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IL BAMBINO AL COBALTO, di Ivano Luppino

ottobre 5, 2013

IL BAMBINO AL COBALTO. Diario di un dolore“, di Ivano Luppino
Armando Siciliano Editore, 2013 – pagg. 136 – euro 13

[Domani, dalle h. 7, qui su LetteratitudineNew, un brano del libro e un intervento dell’autore]

IL BAMBINO AL COBALTO dell’esordiente Ivano Luppino è un libro che può leggersi sotto diverse angolazioni: 1. Letteraria 2. Sociologica

di Marinella Fiume

1. Sotto la prima angolazione, mi ha fatto pensare  a  La cognizione del dolore, un romanzo incompiuto dello scrittore  Carlo Emilio Gadda. E forse questo libro di Ivano può aiutarci a capire perché l’autore non lo finì mai. Rispetto al romanzo di Gadda, quello di Ivano ha per lo meno maggior coraggio, come dimostra il fatto stesso che è stato portato a compimento e chi lo legge capirà quanta forza d’animo è stata necessaria all’autore per farlo… Perché il libro, un diario dove i vari momenti della vita dell’autore si snodano, non secondo un arco cronologico, ma attraverso una serie di flashback, come un rosario attraverso cui si snocciolano i vari misteri dolorosi, ruota intorno alla “poetica della memoria”. Fin qui niente di nuovo: l’autobiografia ha appunto questo presupposto. E la scelta della prima persona sottolinea la forma diaristica.
Ma l’originalità spiazzante del libro è l’angolazione, il punto di vista che l’autore adotta: quello di un bambino “venuto al mondo” (diremmo con la Mazzantini) già segnato dalla malattia e sottoposto, nel corso della sua vita, a parecchi interventi chirurgici, spesso assai invasivi, a terapie pesantissime e oggi alcune delle quali superate dalla scienza medica: fra tutte, la devastante cobaltoterapia, quella stessa a cui non resistette il fisico ormai piegato e piagato di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, il celebre autore de Il Gattopardo. Quella da cui trae origine il bel titolo del libro.
Il protagonista è un bimbo strappato dal nido soffice e protettivo della provincia calabrese e siciliana, da una famiglia patriarcale ramificata, allargata, ricca di parentela e catapultato per la maggior parte del tempo della sua evoluzione psico-fisica in una fredda, grigia, estranea, paurosa corsia d’ospedale romano. Da qui, da questo peculiare punto di vista, la novità stilistica del libro, la sua cifra peculiare: l’attenzione a particolari minuti, forse insignificanti per un adulto, la resa lillipuziana della realtà esterna, la prospettiva rovesciata di chi guarda il mondo dal basso di un lettino verso l’alto. Si può immaginare come questo sguardo sulle cose sia molto particolare, perché stabilisce una gerarchia e una spazialità del tutto peculiare: quella di chi guarda il mondo da un lettino, un rapporto non alla pari.
Intorno al protagonista si muovono le figure secondarie, delineate in pochi sapienti tratti, ora con la tenerezza e la dipendenza del bimbo, ora con la simpatica ironia dell’adulto: la madre, il padre, il parentado, gli insegnanti, i compagni di scuola, i colleghi di sventura, infermieri, portantini, medici…
La malattia diventa metafora di un viaggio: un viaggio che comincia dalla nascita di questo bambino e che si materializza nella scena dell’attesa del treno alla stazione di Acireale, il luogo consueto della partenza, e in quel treno per Roma che separa dalla terra consolatrice allo stretto di Messina e che attraversa gallerie e tunnel bui prima di vedere la campagna romana. Quel treno è perciò un simbolo contraddittorio di vita e morte, salute e sofferenza. E i tunnel che il treno attraversa sono metafora di quel lungo corridoio d’ospedale che il bimbo percorre con la manina attaccata a quella del suo papà, ben presto strappata per raggiungere il luogo dell’oblio, la sala operatoria, lo stordimento dell’anestesia che lo trascina nel profondo Ade e lo risucchia nel suo nulla che lo ghermisce con le mani adunche.
Il bimbo, spersonalizzato nelle corsie d’ospedale, diventa solo il numero di un lettino, la lettera di un reparto. E lo sguardo dell’adulto che non indugia alla retorica del sentimento, ora si fa ironia, levitas, distanza, grazia… Sono numeri da smorfiare per giocarli al lotto, ma sono anche illusione della routine della vita normale, basata sull’ossessiva ripetizione: il numero del lettino, il numero dei colleghi di sventura, il computo dei giorni… il gioco dei conteggi!
Ma la vita è sporca, mentre l’innaturale pulizia delle sale ospedaliere, odorose di disinfettante e dell’odore tipico della sala operatoria, ci riportano alla non vita di un ospedale asettico che scandisce i giorni tutti uguali del bambino.
La sofferenza e il dolore, l’insulto ripetuto ad un piccolo corpo inerme, attraversano come un fil rouge il racconto di questi venti anni circa di vita, insieme all’altro, quello della solitudine, che attanaglia le viscere del bimbo, perché l’esistenza di un bambino ammalato è fatalmente legata alla solitudine: solo lui e la sua malattia, lui e la sua ombra labile.
Eppure, esso sa farsi scuola di vita perché il dolore può incattivire, ma può diventare buon maestro, come nel caso dell’Autore che dall’addestramento al dolore si apre al mondo e sceglie la solidarietà, la professione medica, il paradiso miracoloso della guarigione.
Chi conosce il dermatologo, sa con quanta passione egli eserciti la professione! E, certo, anche perché ha avuto la sorte di incontrare sul suo cammino persone che hanno saputo porsi autorevolmente nei suoi confronti, che lo hanno saputo punire, senza pietismi, ma anche aiutare, premiare.
Perciò il libro è anche il difficile romanzo di formazione di un bambino che del dolore ha saputo fare strumento di crescita personale. Un bambino malato, infatti, non si ama, perché sente la malattia come punizione e comprende di essere un peso per i familiari. Ma l’autore è riuscito a vincere sul dolore, anzi il dolore è diventato uno stato di grazia che gli ha permesso di entrare dentro di sé, conoscersi, conquistare infine la vera saggezza.
Da qui il manzoniano “sugo della storia”, le ragioni per cui il libro vede la luce: “Per questo ho voluto far conoscere questa vita, la mia. Per quelli che, come me, hanno dovuto subire travagli fisici e mentali capaci di annullare ogni resistenza, capaci di abbattere”. Da qui l’esperienza individuale si innalza all’universalità del messaggio valido per tutti, scopo ultimo di ogni esperienza letteraria.

2. Il secondo aspetto è quello sociologico. Perché il libro è anche una testimonianza e una denuncia sociale, senza la retorica della denuncia.
Quello del dolore rientra come componente specifica nel concetto generale che il bambino ha di salute e malattia. In base agli stadi piagetani di sviluppo cognitivo, si sono individuati tre livelli di comprensione del fenomeno malattia:

1. Stadio prelogico approssimativamente dai 2 ai 7 anni: i bambini percepiscono il mondo in maniera concreta, secondo ciò che riescono a toccare, vedere o manipolare. In questa fase, i bambini tendono a credere ai propri sensi, piuttosto che astrarre dall’esperienza o credere a quanto si dice loro: per esempio, hanno molta difficoltà a convincersi che una puntura dolorosa possa davvero farli stare meglio. Di conseguenza può succedere che non denuncino il dolore se sanno che gli analgesici vanno somministrati per via intramuscolare. Allo stadio prelogico, due eventi vengono collegati fra loro per il semplice fatto che accadono insieme: per esempio, il bambino viene portato dal medico per una vaccinazione e da allora si convince che ogni visita medica debba essere accompagnata da una puntura. Quanto alla definizione del dolore, i bambini a questo livello lo designano generalmente in termini percettivi semplici, del tipo “il dolore é dove fa male” e non colgono il nesso fra dolore e malattia.

2. Stadio del pensiero logico-concreto: il pensiero logico concreto (7-9 anni) é caratterizzato dalla comprensione del rapporto che c’é fra il dolore, altri sintomi e la malattia, ma senza un’idea chiara delle cause del dolore. I bambini riescono a capire che procedure spiacevoli sono necessarie per la terapia o il monitoraggio della malattia.

3. Stadio del pensiero logico-formale: gli adolescenti, che hanno raggiunto il livello del pensiero logico formale (dagli 11 anni) presentano la capacità di comprensione coerente ed elaborata delle interazioni fisiologiche complesse che intervengono nella salute e nella malattia.

piccolo ha paura del distacco dal proprio ambiente, dagli amici e dai suoi genitori, teme l’incognita delle cure e del dolore, può arrabbiarsi con la mamma e il papà perché non hanno il potere di riportarlo a casa e spesso i genitori sono impreparati a gestire queste emozioni.
Per facilitare la degenza, l’atmosfera degli ospedali pediatrici (arredi, letti, pareti, attrezzature, personale medico e paramedico, attività proposte, coinvolgimento e accoglienza dei genitori) dovrebbe essere quanto più possibile a misura di bambino e invece proprio un recente studio condotto dall’Associazione Culturale Pediatri (Acp) e dalla Società Italiana di Scienze Infermieristiche Pediatriche (Sisip), mostra che nel 90% dei casi gli interventi per rendere l’ospedale a misura di bambino riguardano solo la parte strutturale (ambienti e camici colorati, arredi per l’infanzia etc.), mentre solo un ospedale su tre offre ai bambini l’opportunità di partecipare ad attività ludico-creative e solo nel 47% dei reparti è presente la scuola, che invece è un diritto del bambino sancito dalla legge. Anche il coinvolgimento dei genitori che partecipano alle attività del reparto solo nel 26% dei casi. Vengono così ignorati i diritti dei bambini in ospedale secondo la Carta redatta dalla  European association for children in hospital (EACH). In Italia, però, esistono numerose associazioni di volontariato che portano sollievo e divertimento nei reparti di pediatria degli ospedali. I volontari si occupano di organizzare attività incentrate sull’arte, sulla lettura animata, sulla risata. La più attiva di queste associazioni è la Fondazione ABIO (Fondazione per il bambino in ospedale) che si occupa anche dell’aspetto ludico. Il gioco stimola la fantasia del bambino ed è un fattore di continuità con la vita esterna,  fattori decisivi nel ristabilire il benessere del bambino.Per tutto questo ed altro ancora che non vi dirò per non togliervi il piacere della scoperta, la lettura del libro di Ivano Luppino è da consigliare non solo agli addetti ai lavori, ma ad un pubblico assai più ampio.

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