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MAGNIFICAT AMOUR di Isabella Santacroce (Il Saggiatore)

aprile 29, 2024

“Magnificat Amour” di Isabella Santacroce (Il Saggiatore)

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di Grazia Pulvirenti

La fiamma di una candela. Luogo imprecisato. Un interno. Visioni prendono forma fra fumi d’incenso. Fra le parole. Un distillato di parole, un distillato di visioni. Quelle scaturite dai punch di E.T.A. Hoffmann, a confronto, appaiono flebili, pallide, evanescenti. Quelle che Isabella Santacroce evoca, in un flusso magnetico, sono possenti, nascono da una descensio ad ìnferos e dalla ascesi di una parola che agogna l’assoluto. E lo attinge. Ùsque ad sìdera: “Si sprofonda nel dolore per ascendere” (p. 378).
Magnificat amour, l’ultimo romanzo di Santacroce, appena pubblicato da Il Saggiatore, è un vortice in cui prendono forma e si consumano passioni, tormenti, momenti di estasi, ascese di precipizi. In una coralità di voci, ciascuna diversa dall’altra, ognuna manifestazione di un individuale abisso, di un’angoscia che non può non affannare l’animo e l’anima dei viventi, qualsiasi sia l’estrazione sociale, l’età anagrafica, la nostalgia.
Il dolore è lo stigma che accomuna personaggi tanto differenti fra loro, che muove i loro passi su schegge acuminate, fra residui di vita marcescenti, accecati dal brillio di effimeri lampeggiamenti. Eppure la scrittura, tra analessi e anacronie, ellissi e paralissi, non diventa mai narrazione in stile autofiction dei propri inciampi, del proprio patire: “Il dolore non bisogna raccontarlo, una lama conficcata in un grido. Il dolore non bisogna raccontarlo, instancabile è la forza che sostiene l’amore” (p. 369).
In questo viaggio senza nóstos, un percorso nella nostalgia, nella brama di vivere, nello smarrimento, c’è una stella cometa, la ricerca dell’amore: “Solo l’amore è capace di camminare sull’orlo degli abissi e attraverso le cime dei monti. L’amore, ancora una volta l’amore” (p. 384).
Riferire dei contenuti sarebbe sminuente per un romanzo che attinge il segno e il sogno della letteratura intesa in senso sacrale, come trasmutazione alchemica da uno stato di greve materia alla preziosità di una pietra incandescente. È la parola ad essere incandescente, a creare un flusso magmatico che stordisce, a scavare voragini dalle quali si può intuire, fra non rare epifanie, un senso di meraviglia. Per la bellezza. Forse proprio questo è uno dei segreti di questa scrittura indefinibile: l’intuizione di una bellezza spiazzante, acuminata, che la parola può lambire, accarezzare, consumare, senza mai esserne paga, senza mai cessare di bramarla, anche quando sembrerebbe averla raggiunta, poterla custodire. E in ciò risiede la dannazione e la salvezza, in ciò si manifesta quella letteratura che ormai tanto manca nei romanzi con i quali l’editoria italiana infesta il mercato: la letteratura che è arte, metamorfosi delle opacità dell’esistenza in una parola in grado di urlarla e trascenderla: “L’indefinibile che si muove e sale, è l’altrove.” (p. 391)
La meta della scrittura di Santacroce è l’altrove, un altrove che è a un tempo intuizione di sublimi sfere d’esistenza ma anche immanenza, attraversamento del patimento, del buio, del silenzio: “Deve esistere altro che sia solo levità, come te, luce che colpisci quest’ombra che mi riassume. Ma tu non mi parli. Hai parole solo per i fiori” (p. 383).
Poiché, per paradosso, è in questo magma che tutto arde di parole, la cifra del silenzio, lo spazio incontaminato da cui, come per Hofmannsthal, fluisce la luce: “Dopo quella sera ho capito il silenzio, dea bianca gioiosa.” (p. 387)
E da queste vette scaturisce la dimensione etica di una parola che non è mai paga di dire il male che ci attraversa, perché ambisce a squarciare il velo che ricopre la pena, la tenebra che ci acceca. E lì si manifesta, inopinatamente e ipnoticamente, il bene, l’amore, la trascendenza attinta nell’immanenza: “Il bene non ha tempo, è scintilla mai smorzata che dall’eterno affiora ardendo in un riverbero per ricondurci al principio del suo nascere.” Il principio del suo nascere è la parola di una mente “groviglio di aurore”.

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La scheda del libro: “Magnificat Amour” di Isabella Santacroce (Il Saggiatore)

Magnificat Amour - Isabella Santacroce - copertina

 

Lucrezia e Antonia sono cugine, ma non potrebbero essere più diverse l’una dall’altra. La prima è bellissima, dedita a una cura morbosa del corpo e «maestra dell’immondo, eroina di una vita di scempiaggini». La seconda è bruttina, trascurata da tutti, «uno scarabocchio con l’incarnato olivigno» che a ventisette anni non ha ancora baciato nessuno. A irrompere nelle loro esistenze contrapposte, anche se legate dalla stessa necessità di riscatto, sarà Manfredi, un pianista di trentadue anni che si muove nella realtà come un fantasma, forse perché da bambino è stato un prodigio, ma oggi «nel suo sguardo ci sono secoli di luce su strapiombi di desideri mai avverati».

Poi c’è suor Annetta, che Lucrezia conosce in una chiesa al termine di una notte di eccessi, una donna dalla purezza travagliata che sta scrivendo un libro intitolato Verso Dio e sembra aver capito che la più grande richiesta d’amore coincide con il peccato.

Tra zie ex miss Cinema, parenti metafonisti, poeti alcolizzati e untuosi milionari, tutti in bilico tra autoesaltazione e martirio, i protagonisti di questa storia sembrano incarnazioni di voci paranormali che si manifestano in tempi e in luoghi diversi, ma prodotte dallo stesso misterioso ventriloquo.

Dopo anni di silenzio, Isabella Santacroce torna con un romanzo-monstrum di grande esoterismo, una moderna commedia umana che procede intrecciandosi con molte vicende autobiografiche dell’autrice. Una partitura polifonica scritta con un linguaggio inimitabile, all’apice della sua maturazione artistica.

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Isabella Santacroce è una scrittrice italiana. Tra i suoi libri ricordiamo Luminal (1998), Lulù Delacroix (2010) e Amorino (2012).

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Tra le pieghe delle storie”:
Tra le pieghe delle storie, tra gli anfratti di ciò che in genere scompare, ma che è pregno di significato.
Rubrica a cura di Grazia Pulvirenti.

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