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ITALIA VENTUNESIMO SECOLO, di Marco Imarisio (la nota introduttiva di Andrea Gentile)

dicembre 13, 2013

In esclusiva per Letteratitudine pubblichiamo la nota introduttiva del volume ITALIA VENTUNESIMO SECOLO, di Marco Imarisio (firmata da Andrea Gentile, che è il curatore del libro) – Il Saggiatore

di Andrea Gentile

Il mondo accade, gli attimi si svolgono.
C’è la carta dei giornali, l’affastellarsi delle lettere sugli schermi dei computer: i cumuli di cenere.
La mineralogia, i sedimenti oceanici, gli sguardi degli sconosciuti.
I volti vitrei degli uomini politici, le rughe scellerate degli uomini robotici, le gobbe arcaiche degli uomini magnifici.
Ci sono gli universi, i continenti, le nazioni.
I cerchi concentrici, gli echi infiniti, le bolle secolari.
Ci sono i secoli.
Ci siamo noi.
Siamo in milioni: milioni di animali, inselvatichiti, ottusi, affamati.
Questi sono i nostri anni, affamati.
Piazza Fontana, Brescia, la Stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica, eccetera, eccetera, eccetera.
Non più.
Questi sono gli anni italiani che abbiamo appena vissuto; ci hanno scosso, graffiato, invaso.
Ci sono passati davanti come i bagagli degli altri sui nastri magnetici degli aeroporti.

I nostri giorni non sono più nostri, la memoria è pulviscolare – o è cemento, talvolta – e dunque eccoli qui, questi nostri giorni affranti.
Solcare un quindicennio, così vivo, così morto, attraverso lo sguardo di Marco Imarisio significa rivivere tutto quello che è accaduto – a casa nostra, dietro l’angolo, a centinaia di chilometri di distanza – con gli occhi di chi c’era. Con lo sguardo di chi è lì mentre i fatti accadono, si sfilacciano.
Con l’orecchio di chi vede davanti a sé il presente che implode, e va a tuffarsi negli interstizi del piccolo accadimento, che invaderà, come un ronzio universale, le nostre vite quotidiane, fatte di corse forsennate, di corsi e ricorsi storici, privi di storia.
Sono i giorni nostri, è il secolo nostro, ancora in fieri, e qui lo riviviamo, grazie al cronista, e al suo sguardo, ai suoi pezzi scritti su un pc da un albergo di provincia, dal corridoio di un ospedale, in una sala d’attesa di una stazione, in macchina, per strada, al riparo, sotto una pensilina: perché, anche oggi, ancora di più, bisogna fare presto, inviare il pezzo, catturare il dettaglio e farlo esplodere davanti al lettore.
Siamo nell’albergo Nettuno, è famoso. A giorni chiuderà per restauro.
Presto: venite tutti a vedere la prospettiva Andreotti. Ancora pochi giorni: del chiosco accanto alla piscina, dal quale l’ex barista Vito Di Maggio raccontò di aver visto Giulio Andreotti e Salvo Lima con il boss Nitto Santapaola, non rimarrà nulla.
È un viaggio, questo, nella città del silenzio. È stata inaugurata la zona rossa a Genova, 2001. Soltanto le pale degli elicotteri, il ronzio dei condizionatori, il rumore degli stivali dei poliziotti sul selciato. «Sembra di avere ovatta nelle orecchie» dice una ragazza. La sua città, Genova, non c’è più: è cambiata in una notte all’improvviso: cambierà per sempre.
L’Italia delle chiacchiere, dei caffè, dei plastici alla sera davanti al ragù: no, noi siamo lì, mentre il fatto si avvera.
C’è un moscone che ronza fastidioso e si posa sull’orecchio destro di Stefano Lorenzi. Quest’uomo oggi è una statua. Non alza la mano per scacciarlo, non scrolla le spalle. È davanti alla bara di suo figlio. Stringe forte le mani di sua moglie, che singhiozza nel silenzio della piazza, e a chi le si fa incontro pronuncia sempre la stessa frase. «Non sono stata io, lo giuro» dice Annamaria Franzoni.
E poi il mondo, un 11 settembre qualsiasi, un’immagine, l’ultima, di Saddam Hussein, un viaggio nel giardino dell’Eden; a terra una camicia strappata, stracci, una trentina di pacchetti di sigarette accartocciati, escrementi di cane e di uomo. In mezzo, un eucalipto ormai grigio, il fusto senza più corteccia, i rami senza foglie, senza più vita.
Ancora un albergo: quello in cui muore Marco Pantani. «Ma andate a vedere cos’è un ciclista e quanti uomini vanno in mezzo alla torrida tristezza» scrive nella sua ultima lettera.
Eccoci sull’asfalto gelido, o cocente, sulle strade di questo terribile intricato mondo. Un giorno al macello, erano i tempi dell’ossessione collettiva, quella della Mucca pazza.
Locri, Castel Volturno, Scampia: le strade non sono di tutti.
Parco Stura a Torino, l’epopea triste dei bambini-cumpa’, Lamezia Terme: viaggiamo a occhi aperti, nei luoghi in cui di solito gli occhi li teniamo chiusi.
E poi i reportage dalle carceri, dai vecchi mondi, i nuovi. Marco Imarisio entra nelle celle di Poggioreale, di Sassari, di Bologna dove anche a terra non c’è spazio per tutti, anche per svegliarsi bisogna fare i turni, dove gli uomini perdono la vita cantando: «Ricordate che la morte non è la fine».
Un condominio come un mondo, una nuova inaspettata Libera repubblica senegalese a Bovezzo, nel Bresciano, i capannoni cinesi dell’Osmannoro dove i turni sono di sedici ore, e le ragazze che vi lavorano tengono i neonati sulle spalle.
La solitudine degli operai.
Le anime degli uomini perduti.
Le vite; quelle perdute, quelle affrante.
Selezionare i pezzi di Marco Imarisio, pubblicati dal 1998 al 2013 sul Corriere della Sera, significa fare una radiografia di questi nostri terribili intricati anni. Scandagliarne – grazie allo sguardo del cronista scrittore – i gorghi più oscuri, gli antri più gelidi.
Giorno dopo giorno, Imarisio seziona la realtà: getta via il monocolo, il monocolo è il suo sguardo.
In molti hanno scritto sulla magia del dettaglio. Dettaglio come evento senza precedenti, irripetibile, che si staglia fra miliardi di simili.
Migliaia i dettagli, in questo Italia ventunesimo secolo; non li sveleremo qui, in questa nota introduttiva.
Il dettaglio che si avvita su se stesso tra le pagine dei quotidiani; il dettaglio che non si lascia inghiottire dal piombo.
Il dettaglio che è l’indicibile, il microscopico, l’enorme: si infrange sulla sensibilità del giornalista: prismatico va incontro ai lettori. È questo, forse, ancora oggi, il senso ultimo del giornalista, dell’inviato: ciò che qualunque diretta televisiva non può dare.
È raro, rarissimo. Ultimo.
C’è un senso di ultimità, anche, in questo libro. L’ultimo compleanno di una bimba, a Rozzano; incontro a lei un proiettile vagante. L’ultima lettera di Marco Pantani, in una stanza di hotel priva di vita. L’ultima email di Fabrizio Quattrocchi: «Oggi è la tua festa e io vorrei coprirti di mimose, ma in questo posto non ci sono fiori». Le ultime due donne della città distrutta. L’Aquila, 6 aprile 2009. Sfavilla lieve la notte, per sempre, nelle tombe di periferia.
L’ultima speranza che Tommaso sia vivo. Poi il sentiero sterrato che porta al luogo dove cade, la speranza. Una discarica fatta di alberi e di cose usate e sfatte. Accanto alle sterpaglie che nascondono il suo corpo: il resto di un bivacco, bottiglie rotte, lattine accartocciate, lo scheletro di una poltrona bruciata, uno stenditoio arrugginito.
C’era una volta un tempo; dove sarà finito oggi?
E dunque Marco Imarisio ci porta tra le pieghe accartocciate del passato, che non è ancora trascorso.
La stella a cinque punte tatuata sul palmo della mano sinistra, tra pollice e indice, di un uomo che prende il sole in Corsica. È l’ultimo brigatista del commando di via Fani.
L’ultimo nazista italiano. Ha 80 anni. «Non ho mai visto uccidere un italiano. Cosa vogliono, dopo tanto tempo? E al processo non ci andrò, ho pronto il certificato medico.»
E poi, la Malapolvere. Casale Monferrato, l’amianto: dov’è Giuseppe, il maestro elementare, ucciso dalla fabbrica senza mai entrarci. Dov’è Giovanni, che testimoniò in barella, e morì cinque giorni dopo.
Dove Libera, Romana, Mario. Morti, tutti, per errore.
L’Italia degli errori, l’Italia dei professori precari a sessant’anni, l’Italia dell’incapacità didattica conclamata.
L’Italia, le Italie, dei due marciapiedi, fuori dalla clinica in cui giace Eluana Englaro.
L’Italia dell’abisso, l’Italia delle ombre sull’asfalto di Viareggio, l’Italia di Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Giuseppe Uva.
L’Italia di Yara Gambirasio, di Melissa Bassi, l’Italia della Costa Concordia, animale morente.
Siamo noi, che siamo qui, siamo Italia.
Muore, ancora, oggi, ignominiosamente la Repubblica.
Siamo cittadini di un paese.
Marco Imarisio – cronista scrittore, osservatore, esploratore – ci fa solcare le strade di questo paese, ci fa incontrare i volti scarnificati, o troppo in carne, volti protagonisti di storie minime e storie massime, storie collettive, storie terribili, intricatissime, storie di questa nostra storia recente, storia di questo paese, l’Italia.
Serva.
Animale morente.
Che non muore mai.

(Riproduzione riservata)

© Il Saggiatore

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Marco Imarisio è inviato del Corriere della Sera, per il quale ha seguito i principali fatti di cronaca italiana ed estera degli ultimi quindi ci anni.
Ha pubblicato Mal di scuola (Bur 2007), I giorni della vergogna. Cronaca di una emergenza infinita (L’ancora del Mediterraneo 2008) e La ferita. Il sogno infranto dei No global italiani (Feltrinelli 2011).

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