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L’ISOLA E IL TEMPO di Claudia Lanteri (Einaudi)

giugno 13, 2024

L'isola e il tempo - Claudia Lanteri - copertina“L’isola e il tempo” di Claudia Lanteri (Einaudi): incontro con l’autrice e un brano estratto dal libro

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Claudia Lanteri vive a Palermo, dove fa la libraia. Ha pubblicato racconti su varie riviste («Snaporaz», «Malgrado le Mosche», «Micorrize »). L’isola e il tempo (Einaudi 2024) è il suo primo romanzo.

Un romanzo che è stato definito come un giallo letterario fuori da ogni canone e con una triplice forza: una struttura insolita, un ritmo serrato e una penna rara.

Abbiamo chiesto all’autrice di parlarcene…

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«Ho sempre voluto scrivere, e più volte ho cercato di organizzare la mia vita attorno alla scrittura, senza centrare il fuoco», ha detto Claudia Lanteri a Letteratitudine. «Pur avvertendo il bisogno di sviluppare soluzioni creative, di immaginare narrazioni alternative dello status quo, tentavo di farlo – mi rendo conto oggi – nei contesti sbagliati: progetti di lavoro la cui finalità non era riconfigurare il mondo con le parole, come io avrei voluto, col risultato di generare enorme frustrazione in tutti quanti, capi, colleghi, me stessa. Il desiderio di riconfigurare il mondo con le parole riguardava me, più che il mondo.

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Claudia Lanteri – © Federico Maria Giammusso

Poi nella primavera del 2020 mi sono trovata di fronte a una nuova consapevolezza: la solitudine era mia amica. Il lockdown ha impresso alla mia vita un ritmo calmo, indispensabile per l’osservazione, per registrare, riflettere e rielaborare, per convogliare l’energia creativa verso un altrove sensato: tutto l’universo che a lungo avevo tenuto soppresso, adesso traboccava di scritti, personaggi, idee, rapprendendosi sopra ad un foglio luminoso che senza sforzo prendeva a riempirsi di suoni e immagini, in ogni direzione.
Qualche volta mi manca quel periodo così protetto, pieno di tempi da concedere anche all’ozio o alla noia. Mi rendo conto di essere stata fortunata: la pandemia non si è presa nessuna delle mie persone care. Il lavoro di prima, questo sì, ma alla luce di quello che è successo dopo, non è stato necessariamente un male. Era tempo di liberare quell’energia della parola che costruisce mondi: avevo bisogno di sottrarla alla costrizione degli orari d’ufficio e metterla in opera.

Il libro è nato da un’immagine espressa in poche righe. Poi ci ho lavorato intensamente in un ciclo di incontri online durato circa un anno e mezzo. Caricavo due, tre capitoli ogni mese che venivano letti dagli altri partecipanti. È il paradosso di chi scrive: ci è amica la solitudine ma necessaria la corporazione. Il confronto, lo sguardo altro che legge è indispensabile a chi, dentro le parole, corre il rischio di rimanerci imprigionato. Quella dimensione solitaria della scrittura, è anche il suo limite: bisogna andare in cerca di un delicatissimo equilibrio tra il dentro e il fuori, tra la contemplazione e la politica, in un gioco di assonanze, sguardi e restituzione che poi è il senso ultimo della letteratura: fare comunità.

In qualche modo, questo bisogno di stare in equilibrio tra invenzione e presenza reificante, tra affabulazione e dato oggettivo, persistente, per quanto rimosso, rifiutato, negato a noi stessi, è la materia che L’isola e il tempo dipana.
Il protagonista Nofriu affastella discorsi e dettagli per schivare continuamente il vuoto che si porta appresso, e con cui si rifiuta per tutta la vita di venire a patti: un aedo stanco, ultima incarnazione di Odisseo (com’è stato definito) che narra a chiunque passi una verità, sfuggevole eppure inoppugnabile, fiducioso che solo il racconto la possa di-mostrare. Questa fiducia, il tratto insieme più ottuso e più idealistico del suo carattere, mi fa provare una grande tenerezza nei confronti del personaggio. La memoria, nemica mortale del suo riposo, costringe Nofriu a un movimento continuo di approssimazione e fuga da un punto del racconto indicibile, tragico. Poiché non c’è niente di più segreto di una cosa dispiegata per bene sotto gli occhi di tutti, il suo pubblico è chiunque passi: compaesani, turisti, pietre, sassi, nuvole, cagnolini.

Quella del paesaggio è una dimensione su cui ho lavorato davvero tanto: ho cercato di affidargli il compito di raccontare sia lo scorrere degli anni che il mutare di sentimenti e stati d’animo. È stato per me essenziale verificare che distanze, toponimi e dettagli corrispondessero quasi al millimetro: in una storia che mescola così tanto logica e sogno, intelletto e memoria, sentivo che era importante uno studio minuzioso dei luoghi che avevo scelto per ospitarla.
Anche la lingua che ho ricercato vive di commistioni, di un delicato equilibrio tra dialetto e calchi letterari, tra stile alto, elegiaco, e pulsante espressività popolare. Coi dialoghi ho cercato di infondere tridimensionalità ai personaggi, membri prismatici e sfaccettati di un’umanità sofferente, sospettosa quanto capace di accudimento, ottusa e accorata. Le descrizioni, specie del paesaggio, vogliono racchiudere l’essenza dei rapporti di potere di cui sono il teatro, nuclei ambigui, aggrovigliati, una stessa faccia di male e bene, di amore e rimpianto.»

(Riproduzione riservata)

© Claudia Lanteri

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Estratto “L’isola e il tempo” di Claudia Lanteri (Einaudi, 2024) – [cap. 14 – I traditori, pp 137-139]

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L’aria profuma di foglie di alloro e di lenzuola pulite, tese sui fili ad asciugare. Angelina traffica intorno al pentolone con un fazzoletto sulla bocca per scongiurare svenimenti, i fumi del liquido sono spessi che paiono di cera. Sono quasi le dodici, ma mio padre e i miei fratelli devono ancora tornare dal mare, e all’orizzonte si addensano nuvoloni; Angelina guarda il cielo leggendoci qualche malannúnzio, contro cui mormora rapida uno scongiuro:
– E tu nuvola brutta oscura che sei venuta a fare?
Con il cucchiaio di legno mescola e con la schiumarola toglie i grumi: la fronte nemmeno sudata, non sembra stanca, sembra una maga alla mescita di pozioni. Mi pare che il vento porti ancora qualche volta l’eco delle sue litanie. «Ecco, tre gocce con la luna piena, e poi mangia una crosta di pane, mangia una crosta di pane e io te la strappo dai denti e dico: Questo è il pane mio!» Ascoltavo in silenzio, per impararle. Se ne accorgeva sempre, scostava i capelli dal viso, s’intabarrava in un silenzio impenetrabile come se avesse freddo: mai ha voluto insegnarmi i suoi scongiuri e i suoi poteri, gelosa, e quante volte mi sarebbero serviti. Anche ora nel ricordo, mi scopre e mi riporta a letto: la sua mano si sofferma sulla fronte, anche se affaràta di vapori è carezza che rinfresca.
Mi metto dritto sul letto, lei mi infila un secondo cuscino tra la schiena e il muro. Il tempo non passa mai. Provo a concentrarmi sul manoscritto come fossero tabelline, ma perdo il segno; annaspo cercando d’immaginare a quale profilo di costa possa corrispondere la scena dello sbarco dei coloni che Daisy ha descritto; che la morta conoscesse l’isola nostra mi pare una cosa troppo assurda, se no qualcuno si sarebbe ricordato di lei. E allora mi rimetto sulle pagine, ritrovando subito il filo perso, e dopo un poco la storia mi prende di nuovo. A volte mi sembra di trovarci nuovi indizi, altre mi sale il nervoso: non riesco a separare il personaggio della storia dalla sua persona. Mi viene davanti agli occhi la prepotenza di Surico, il suo modo sempre cosí altezzoso di negoziare con tutti, e mentre leggo di quel Nero balordo, nella mia immaginazione cosí coincidente coi contorni di quell’altro, salto su gridando: «Cretina! Vattene! Vattene, cretina, quello prima o poi ti ammazza!» Allora Angelina, timorosa che mi venga un malanno, viene a strapparmi i fogli che ho nascosto da qualche parte, sotto le coperte; o si siede un momento accanto al letto, e dalla bocca chiusa le scappa un suono cupo, come se le uscisse dalla pancia.
E forse un malanno poi mi è venuto veramente, mi sembrava una dolce melodia che mi cullasse e finiva per farmi venire sonno per davvero.
– Perché non ti addormenti? – mi diceva allora una voce
che faticavo a riconoscere.
Ma appena diceva cosí io subito mi svegliavo, annaspando,
come fossi sott’acqua. Con le mani scostavo le lenzuola alla ricerca della corda che avrei dovuto tenere stretta senza addormentarmi; poi, quando lei si avvicinava al letto, riconquistavo le forze e la ragione.
– Quando viene il papà, mamà?
– Che hai fame? – rispondeva la voce, evasiva.
– E Filippo quando viene? E Vilasi? E Filippo?
– Non hai mangiato niente, né ieri sera né stamattina.
Qualcuno mi passava una grossa fetta di formaggio, i grani di pepe esplodevano nel boccone come improvvisi bagliori di fuoco.
Appena ero tornato tranquillo, mia madre andava a sbattere il sapone in terra, per togliergli le bolle. Teneva lo sguardo posato su di me anche se dava di spalle, con quel suo occhio dietro la schiena che ha sempre aperto. Dal letto, mi pareva di vedere Vilasi, all’impiedi accanto a lei, a darle aiuto al mio posto. Volevo chiedere come veniva il sapone, ma avevo sonno. Le bolle sono come le gramigne d’intorno ai capperi: si devono strappare tutte, senza averne pena, altrimenti le signore di Marsala non vogliono piú comprare le nostre saponette e non sappiamo di che vivere.
Poi si metteva a sedere sulla panca del tinello, aspettando che il sapone fosse asciutto, e c’era bisogno di un pomeriggio e una notte. Qui le rondini da sempre si vengono a godere un po’ di fresco dell’ombra di mirto; a mia madre, al suono di quel canto, piangere le doveva parere una specie di libertà.

(Riproduzione riservata)

© Einaudi

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La scheda del libro: “L’isola e il tempo” di Claudia Lanteri (Einaudi, 2024)

In questo romanzo che vive di una scrittura letteraria molto potente, maestosa e naturale insieme, il tempo si morde la coda, è definito ma anche mobile: un tempo in cui tutto continua ad accadere. E chi racconta, con l’illusione di approdare prima o poi a un finale diverso, rimane agganciato per sempre – con il lettore – all’enigma irrisolto.

Non capita spesso d’imbattersi in libri come questo, vivi, spiazzanti, per la forza della storia e della scrittura. Immaginate un’isola vulcanica dalla bellezza selvaggia a sud della Sicilia, alle soglie degli anni Sessanta. E immaginate l’arrivo di un barchino verde con a bordo un naufrago stremato e il cadavere di una donna, sua moglie. È un evento che rompe la quiete di quel mondo, poi lentamente ognuno torna alla sua vita. Ma per il protagonista dell’“Isola e il tempo” quei giorni, e l’indagine che ne è seguita, sono una materia da raccontare per trent’anni a chiunque si prenda la briga di ascoltarlo: donne che passano, monelli di strada, turisti che a poco a poco cambiano il volto dell’isola. Perché in quel pugno di ore si condensa un enigma irrisolto prima di tutto dentro di lui. Ci sono luoghi che sono mondi. Così è l’isola mai nominata, di fronte alla ’Mpidusa, verso la fine degli anni Cinquanta: pochi abitanti che si conoscono da sempre, tre cime viste dal mare, la vegetazione secca, la terra nera. E la fatica degli uomini e delle donne per la sussistenza: la pesca, le magre coltivazioni di capperi e lenticchie, qualche bestia. A spezzare il ritmo dei giorni è l’arrivo di un barchino con a bordo due persone: un uomo vivo e una donna morta. Un incendio ha distrutto la loro barca a vela, racconta il superstite, e nel naufragio hanno perso la vita anche i coniugi Domoculta e i loro tre bambini. Mentre il maresciallo Bonomo apre un’indagine convinto di poterla archiviare presto, il tredicenne Nonò s’improvvisa detective. Ascolta i discorsi di tutti nascosto negli angoli più improbabili, fiuta piste, mette insieme i tasselli. Ma ogni cosa è più complicata di come sembra, e anche questa storia, proprio come l’isola all’alba, appare avvolta di fatemorgane. Per riconoscerne i confini bisogna allontanarsi, fissare l’occhio sul paesaggio, su piccoli dettagli: persino certi luoghi – la caserma, il porticciolo, la pergola di Tina – scandiscono, mutando, il tempo e il senso delle cose. Ecco perché tutta la storia dev’essere narrata, con calma e da principio, a chiunque passi, alla ricerca del filo che continua a scappare dal disegno. Anche quando l’indagine volge al termine, Nonò non smette di correre per l’isola e perlustrarne i fondali, per trovare il punto in cui la barca si è inabissata. E quando finalmente, con l’aiuto del fratello Filippo, riesce a raggiungerla, insieme ai corpi dei Domoculta scopre un altro cadavere: quello del colpevole. Ma chi può credergli, se ormai tutti dicono che ha perso la ragione? Perché, di fatto, proprio nel momento in cui il giallo si sgarbuglia, tutto comincia a ingarbugliarsi nella memoria di Nonò, che a tratti rimuove le parti di racconto più dolorose. Un narratore ferito, più che inattendibile.

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