In esclusiva per Letteratitudine, pubblichiamo il racconto (edito in versione cartacea da Melino Nerella)…
IL CANCELLO, di Simona Lo Iacono
Siracusa, 31 dicembre 1492
Se mi darai ascolto, Dio di Abramo, forse questa mattina riuscirò a dirti tutto come non ho mai fatto, come non sarebbe stato possibile neanche al tempio, con i tefillin annodati alla fronte che oscillano sul mio respiro. Qui, a Siracusa, li chiamano filatteri, e per quanto abbia osteggiato questo termine, Dio d’Abramo, adesso mi è caro.
Lo so che ti chiederai come mai il vecchio rabbi Aronne, che si alza al mattino con la Shacharit sulla bocca e chiude la sera con la Ma’ariv, si rivolga a Te raccontandoti soltanto una storia.
Ma ascolta, Dio di Abramo. Perché questa è la mia storia.
***
Non so bene quando i miei progenitori scelsero la Sicilia. Vagavano da troppi anni, ormai, e Siracusa era giunta al loro sguardo dal mare. Si raccontava di uno scoglio su cui si era posato un gabbiano.
I padri dissero: è qui.
Da bambino chiedevo perché a mia nonna Ester e le tiravo le gonne, interrompendo il rito del pasto.
Perché la Sicilia è bar mizwà, figlia del precetto.
Detto questo, cominciava le benedizioni, per il viaggio del passato e per quello del futuro, per il mestruo e per l’alba, per le evacuazioni della giornata e per la vista dei sapienti, per essere nata donna e per me che ero nato maschio – ti ringrazio Dio d’Abramo, diceva, che ad Aronne hai risparmiato il dolore e l’impurità della madre, anche se di questo io Ti benedico.
E mi sospingeva fuori dall’uscio, dove i bambini siciliani si mescolavano a noi ebrei senza numero e ordine di appartenenza, svicolando su strade appaiate e strettissime, che i miei padri studiarono in tutto identiche a Gerusalemme (sia benedetto il suo nome) per proteggerci dallo scirocco. Misero su un quartiere di filatorie, merciai, calzolai e mastri ferrai, sommandosi ai siculi che sorridevano addomesticati e indifferenti, pronti a unirsi e a separarsi senza rimpianto, chè un isolano, pontificavano, è solo un approdo. Una zattera che tira vento.
Mai visto un popolo più duttile, Dio d’Abramo, mai vista appartenenza meno certa, dicevano i padri, o forse mai vista tanta appartenenza. Agli ispanici, ai libici, ai fenici d’Africa e ora, speravamo, a noi.
Se non fosse che noi giudei l’appartenenza la covavamo nella carne, e alle donne siracusane che strabiliavano innanzi alla milà, alla circoncisione del destino e del sesso, raccontavamo con orgoglio che la terra promessa la portavamo incisa in un taglio, netto e filato, rispetto al resto del mondo.
***
All’inizio, dunque, ci sfioravamo. Siracusani ed ebrei, gli uni sugli altri a respirare l’afa, a percorrere cunicoli a fior di mare, a piegarci sul lavatoio nei pressi dell’antico tempio d’Atena dove i cristiani avevano edificato la loro cattedrale. Ci entravamo anche noi, Dio d’Abramo, perché sorgeva tra le stesse colonne del tempio greco, e sentivamo – senza ombra di dubbio – che se tu eri stato lì per chi ci aveva preceduto, potevi essere lì anche per noi, senza curarti da che terra provenissimo.
Col tempo costruimmo la sinagoga, i bagni, il macello, la casa dei limosinieri. Un intera Gerusalemme stretta da quattro vie che delimitavano la soglia del nostro mondo, che ergevano una sfidante torre a guardia di un regno che non era di dominatori ma di dominati e che, tuttavia, pareva più libero dei padroni, ovunque andasse, e su qualunque terra si innestasse, come se noi ebrei, pur restando in Sicilia, non avessimo alcun ospite a cui rendere grazie.
Ma sempre e soltanto la storia, a cui slegavamo, di giorno in giorno, un nodo. Leggi tutto…