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HOTEL MADRIDDA di Grazia Verasani (Marsilio)

giugno 15, 2024

Hotel Madridda - Grazia Verasani - copertina“Hotel Madridda” di Grazia Verasani (Marsilio): incontro con l’autrice e un brano estratto dal libro

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Grazia Verasani ha esordito giovanissima con alcuni racconti apparsi su il manifesto. Oltre a Quo vadis, baby?– da cui nel 2005 è stato tratto l’omonimo film di Gabriele Salvatores e nel 2008 una serie tv prodotta da Sky – e agli altri romanzi della serie con protagonista l’investigatrice Giorgia Cantini (l’ultimo, uscito nel 2020, è Come la pioggia sul cellofan), ha pubblicato varie opere tra cui From Medea (Sironi 2004), da cui nel 2012 è stato realizzato il film Maternity Blues di Fabrizio Cattani, Tutto il freddo che ho preso (Feltrinelli 2008), Mare d’inverno (Giunti 2014), Lettera a Dina (Giunti 2016) e La vita com’è (La nave di Teseo 2017). Per Marsilio, nel 2021 è uscito Non ho molto tempo, in cui racconta della propria amicizia con Ezio Bosso. I suoi libri sono tradotti in vari paesi tra cui Francia, Germania, Portogallo, Stati Uniti e Russia.

Il suo nuovo libro si intitola Hotel Madridda (Marsilio, 2024). Abbiamo chiesto all’autrice di parlarcene…

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«“Hotel Madridda” l’ho pensato a lungo nell’ultima fase della pandemia», ha detto Grazia Verasani a Letteratitudine, «e credo che il clima asfittico, agonico che si respirava in quel periodo, abbia condizionato la successiva scrittura. Soprattutto per quel che riguarda la chiusura delle librerie, biblioteche, teatri, cinema, locali per concerti, e l’incapacità politica di trovare possibili alternative, spazi di inclusione, anche se attenzionati. https://64.media.tumblr.com/340167809f9768aa0504c493f237378c/7bc393fbdef43263-fd/s2048x3072/c0d896cda551cb53f86df24ec574f71b5071aea4.jpgMi sembrava di avere perso, con la libertà di uscire, vedere gli amici, godere dell’arte, l’anima del mondo. In un distacco fisico e emotivo che ci rendeva tutti più o meno simili, ma inesorabilmente isolati, costretti a un fermo-immagine paralizzante e confuso. Questo romanzo “distopico” è stato immaginato in quei frangenti, e nasce anche dalla stanchezza di leggere autobiografie non sempre capaci di sopraelevarsi da un piano personale a uno universale. Il racconto di sé, per quanto ogni autore scriva il prodotto delle proprie esperienze e del proprio vissuto con la sua particolare sensibilità, mi è sembrato di colpo monco, chiuso, parziale, non in grado di interpretare il presente attraverso l’invenzione e la rappresentazione metaforica della realtà. Così mi sono immersa in una zona d’ombra senza connotazioni temporali o geografiche, un quartiere al confine del mondo che ho chiamato Balanskaja-Madridda, pieno di grigi caseggiati, a parte quell’hotel di dieci piani che svetta maledetto e decadente dentro un cielo fosco e perennemente marrone, nel deserto di un cemento senza alberi, sotto cui una comunità di anziani dissidenti vive esistenze grame, tra il divieto di comunicare tra loro e altre restrizioni. L’atmosfera è postbellica, un nuovo regime si è installato e la Deima attua i suoi divieti e le sue repressioni. In uno degli alloggi abita Selma, un’ex giornalista settantenne finita lì, in quel limbo di espiazione, con la colpa di avere scritto articoli scomodi. I suoi vicini sono un professore di scienze, un pittore omosessuale, una cantante d’opera, un’attrice e altri dissenzienti. A scombinare i piani della loro dolente routine è Tino, un ragazzo venuto dalla capitale insieme ad altri giovani che hanno eletto l’Hotel Madridda a simbolo della loro disperazione e della loro protesta, scegliendo una sorta di suicidio collettivo per ribellarsi a una vita senza vie d’uscita e senza felicità. Selma ne ha già visti dalla sua finestra di ragazzi lanciarsi nel vuoto dal terrazzo di quell’hotel, ma Tino non ci è riuscito, le guardie lo inseguivano, e lui ha trovato un rifugio provvisorio nella cella di Selma, che lo ospita senza capirlo e senza forzarlo, ma curiosa di penetrare il segreto di questa ultima resistenza a un regime che non lascia altre scappatoie. La presenza di Tino nel caseggiato vivifica i suoi inquilini, la gioventù ha il potere di sollevare gli animi, di riportare le voci a esprimersi, di spezzare l’afonia con le parole, e persino con l’amicizia. Selma, col suo passato di ideali politici e disincanti, e Tino, costretto a fare i conti coi rimpianti ancor prima che con i sogni, instaurano un legame umano che ha il sapore di un’ultima resilienza, e forse, persino, di una speranza per il futuro.»

(Riproduzione riservata)

© Grazia Verasani

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Un brano estratto da “Hotel Madridda” di Grazia Verasani (Marsilio, 2024)

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Cara Ida,

ti scrivo in questo lungo pomeriggio di fine ottobre, anche se la carta ormai scarseggia, razionata come tutto il resto. Del resto, per non impazzire devo pur occupare il tempo, in qualche modo. E tu sei la mia ancora di salvezza, l’illusione di un contatto, sebbene a distanza. Mi manchi. Provo a descriverti questo cielo che cade sui fabbricati bianco sporco, su file di caseggiati di cemento, compartimenti stagni dove la vita che si conduce è immobile, neutra, priva di diversivi. Di squarci azzurri neanche a parlarne; qui, a Balanskaja-Madridda, il cielo è marrone, un marrone denso, compatto e senza sfumature, di giorno e anche di notte, quando qual­che stitico lampione sparge aloni ramati sulla Zona B1, do­ve sono confinata, come sai, ormai da cinque anni. La natu­ra, o quel che ne resta, è lontanissima, oltre le recinzioni e l’infinita sterpaglia che circonda il villaggio a perdita d’oc­chio. Bisogna percorrere molti chilometri per immergersi nella vegetazione incolta, tappezzata di tronchi abbandona­ti, chiazzata di pozze dalle quali nelle stagioni calde fuorie­scono sciami di zanzare affamate; una landa arida e stermi­nata che ho intravisto un’unica volta dal blindato che mi ha condotta qui. Non ho fatto amicizia con gli altri, solo due o tre parole sulle scale quando si torna dall’Emporio di Gelsa con i viveri; è come abitare con dei vecchi spettri, chiusi in questi piccoli appartamenti tutti uguali, e gelati.
Le pareti sono sottili, ma i discorsi mozzicati che intercetto non mi fanno compagnia; qui la voce si mantiene bassa, un mormorio teso e guardingo, e il riserbo è costante, la diffi­denza ostinata. In fondo, pur se interdetti, siamo stati con­donati, e c’è chi sta peggio di noi: dobbiamo ringraziare, e rispettare le regole.
Ci siamo abituati alla paura al punto da maneggiarla senza particolari sforzi: basta non sgarrare, basta ricordarsi che abbiamo evitato pene più dure e che stare qui è sempre meglio di marcire in una galera vera e propria. Vorrei dirti che sto bene, anche se siamo quasi giunti alla fine del mondo. Anche se l’unico giornale che posso leggere è pieno di falsità prefabbricate, e la verità, se c’è, si annida tra le righe del contrario di quel che viene scritto.
Non posso scappare. A settantadue anni so che è qui che morirò; non mi illudo, per quanto la mia salute sia abba­stanza buona e i soldi, anche se scarsi, mi permettano di comprare ogni tanto una bistecca dura come un pugno, ol­tre alle bustine del tabacco necessario ai miei nervi. Ma è triste, Ida, rileggere sempre gli stessi due o tre libri, non averne a disposizione di nuovi, e tu sai quanto i libri siano importanti per me; così finisce che rischio qualche scambio con il professore del piano di sotto, un uomo stropicciato che insegnava Scienze in un liceo e che convive con una moglie piccola come un origami. Non conosco la ragione per cui li hanno sfollati qui, ma so che non mancano artisti, scrittori e reietti del libero pensiero, reduci di un’epoca or­mai superata. Non ci cerchiamo, se non furtivamente: è bandita ogni forma di intesa, di comunella.
L’unico panorama che riempie la mia finestra è l’Hotel Madridda, un tetro, cadente palazzone di dieci piani. Ci sono due guardie che si danno il turno, giorno e notte, davanti al portone serrato, ma non sempre riescono a im­pedire l’accesso. Quell’edificio scuro, instabile, dalle ser­rande abbassate, svetta minaccioso e riempie la visuale come un’ombra enorme. Ma anche queste sono cose, cara Ida, che ti ho già raccontato. A volte i raggi violacei di un sole depresso lo rischiarano come il sussulto di un mori­bondo, e allora prende un colore rossastro, bilioso. Tutta­via la cosa più triste non è questa, ma vedere i corpi di quei ragazzi che si lanciano dal grande terrazzo sul tetto, là do­ve troneggia l’insegna spenta hotel madridda: sono già più di quaranta, dicono.
Negli ultimi tempi l’albergo si è trasformato in un macabro campo di volo per giovani che l’hanno eletto a simbolo. Si sono passati la voce e, uno dopo l’altro, in barba alle guar­die, sono riusciti a intrufolarsi all’interno dell’edificio e a lanciarsi di sotto. Gira voce che mureranno ogni porta, ogni ingresso, ma per ora hanno solo inasprito i controlli e rinforzato la vigilanza. Per la Deima è un affronto, una provocazione, anche se fingono che sia solo un’epidemia di teste calde che hanno fatto della debolezza una via di fuga. Penso però che se il fenomeno perdurerà non potranno più minimizzare. A volte riescono a bloccarne qualcuno e ad arrestarlo, ma intanto, noi della Zona B1, i più prossimi all’hotel, ce ne stiamo in prima fila a osservare questo film dell’orrore. Ragazzi che si lasciano cadere a picco sull’asfal­to, sagome rotte, disarticolate, bordate dal sangue delle fe­rite. Li vedo da qui, fantocci inanimati che sembrano sorri­dere; non se ne salva nessuno, non da quell’altezza. Se li caricano sulle spalle come in tempo di peste, li gettano sui blindati, e poi, chissà, magari li inceneriscono.
Una sera ho sentito qualcuno gridare: una ragazzina era stata afferrata in tempo, l’hanno malmenata così forte che il rumore delle ossa che si sbriciolavano era quasi assor­dante. Non credo che abbiano in mente una qualche rivo­luzione, e forse sono più che consapevoli che il loro gesto non cambierà lo stato delle cose, ma a dirla tutta non ne so niente, non ci capisco niente. Non sono più quella che scriveva articoli “scomodi”, e ormai sono troppo vecchia ed esausta anche solo per arrabbiarmi. So però che a volte tiro la tenda o giro le spalle per non vederne cadere giù un altro.
Sono sempre più magra, qui ci razionano tutto, soprattutto il cibo. Possiamo accendere la luce solo per poche ore, e la sera capita che mi accasci a terra nel buio più assoluto, con la testa tra le mani, ma lacrime dagli occhi non ne escono. Mi piacerebbe dirti che aspetto che la situazione si capovolga, e che a questa impotenza si sovrapponga un urlo, uno scoppio, qualunque cosa che possa spezzare l’incantesimo, ma ho la sensazione che si sia inceppato l’intero mondo, che siamo solo dei dimenticati: fantasmi, tempi morti, cloro­formio. Non mi è rimasto altro, se non i ricordi.
Di mamma che sfamava i cani randagi, del suo modo pudi­co di ridere coprendosi la bocca con la mano cicciottella perché si vergognava dei suoi denti storti. La rivedo men­tre stende le lenzuola di lino in cortile o innaffia il suo amato orto. Era così contenta di averci istruito, lei che sba­gliava le parole e si insuperbiva se cercavamo di corregger­la. Le si erano rovinati gli occhi, col tempo, ma era abba­stanza vanitosa da rifiutare gli occhiali. Papà diceva che le importava solo dei cani che accudiva, ma lo diceva per prenderla in giro o reclamare un po’ d’attenzione. Certo non siamo state cresciute con i fronzoli dell’affetto, io e te – baci, smancerie, cose così –, ma mi ricordo quando da bambina mi appendevo al collo di nostra madre e respira­vo le zaffate del suo sudore buono, col naso tra i peli della sua ascella. Mi sentivo al sicuro. Ripenso ai nostri giochi, alla prima volta che abbiamo fatto il bagno al mare, al tuo costume intero castigato perché i maschi cominciavano a sbavarti dietro e tu arrossivi. Ripenso a quando papà ha incorniciato il mio primo articolo fresco di stampa appen­dendolo con orgoglio al muro della cucina, e non si stanca­va mai di rileggerlo. Ma era fiero anche del tuo mestiere di modella, dei bei vestiti che indossavi sulle passerelle, no­nostante non ti facesse mai un complimento.
Scusami, ora devo interrompere. Arriva un po’ di trambu­sto dalle scale, e c’è un gatto che sale sempre puntualissi­mo a bere un po’ del mio latte. Non gli ho dato un nome, qui non si possono tenere animali domestici; lo accolgo sulla soglia, accenno una carezza, ma è un gatto che non vuole essere nemmeno sfiorato, come se gli facesse male dappertutto.

(Riproduzione riservata)

© Marsilio

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La scheda del libro: “Hotel Madridda” di Grazia Verasani (Marsilio, 2024)

Hotel Madridda Il caseggiato a Balanskaja-Madridda è grigio, e grigia è la vita che si conduce al suo interno. Ci vivono persone che sono state giornalisti, professori, studiosi, irregolari, artisti. Hanno parlato tanto, ormai parlano poco. Davanti alle finestre del caseggiato c’è un albergo, che ha dieci piani e un tempo è stato bello: l’Hotel Madridda. Adesso è chiuso. Nessuno va più in albergo, e quasi più nessuno parla. Nemmeno Selma, la protagonista di questo romanzo, che passa il tempo a scrivere alla sorella Ida e a nutrire un gatto. Parlare non si può. E non si deve. Le parole sono vietate quasi tutte e non si capisce cosa sia un irregolare finché non ti hanno arrestato. L’hotel è transennato perché l’ultima forma di protesta dei ragazzi e delle ragazze che hanno più rabbia che paura consiste nel salire sul tetto dell’albergo e buttarsi di sotto. Così, quando Selma sente un trambusto nelle scale del caseggiato, apre la porta, osserva e torna a chiudersi dentro, senza stupirsi troppo del fatto che in casa sua, dietro la tenda, non ci sia più il gatto, ma un ragazzo: uno di quelli che voleva buttarsi per protesta è sfuggito alla polizia che lo inseguiva e si è nascosto lì.
In questo romanzo veloce e limpido, doloroso e spavaldo, Grazia Verasani racconta che cosa succede in una comunità che è stata abituata a pensare ma che, per paura, si è disabituata a farlo: quando tutto è disperazione e l’unica cosa possibile sembra essere ammazzarsi per tentare di risvegliare le coscienze – e soprattutto per sottrarre carne al regime –, ci sono ancora parole che possono essere dette. Hotel Madridda racconta perché per interpretare il futuro ci vuole il presente e il presente bisogna prenderselo.

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