo che è uscito in questi giorni, edito sempre da Garzanti, l’ebook Dal Silenzio delle campagne (€ 4,90), comprendente anche la silloge Liberare l’animale di fatto totalmente irreperibile in forma cartacea. L’ambientazione di queste poesie è sempre il mondo contadino, ma si aggiunge un’ulteriore finalità, rappresentando una coscienza storica di quanto avvenuto in un ancor non lontano passato. Sono scampoli di ricordi di vita vissuta, con ritratti anche struggenti, come in Mia madre, oppure versi che straziano, che segnano le carni, che incidono l’anima come quella che dà il nome all’intera silloge, dall’immensa profondità e con una chiusa che da sola vale l’intera opera: Non possiamo ancora reagire al male:/ occorrono interi millenni / per liberare da noi l’animale. Opera antecedente a Dal silenzio delle campagne, con un Camon più giovane, non è pervasa dall’ironia di cui ho accennato, anche se a tratti affiora, ma all’epoca il disincanto era probabilmente solo agli inizi
Da leggere entrambi, non ve ne pentirete.
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LE ROTTE DEL VENTO

LE ROTTE DEL VENTOLe rotte del vento (Los rumbos del viento), di Maria Teresa Santalucia Scibona (Raffaelli Editore)
Prefazione di Renzo Montagnoli

 di Renzo Montagnoli

Dalle sommità dell’Appennino scende il vento, precipita in forre oscure, da cui poi risale per rotolare lungo le chine delle dolci colline senesi e infine va a placare la sua irruenza, distendendosi nell’amena e bucolica campagna toscana. Viene e porta con sé voci armoniche, versi soffusi di languida malinconia che l’esile, ma ferma mano di Maria Teresa Santalucia Scibona ha segnato su fogli di carta bianca che ora svolazzano, s’insinuano in ogni pertugio, fino a quando trovano una finestra aperta e, quasi per miracolo, si ricompongono sul mio tavolo.
Ed è così che li leggo, ancora odorosi di resina di pino, ancor olezzanti delle mille essenze vitali di una natura che mi par di sentire amica. E sono d’amicizia queste poesie, dedicate quasi tutte a persone con cui l’autrice è riuscita a entrare in sintonia, tanto che l’hanno ispirata. Per quanto i temi discussi siano i più vari, di questa natura c’è più di una traccia, c’è anzi un estatico abbandono da cui riemergere per mostrare, quasi con stupore, quanto immensamente l’anima sia stata nutrita, coccolata, vezzeggiata dall’assoluta bellezza e perfezione del creato, di cui i versi possono solo darci un’idea, per quanto sapientemente esposta (Altrove, in un altro emisfero / la notte abbandonò l’alcova. / Il giorno ancora assopito, / salutava l’alba mollemente / adagiata nel divano di stelle. /… oppure ancora …/ Nel tramonto ramato / non v’era alcuno, oltre me / nella silente solitudine. / Cresceva il desiderio di calarmi / fra gli spazi votivi dell’anima, per godere con lo stupore / di bimbo, l’incanto del creato.). Fra l’altro, la lirica che ho sopra riportato, oltre a essere esplicativa di quel concetto di estasi, nell’ambito della produzione di Maria Teresa Santalucia Scibona mi sembrano che con altre di questa raccolta possano costituire ancora una volta una significativa conferma di una spiccata predisposizione per un’analisi attenta del destino umano, come appare più evidente nella poesia che dona il titolo all’intera silloge. Mi riferisco a Le rotte del vento, dedicata Giampaolo Rugarli, noto narratore italiano. Credo che valga la pena di riportarla per intero: Nel mare ondeggiante / la carena silente / solca i flutti l’infrange. / Senza indizio riga / la traccia del tragitto. / Ospiti di scarsi giorni, // anche noi corrucciati / bramosi gaudenti / di terrene delizie / navighiamo a vista / eludendo ignari / le rotte del vento. In pochi versi concisi è riportata la vita di ogni uomo con una metafora di un Titanic che procede senza una meta ben precisa, cercando, inconsapevolmente, di evitare quelle rotte del vento che poi sono frutto della natura, rientrano in un disegno complesso, imprevedibile e incomprensibile, su cui si basa tutto il Creato. È tuttavia la sensibilità individuale che ci conduce a esprimerci mediando ciò che intendiamo dire con ciò che osserviamo e quello che i nostri occhi vedono è la perfezione assoluta della natura, di cui noi stessi siamo umile parte. E questa osservazione è frutto di una trascendenza che ci porta a vedere anche e soprattutto con l’anima.
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KAFKA E IL MISTERO DEL PROCESSO

KAFKA E IL MISTERO DEL PROCESSO, di Salvo Zappulla (Melino Nerella edizioni) – recensione di Renzo Montagnoli. La prefazione del romanzo è disponibile qui…

di Renzo Montagnoli

Ecco, sono arrivato con trepidazione all’ultima riga, chiudo il libro e pure gli occhi, perché a dire che sono emozionato è poco; la verità è che sono entusiasta, perché mai, e ripeto il mai, mi era capitato di leggere qualche cosa di così grandioso. Guardo la copertina e leggo il nome dell’autore: Salvo Zappulla. Mi viene spontaneo chiedermi se sia lo stesso Salvo Zappulla che conosco e che ha già scritto In viaggio con Dante all’inferno, un buon libro, ma nemmeno paragonabile per qualità a questo. La trama, per quanto assai complicata, avvince dall’inizio alla fine, con quell’idea geniale di base di uno scrittore di modesto livello che, pungolato dal suo editore, si mette d’impegno per scrivere il libro che gli darà la celebrità e per far questo sconvolge il suo solito modus operandi, trasformando il protagonista Pedro Escobar, rozzo scaricatore di porto secondo l’idea originale, in una persona completamente diversa, personaggio che si stacca dall’autore, assume una propria autonomia, di fatto dando inizio a uno dei più bei romanzi apparsi sulla scena mondiale. Non aggiungo altro sulla vicenda che presenta di volta in volta le caratteristiche di genere del fantasy, del thriller e anche del mainstream, mai in contrasto fra di loro, ma anzi perfettamente amalgamate. E come nel Processo di Kafka l’autore verrà sottoposto a giudizio sulla base di una orrenda macchinazione, poiché il nuovo Pedro Escobar procede come una mina vagante, inquinando i testi sacri della letteratura, modificando trame e personaggi, con inevitabile crisi dell’editoria, a tutto vantaggio delle grandi compagnie televisive che intendono, in accordo con i governi di tutto il mondo, arrogarsi il diritto di acculturare le genti, rendendole di fatto supine alla volontà dei potenti. Leggi tutto…

MAI VISTI SOLE E LUNA, di Ferdinando Camon

mai visti sole e lunaMAI VISTI SOLE E LUNA, di Ferdinando Camon
Postfazione di Giorgio Bàrberi Squarotti
Garzanti Libri – Collana Gli elefanti Narrativa – Pagg. 149 – Prezzo € 7,23

di Renzo Montagnoli

Devo ammettere che la lettura dei libri di Ferdinando Camon riserva sempre grandi sorprese, e non solo per quanto concerne il tema trattato, ma anche per come esso viene esposto. Su quest’ultimo aspetto ritornerò in argomento approfonditamente più avanti, perché credo che ben più importanti siano i contenuti, tali da scuotere una naturale indolenza estiva che mi porta a cercare prose facili e meno impegnative. No, con Mai visti sole e luna, è d’obbligo leggere soffermandomi su svariati punti, lasciandomi trascinare dalle apparenti digressioni di cui è infarcito il racconto e con le quali l’autore conduce per mano a scoprire i reali e autentici significati di questa sua fatica.
Ancora una volta lo scenario è quello agreste, il mondo è quello contadino, lontano mille miglia dalle visioni idilliache delle Bucoliche di Virgilio, una terra aspra su cui spezzare le reni per trarre il necessario per il proprio sostentamento, una civiltà sempre uguale nel tempo che l’industrialismo del dopo guerra ha spazzato via. Uomini e natura, natura e uomini, quasi un’identità che non lascia scampo: si viene al mondo sulla terra, alla terra si ritorna quando si muore, in una vita già scolpita nella pietra del tempo, fatta di poche gioie e di molti dolori. È un’esistenza dura e lo è ancora di più se si aggiungono alle tante difficoltà e privazioni quotidiane una guerra (la seconda) e la feroce occupazione tedesca. È il barbaro germanico che nell’assoluta condizione di essere superiore schiaccia, tortura, uccide i contadini, visti non come uomini, ma come paria, come individui inferiori, eguali ai loro animali. Mi sale un brivido lungo la schiena nel ricordarmi di certe nefandezze raccontate nel libro: sono massacri del tutto inconcepibili che non possono trovare giustificazione e le cui vittime gridano ancora giustizia, senza essere ascoltate. Anzi, il tempo smussa, sfuma, la resistenza nelle campagne diventa un evento lontano, talmente lontano che i figli dei figli dei figli di quei protagonisti ora possono perfino chiedersi se qualche cosa c’è stato, o ancor peggio non chiedono nulla, non gli interessa, meglio ignorare il passato per vivere sradicati senza uno scopo, succubi del presente.
E pur in questa tragedia, che si rincorre di pagina in pagina, e nonostante l’esperienza dell’autore, perché l’aspetto autobiografico non è per nulla secondario, le capacità narrative sono sorprendenti, accompagnate da un velo d’ironia che nel capitolo che dà il titolo all’intera opera (Mai visti sole e luna) si trasforma nella satira dell’alfabetizzazione serale.
Però il sipario si apre ogni volta sul mondo contadino e curiosa al riguardo è la parte della contrapposizione fra campagna e città, quest’ultima fonte di tanti guai, perfino della guerra, abitata da individui incapaci di integrarsi, a differenza dei contadini, che vivono nella natura e secondo i ritmi della stessa.
Convengo però con Giorgio Bàrberi Squarotti, autore della postfazione, che giustamente scrive che leggere Mai visti sole e luna come l’opera  dell’estrema nostalgia contadina, dell’ultima elegia di una cultura scomparsa, oppure come la rinarrazione, a tanta distanza di decenni, della guerra e della resistenza e anche degli anni che seguirono la guerra, significa ridurre alquanto il significato di un’opera che porta invece in sé un messaggio di universale portata. E quale è questo messaggio? Leggi tutto…

CONVERSAZIONE CON PRIMO LEVI, di Ferdinando Camon

Conversazione con Primo LeviCONVERSAZIONE CON PRIMO LEVI, di Ferdinando Camon
Guanda – pagg. 75 – euro 10

[In serata, su Letteratitudine, l’intervista a Ferdinando Camon su “Conversazione con Primo Levi”]

Il dilemma di Primo Levi

di Renzo Montagnoli

Due scrittori, assai noti (Primo Levi aveva già scritto e pubblicato Se questo è un uomo e La tregua, Ferdinando Camon, benché più giovane, era già conosciuto per Il Quinto Stato, La vita eterna, Occidente e Un altare per la madre), si incontrarono nei primi anni ’80, per la precisione il primo contatto diretto avvenne nel 1982 a Torino, città in cui Primo Levi era nato e risiedeva; ce ne furono successivamente degli altri, tanto che l’ultimo fu nel 1986.
Quella che doveva essere un’intervista di Camon a Levi divenne una vera e propria conversazione, che pur obbedendo a una scaletta di domande predisposte dal primo e concordate con il secondo, si rivelò uno scambio di opinioni di grandissimo interesse. Deve essere dato atto a Ferdinando Camon di aver ben interpretato i desideri dei lettori, più che mai curiosi di conoscere qualche cosa di più di questo grande autore, testimone e vittima della Shoa, per sua natura persona assai umile e che ha sempre cercato di parlare attraverso le sue opere.
Ma cosa spinse Camon a contattare Levi per intervistarlo? Questa è la prima domanda che ho rivolto allo scrittore padovano che mi ha risposto, come sua consuetudine, in modo esauriente e senza reticenze. Mi ha detto che era stato spinto da un complesso di colpa, in quanto figlio di quella civiltà dell’Europa occidentale che nel tempo ha preso di mira gli ebrei, con un lavorio di esclusione durato diversi secoli e giunto al suo culmine con la follia nazista volta al loro sterminio.
Beninteso questo senso di colpa è una radice che uno si porta appresso per atti compiuti, magari molto tempo prima che nascesse, dal mondo di cui fa parte, da una civiltà che si crede esemplare e che invece nasconde in un’atavica avversione  per gli ebrei, un nocciolo di inciviltà ancor oggi difficilmente scalzabile, atteso un serpeggiante dilagare dell’ostracismo per tutti quelli che non ne sono membri.
Come dice Camon, per lui andare da Levi era come andare a Canossa, e forse ha avvertito tanto di più questo senso di colpa in quanto cristiano e anche cattolico, proprio per la constatazione che il far parte di un credo religioso porta inconsciamente a vedere gli altri, cioè quelli di fede diversa, come degli estranei.
E’ stato però fortunato, perché Levi sì era ebreo, ma Leggi tutto…

IL GIUDIZIO DELLA SERA, di Sebastiano Addamo

IL GIUDIZIO DELLA SERAdi Sebastiano Addamo
a cura di Sarah Zappulla Muscarà
Bompiani – pagg. 159 – euro 8,60

di Renzo Montagnoli

Discesa all’inferno

Le circostanze della vita sono strane e spesso negative, ma altre poche volte positive, come in questo caso, dovuto all’acume di un eccellente scrittore siciliano, Massimo Maugeri, che sul suo seguitissimo blog Letteratitudine nel settembre del 2009 ha pubblicato un articolo su Il giudizio della sera, di Sebastiano Addamo. Benché appassionato di autori siciliani, in cui identifico un comune denominatore non solo stilistico, ma anche espressivo che rientra ampiamente nei miei gusti, quel nome, Addamo, che sembra una storpiatura, un errore di scrittura del più comune Adamo, mi risultava pressoché sconosciuto, pressoché in quanto vagamente sapevo che era stato un poeta, narratore e saggista, ma erano notizie apprese qua e là, non erano fonte di una diretta conoscenza di qualche sua opera. Ecco perché allora mi sono sentito in obbligo, previo consiglio con qualche amico più competente di me in letteratura, di leggere qualcosa di questo Addamo, senz’altro meno noto di Sciascia e di Bonaviri, che erano pressoché suoi contemporanei.

E tutti mi hanno detto di leggere Il giudizio della sera, un romanzo che i miei consiglieri mi hanno definito di grande bellezza. Così ho fatto, procedendo con lentezza, soffermandomi su più punti e impiegando parecchio tempo, nonostante la relativa brevità, perché si tratta di 159 pagine.

Addamo narra la storia di cinque adolescenti siciliani, residenti con le famiglie in provincia e costretti a trasferirsi a Catania per studiare al liceo. Corre l’anno 1940 e la guerra è appena iniziata, nella convinzione che si tratterrà di una passeggiata lunga non più di due o tre mesi, tanto la vittoria è certa, perché così ha detto Mussolini.
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CODICE INTERIORE, di Maria Teresa Santalucia Scibona

CODICE INTERIORE, di Maria Teresa Santalucia Scibona
Introduzione di Mons. Antonio Riboldi – Prefazione di Alessandro Fo – Copertina di Paola Imposimato
Edizioni Cantagalli – Poesia – Pagg. 80 – Prezzo € 10,00

La fede in versi

Recensione di Renzo Montagnoli

La poesia religiosa, tipica del cristianesimo, è un genere che ha lontane origini, tanto che si può dire con certezza che nasca con il Cantico delle creature di Francesco d’Assisi (1182 – 1226) e che poi tragga nuova linfa con il Laudario di Jacopone da Todi (1233 – 1306). Altre epoche, si potrà obiettare, ma se ha un senso ben preciso nella storia della religione cristiana il fatto che sia esistito un monaco come San Francesco che, predicando la povertà,  intendeva richiamare la Chiesa ai valori fondanti della stessa, successivamente chi scrive di poesia religiosa lo fa  quasi sempre non per protesta o monito, ma per provare che la fede, quando forte e sincera, trova ampi sbocchi nell’arte, senza con questo pervenire a discussioni teologiche, ma unicamente volta alla gloria di Dio. E non è che il genere escluda gli altri, tant’è che ebbero a scrivere composizioni religiose anche poeti come Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo, Umberto Saba, Mario Luzi e altri contemporanei di eccellente livello che qui per brevità tralascio di elencare.

Perché questa mia introduzione, questo cappello che può anche far sorridere? La risposta è nel fatto che per i motivi più diversi anche autori assai meno noti, e includo fra questi pure il sottoscritto, hanno scritto e scrivono, sia pure occasionalmente, poesie di carattere religioso, perché il discorso con il trascendente non è e non può essere solo rigorosamente intimo, e la religione, se anche è una convinzione individuale, diventa pur sempre un fatto sociale, così che il proselitismo assume le caratteristiche di una partecipazione volta a un rafforzamento collettivo del nostro credo.

In una poetessa quanto mai versatile come Maria Teresa Santalucia Scibona, che fra l’altro nelle sue sofferenze fisiche trova motivo per rinsaldare la sua fede, non potevano quindi mancare liriche religiose e la prova si trova in questa silloge da poco uscita per i tipi dell’editore Cantagalli di Siena.
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