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COSE DA PAZZI, di Evelina Santangelo

aprile 2, 2012

COSE DA PAZZI, di Evelina Santangelo

di Massimo Maugeri

Da martedì 3 aprile è disponibile in libreria il nuovo romanzo di Evelina Santangelo: “Cose da pazzi” (Einaudi, pagg. 336, euro 21). Pubblichiamo, di seguito, un’intervista che l’autrice del libro ha rilasciato in esclusiva per Letteratitudine

(dalla scheda del libro)

Rafael è un ragazzino tutto pepe, pieno di vita, di dubbi e di pensieri strani. Richi è un irresistibile sbruffoncello, segnato ma non piegato dalla malattia.
Nella casba dei vicoli di una Palermo in trasformazione, si buttano nel mondo. Sperimentano l’alfabeto mafioso e il suo contrario, incarnato nella figura di una piccola professoressa dagli occhi verdi.
Crescono a scossoni, tra cani randagi, mirabolanti imprese calcistiche ispirate al capitano rosanero Miccoli, e gli ormoni impazziti dell’adolescenza.
E la loro amicizia, insieme alle storie e alle contraddizioni che li circondano, a poco a poco illumina e complica la comprensione delle cose.

Il cuore di questo libro è la storia di una grande amicizia tra due ragazzini.
Intorno a quel cuore c’è un corpo: la Palermo di oggi, tra vecchie botteghe e lounge bar. Una città dove tutto quello che fai o non fai, anche senza volerlo, può alimentare il potere mafioso. E questo per il semplice fatto che i padroni della strada traggono profitto anche dai gesti più piccoli e quotidiani di chiunque, come comprare senza saperlo un biglietto della lotteria taroccato.
Per Rafael – figlio di un’emigrata colombiana e di un operaio quasi disoccupato – e il suo amico Richi, crescere lì, nel quartiere Spina, è un percorso accidentato, pieno di ostacoli che i loro occhi quasi non registrano. Piantati come sono dalla mattina alla sera in vicolo Grande, a parlare dei rosanero, di corse clandestine, del culo sodo di Maura la Grossa, si confrontano quotidianamente, e per così dire naturalmente, con le regole non scritte di un mondo dove ogni diritto si trasforma in favore, ricevuto o concesso, e dove la connivenza s’infiltra ovunque.
Quelle regole stridono sempre di più con le lezioni di una piccola professoressa precaria dagli occhi verdissimi, una «persona civile», troppo civile per molti degli abitanti del quartiere Spina. Una che pare piovuta da un altro pianeta. È lei a dire giorno dopo giorno, in un ciclo di lezioni sulla legalità, qualcosa d’inconcepibile e dissonante. Sul pizzo, ad esempio, che i ragazzi chiamano «recupero crediti ». Sulla moda, sulla politica, sui sogni più inauditi. Le sue parole hanno la rara forza di suscitare reazioni imprevedibili,dubbi, domande, smarrimento, e insieme un profondo rispetto.
Cose da pazzi segue il destino di Rafael, di Richi e di altri personaggi a cui ci si affeziona, creando un ponte tra un sud immerso in un tessuto mafioso che crea miti e detta modelli e un nord di sradicamento, non diversamente compromesso. La Milano a cui approda Rafael.

– Evelina, il titolo del libro, “Cose da pazzi”, ricalca un modo di dire tipicamente siciliano che può assumere significati variabili. Quale significato «incarna», questo titolo, rispetto al romanzo e alla storia in esso narrato?
Quello che racconto è un mondo alla rovescia, dove spesso il diritto è inteso come un favore, dove la cosa pubblica è concepita in modo proprietario, come garanzia di interessi particolari, dove si è perduto il senso stesso di cittadinanza, e dove chi difende la propria dignità (la dignità del proprio lavoro, la dignità delle proprie idee) spesso sperimenta una condizione radicale di estraneità rispetto al contesto in cui vive, come se parlasse una lingua straniera. È questo quel che accade, ad esempio, alla piccola professoressa dagli occhi verdi, con le sue lezioni «civili» che sembrano eresie. Il fatto però è che in questo mio romanzo non è sempre facile segnare un confine netto tra comportamenti incivili e comportamenti che invece sono piuttosto delle forme di sopravvivenza… Perché, come accade nella vita, tutto spesso si mescola in modo inestricabile. Uno dei miei personaggi, Salvo, il proprietario del locale-trattoria di vicolo Grande, ad esempio, è sicuramente un arrogante, uno che fonda il suo potere su amicizie losche, però a suo modo è anche uno che ha insospettati barlumi d’umanità… e segue un suo senso, per quanto profondamente distorto, nell’amministrazione dei «beni comuni» (la strada e il quartiere in cui si svolge la mia storia). I ragazzini di cui racconto le vicende vivono sicuramente al limite della legalità, ma non rimangono indifferenti alle lezioni della professoressa Rita, e per quanto crescano acquattati nel loro quartiere di piazza Spina, hanno tratti del tutto simili a tanti altri ragazzini della loro età, si nutrono di immaginari globali, curano il look fino al parossismo, ora credono di essere al centro del mondo e ora invece si percepiscono come i più sfigati della terra…

– Come epigrafe del libro hai scelto una citazione di Estella Rodríguez: «Siccome il mondo è tondo è fatto per muoversi, girarlo». Perché questa scelta?
Hannah Arendet in un suo saggio dice che «la libertà di movimento è storicamente la più antica e la più elementare. Poter andare dove si vuole è il gesto originario di essere liberi, mentre la limitazione di tale libertà è stata da tempi immemorabili il preludio della schiavitù». A queste parole mi sono ispirata concependo il personaggio della madre di Rafael: una colombiana che ha sposato un operaio siciliano e rivendica la propria libertà di movimento e la propria cittadinanza con orgoglio.

– “Cose da pazzi” è anche un affresco della Palermo di oggi. Che tipo di città ne viene fuori? Quali elementi di continuità e di discontinuità, nel bene e nel male, presenta con la Palermo di dieci, venti, trent’anni fa?
La Palermo che racconto è una città in trasformazione, dove convivono tratti di modernità maldigerita, spesso esteriore (i lounge bar, i centri commerciali, i negozi alla moda…) con comportamenti, atteggiamenti, concezioni inveterate (la concezione proprietaria della cosa pubblica, il senso di cittadinanza ridotto a esercizio di potere su un territorio, piccolo o vasto che sia). Una città dissonante, ecco, marginale e globale al tempo stesso. Una città che si illude di essere esente dal corso della storia, ma che vive tutte le contraddizioni del nostro tempo. Nella professoressa dagli occhi verdi ho però voluto incarnare quella combattività culturale e civile che la stagione delle stragi e la fine della Primavera non è riuscita, a mio avviso, a soffocare del tutto. Ho insomma immaginato la mia città come una babele di comportamenti e lingue che faticano a intendersi… ma che convivono spesso in uno stesso crocicchio di strade.

– I due ragazzini protagonisti del libro, Rafael e Richi, si muovono in questo contesto… nel quartiere Spina. Come vivono il rapporto con i “loro luoghi”?
In modo confuso, come accade spesso agli adolescenti. Adeguano i loro comportamenti ai modelli imperanti nel loro quartiere, modelli spesso improntati alla prevaricazione e all’arroganza, al più gretto provincialismo, o alla modernità più esteriore, ma non sono affatto insensibili alle parole della professoressa Rita che contraddicono in modo puntuale la loro esperienza, sono un invito inesausto alla libertà, la libertà di scegliere intanto che individui essere.

– In cosa, Rafael e Richi, si assomigliano e in cosa – viceversa – sono diversi?
Si assomigliano nel modo di intendere l’amicizia e di salvaguardarla persino contro il destino di separazione che li attende. Per il resto, incarnano due modi di vivere l’adolescenza in modo completamente diverso. Richi affronta a muso duro la vita, è un maestro nella dissimulazione del dolore e della rassegnazione. Rafael è invece un grumo di domande inevase. E ha un doppio immaginario, in cui il mondo di piazza Spina si mescola ai racconti esotici della madre colombiana, alle sue pene, al suo orgoglio.

– Come hai già accennato, nella storia un ruolo importante è svolto da Rita, un’insegnante precaria che si sforza di impartire “lezioni di civiltà” esercitando, di fatto, un ruolo di contrasto rispetto alle abitudini consolidate nel quartiere. Fino a che punto un atteggiamento, e un esempio, come quelli offerti dalla “piccola professoressa precaria dagli occhi verdissimi” possono sortire effetti? Quali sono gli effetti su Rafael e Richi?
Sono convinta che nel farsi di un’esistenza pesano anche moltissimo certi incontri con persone speciali capaci di scompaginare i pensieri, di aprirli a nuove possibilità, nuove visioni, un nuovo sentimento delle cose, e di se stessi. E sono convinta che alcuni insegnanti possono avere un ruolo fondamentale in questo senso. A me è accaduto… Ecco, la professoressa Rita è una di questi insegnanti, una che sa conquistarsi il rispetto per le cose che dice e per il modo in cui le dice, con intelligenza (intesa come comprensione delle cose), passione, e senza mai concedere nulla all’arroganza. Non è una che s’impone, non è una «vincente», tutt’altro, è una piccola professoressa precaria che però non lascia che si calpesti la sua dignità d’insegnante. Non è affatto scontato che incontri del genere possano cambiare il corso di una vita, anzi. Le lezioni della professoressa Rita non cambieranno il destino di Richi, di Eros né del «pinnolone» di Lillo, e in fin dei conti nemmeno di Rafael, ma susciteranno in alcuni di loro dei pensieri nuovi, strani, saranno come un’opportunità che ogni insegnante, in quanto tale, dovrebbe offrire ai propri studenti, anche a costo di sembrare un illuso.

– A un certo punto Rafael approda a Milano. Che città trova?
Una città insospettata… quella Milano che troppo spesso si nasconde a se stessa… La Milano che ha saputo raccontare un attore come Giulio Cavalli, la Milano compromessa e collusa di cui hanno dato un resoconto puntuale Gianni Barbacetto e Davide Milosa in «Le mani sulla città»… Ma non voglio dire altro, perché quella Milano è anche il luogo per Rafael di una durissima consapevolezza.

– Ultima domanda: la letteratura ambientata in luoghi degradati e contraddittori, in un modo o nell’altro, può offrire un’occasione di riscatto o assume la valenza di mera consolazione (ammesso che abbia questa valenza)… o cos’altro?
Il ruolo specifico della letteratura non è consolare e nemmeno riscattare, almeno così la penso. La letteratura, quando ci riesce, e riesce ad essere tale, è un modo di interrogare l’esistenza, di allungare lo sguardo in universi che spesso rimangono fuori dal campo visivo, e che hanno il potere di irradiare un senso oltre se stessi, e lo fa spesso imitando la vita, senza preconcetti o preclusioni, senza voler dimostrare nulla, perché la letteratura non ha il compito di spiegare nulla, né di confezionare concetti esaustivi, e meno che mai di dire come vivere una vita… La letteratura, al limite, permette di guardare il mondo che racconta da prospettive inedite, e in questo senso è anche una forma di conoscenza, un modo di sperimentare l’esistenza e di dare ad essa una forma possibile.

© Letteratitudine