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IL DELITTO DELLA MONTAGNA di Chicca Maralfa (Newton Compton)

marzo 16, 2024

Il delitto della montagna. Una nuova indagine di Gaetano Ravidà - Chicca Maralfa - copertina“Il delitto della montagna. Una nuova indagine di Gaetano Ravidà” di Chicca Maralfa (Newton Compton Editori): incontro con l’autrice e un brano estratto dal libro

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Chicca Maralfa è nata e vive a Bari. Giornalista professionista, è responsabile dell’ufficio stampa dell’Unioncamere Puglia e della Camera di Commercio di Bari. Ha collaborato stabilmente per anni con la «Gazzetta del Mezzogiorno», scrivendo di cultura e di attualità, e con i periodici specializzati «Ciao 2001» e «Music». Per Antenna Sud e Rete4 (nella trasmissione di Alessandro Cecchi Paone, Giorno per giorno) si è occupata di cronaca bianca e nera. Ha esordito nella narrativa nel 2018 con la commedia nera Festa al trullo, e nel 2021 ha pubblicato il suo primo giallo, Il segreto di Mr Willer, finalista a vari premi letterari. Con la Newton Compton ha pubblicato Lo strano delitto delle sorelle Bedin e Il delitto della montagna (quest’ultimo, appena pubblicato).

Abbiamo chiesto all’autrice di raccontarci qualcosa sul suo nuovo romanzo: “Il delitto della montagna. Una nuova indagine di Gaetano Ravidà” di Chicca Maralfa (Newton Compton)

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«In un romanzo si può fare di un paesaggio un personaggio?», ha detto Chicca Maralfa a Letteratitudine. «Dargli spazio sulla scena, farlo addirittura muovere fra passato e presente, renderlo soggetto oltre che oggetto di impressioni e descrizioni? Una sorta di specchio animato, che rimanda al lettore la luce e il clima non solo come riflesso di una realtà immanente ma anche come stati d’animo, mutevoli, dei protagonisti?

Foto dell’autrice © ningensalad.jpeg

La mia sfida ne “Il delitto della montagna”, la seconda indagine di Gaetano Ravidà, è stata questa, come anche della precedente, “Lo strano delitto delle sorelle Bedin”. Operazione non semplice, perché lanciata attraverso un giallo a grande diffusione. Come ambientazione ho scelto Asiago, sull’altopiano vicentino e non a caso. Obiettivo: far sì che il pubblico dei lettori, il più vario possibile, potesse accedere attraverso la location a un pezzo di Storia patria e recuperare, così, la memoria degli avvenimenti accaduti sull’Altopiano dei sette comuni, più di cento anni prima. Per non dimenticare.
Tutto è cominciato due lustri fa, quando dalla Puglia, dove vivo, sono arrivata lassù per la prima volta, invitata da Lucia, una cara amica padovana. Non sapevo, allora, che ne avrei fatto uno spazio letterario, ma ho subìto così tanto la fascinazione di Asiago e dei suoi paesaggi ariosi, da farne nel tempo un luogo di evasione. Ci sono tornata spesso, in varie stagioni dell’anno, per godere della natura che muta aspetto e colori. Ho incontrato tante storie, altre mi sono venute a cercare, ho iniziato a seguire soprattutto un filo narrativo fra passato e presente che potesse trasformarsi in un romanzo.
C’è una scena del film “I recuperanti” (1970) di Ermanno Olmi – che lasciò Milano per fare di Asiago la sua casa – che rende molto bene il luogo e la sua valenza storica, al di là della meta turistica di montagna. A parlare è il vecchio Du, un recuperante, uno dei tanti che, dopo le due guerre si aggiravano fra i monti a cercare residuati bellici – piombo, ghisa e ottone – da rivendere a peso. Si rivolge al giovane Gianni, tornato ad Asiago, il suo paese natale, reduce dalla campagna di Russia. «Vedi quell’erba là in fondo, tutta verde, laggiù, sai perché è così verde? È cresciuta sulla carne umana. Eh, caro mio, la guerra è una brutta bestia: gira e gira il mondo e non si ferma mai». Nel film Du insegna a Gianni a guadagnarsi un tozzo di pane facendo il recuperante, in un momento storico in cui c’era tanta miseria e nessuna opportunità di lavoro.
All’epoca l’economia circolare non stava neanche nel libro dei sogni, ma la necessità di sopravvivenza stimolava l’ingegno e quella ferraglia che tanta morte aveva provocato – quasi 600mila caduti solo sull’altopiano vicentino – poteva, in un impensabile paradosso, mantenere in vita interi nuclei familiari.
Nelle mie più personali intenzioni è il paesaggio, lo stesso sotto lo sguardo di Du e Gianni, il personaggio principale del romanzo. Confesso di aver fatto del giallo un pretesto, sin dalla prima indagine di Gaetano Ravidà. In una trama gialla incalzante, ho cercato vari espedienti narrativi che mi avrebbero consentito di far entrare la Storia dalla finestra mentre l’investigatore, con i suoi fidi collaboratori, si muoveva sulla scena, a caccia di prove e indizi per risolvere indagini complesse. Per fare un esempio calzante, ecco apparire nelle indagini de “Il delitto della montagna” proprio la figura del recuperante, Emilio Todini, un ex autista di autobus appassionato di storia della Grande Guerra. Sarà lui, impegnato una domenica mattina a cercare spolette di Shrapnel, a imbattersi in una prova determinante, in uno dei tre casi sui quali Ravidà indaga ne “Il delitto della montagna”. Casi apparentemente sconnessi, e diluiti nel tempo, ma che alla fine si comporranno in un quadro di insieme.
Lo stesso protagonista l’ho inventato partendo da un cognome siciliano ascoltato per caso e che mi aveva colpito per la sua musicalità. Avendo deciso di collocarlo sull’Altopiano gli ho attribuito un nonno, fante nella Brigata Trapani, morto combattendo durante la Stafexpedition, sul monte Lemerle.  Un milite ignoto, come migliaia di altri militi ignoti, e dunque il mio Ravidà con la sua storia familiare si fa vicenda collettiva di tante famiglie italiane: solo nel sacrario del Leiten ad Asiago risposano oltre 33mila di soldati senza identità.
La storia del nonno paterno, omonimo dell’investigatore, mi ha offerto anche la possibilità di assegnare a Ravidà una motivazione più nobile per trovarsi lassù e che non si esaurisse solo nella necessità di dover fuggire da Bari, a causa del bruttissimo tradimento subito dalla moglie. Un “riposizionamento” esistenziale, lo definirei, che include una nuova e ammirevole missione: trovare i resti del nonno per dargli più degna sepoltura.
La guerra che tutto ha distrutto, che ha reso gli asiaghesi profughi in casa propria, si fa così spazio di riflessione, cassa di risonanza dell’umanità di Ravidà, che si interroga spesso sul senso del male e che crede fermamente nella funzione riparatrice della giustizia. Una guerra che non solo distrugge ma anche inquina. Ed ecco ne “Il delitto della montagna” irrompere la battaglia del clima, e quindi la questione ambientale che diventa il tema intorno al quale si sviluppano i delitti. Perché, come per un tragico ricorso storico, moltissimi boschi dell’Altopiano, distrutti nel primo conflitto mondiale e ripiantati grazie ad una delle più importanti opere di riforestazione dell’immediato dopoguerra, nel 2018 sono stati ributtati giù dal ciclone Vaia. Una calamità naturale non dissimile, negli effetti, dalla furia bellica degli esseri umani.
Il recupero degli schianti del Vaia impatta sull’ecosistema, anche mettendo a rischio le tane della salamandra Atra Aurorae, un piccolo anfibio che vive in pochi ettari di bosco sull’Altopiano vicentino e che rischia l’estinzione. Una storia vera, perché nella realtà della cronaca c’è stata la mobilitazione della popolazione, pro e contro la sua salvaguardia, una polemica finita al ministero dell’Ambiente. Ho portato anche questo nelle pagine del romanzo, con sviluppi delittuosi su cui Ravidà si trova a indagare. Come anche si trova, proprio all’inizio della storia, a dover dare un’identità a un corpo mummificato, ritrovato nel cunicolo di una cava deposito di fusti altamente inquinanti.
Prima di essere una scrittrice sono una giornalista e trovo che scrivere gialli in cui ci sia anche l’inchiesta, ispirata a fatti realmente accaduti, sia un modo per tenere puntata l’attenzione del lettore su argomenti importanti.
Mario Rigoni Stern, che qui è nato e vissuto fino alla morte, oltre a essere fra i più rilevanti scrittori del Novecento – memorabili le sue pagine dedicate alla sua vita in guerra e alla natura dell’Altopiano – è stato un antesignano e fervente ambientalista. Gli devo moltissimo e lo tributo più volte in questo romanzo come nel precedente. Ne “Il delitto della montagna” ho scelto la “sua” pernice bianca, facendola apparire qui e lì più volte a Ravidà, per la forza simbolica. Con il suo piumaggio niveo è una figura quasi mitologica al pari della salamandra, che si dice resista al fuoco. Lui scrisse che le pernici bianche sono «rimaste a testimoniarci il tempo perché invece di andare tutte verso le tundre del Nord con gli uri e le alci, si erano fermate sulle cime più alte emergenti dell’Europa ancora primigenia, come per farci compagnia».
Sull’Altopiano questa natura chiede ancora di essere raccontata. Ho cercato di farlo con la mia sensibilità, cercando di trasmettere a chi legge la mia emozione e il mio stupore. Ma anche il rispetto per i tanti caduti. Sul cartello affisso sull’uscio di Lilli Pertile – la memoria storica del luogo, un personaggio di grande importanza nel mio seriale – c’è scritto: Se si vuole conoscere i segreti della Natura, bisogna praticare più umanità. Un concetto semplice, basilare, di cui fare tesoro per cercare di essere persone migliori.»

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Un brano estratto da “Il delitto della montagna. Una nuova indagine di Gaetano Ravidà” di Chicca Maralfa (Newton Compton Editori, 2024)

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Uno

C’era stato temporale durante la notte. Una brutta notte, dilatata dal soffiare del vento. Poi era arrivato il sonno, quello prima dell’alba, profondo ma breve. Il luogotenente Gaetano Ravidà si svegliò all’improvviso, aprì gli occhi e intravide sul pavimento del corridoio un rettangolo di luce dorata. Lasciava ben sperare, sarebbe stata una giornata soleggiata.
Aveva una gran voglia di continuare a dormire e così indugiò disteso, in una resistenza di pensieri quasi sempre scivolosi a quell’ora del mattino: un matrimonio fallito, la mancanza delle figlie. Per non continuare a girarsi e rigirarsi, instancabilmente, intorno al proprio dolore, decise di alzarsi. Per prima cosa si guardò allo specchio. La sua vita adesso era tutta lì e lo fissava dall’altra parte, obbligandolo a osservarsi con attenzione. I ricci sulla testa, indisciplinati e striati di bianco, gli parvero la metafora della sua esistenza sbrigliata, cui la divisa di carabiniere assegnava un rigore di facciata.
Sciacquò bene i denti, ripose lo spazzolino al solito posto e bevve un paio di sorsi dal rubinetto. Era così fresca l’acqua di montagna, un’ebbrezza per i suoi sensi ancora sopiti. La immaginò come neve soffice che si scioglie e prende altre forme e strade, fino alle case.
In vacanza, da bambino, formava una conchetta con i palmi delle mani e la immergeva nei ruscelli. Era l’acqua più buona del mondo, con quel retrogusto di muschio e di vette dove, ne era certo, nessun uomo o animale si sarebbe spinto per sporcarla.
Nostalgia di quei giorni felici, della loro gioiosa spensieratezza! Ora comandava la stazione dei carabinieri di Asiago e da qualche tempo si stava occupando di questioni ambientali, ma di tutt’altro tenore. Un paio di vecchie cave di marmo erano state utilizzate come deposito di rifiuti pericolosi e l’assottigliamento eccessivo delle pareti della roccia aveva provocato infiltrazioni nel bacino acquifero sottostante, che riforniva l’intero altopiano.
Le indagini erano partite a seguito di una denuncia anonima e una decina di persone erano state arrestate per il reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti.
Perlustrando quelle pareti di roccia, in un cunicolo, Ravidà e i suoi uomini avevano trovato il cadavere mummificato di un uomo, ancora senza identità.
«Che nome diamo all’operazione?», gli aveva chiesto qualche giorno prima il sostituto procuratore Giuseppe Pazienza. La questione dei nomi improbabili, che alcuni suoi colleghi assegnavano alle operazioni di polizia giudiziaria, lo divertiva molto.
«Allora?», lo aveva incalzato. «Il GIP sta firmando le ordinanze di custodia cautelare e non abbiamo ancora un nome. Il tenente Pellizzari, che ha la mania dei latinismi, ha proposto Cave abiectionem, un incomprensibile gioco di parole. Faremo ridere l’Italia intera. Comandante, la prego, mi aiuti lei».
«“Terra di nessuno” può andar bene?». Silenzio.
«Dottore, è ancora lì?». Ravidà aveva pensato che fosse caduta la linea.
«S-t-r-a-o-r-d-i-n-a-r-i-o». Pazienza, che era un tipo sempre misurato, non era riuscito a contenere il suo entusiasmo.
«Terra di nessuno nel nostro caso c’azzecca al quadrato», aveva aggiunto il luogotenente con una punta d’orgoglio. «Non per mettermi a fare il professore con lei, ma quelle due cave si trovano esattamente nella terra di nessuno della Grande Guerra. In un’inchiesta sui rifiuti, in qualsiasi altra parte d’Italia, sarebbe stato un nome scontato, banale, ma non lo è qui, dove si è combattuto tanto: colpi di mortaio e migliaia di morti. Ho cercato nel web e per caso ho scoperto che durante il Medioevo si definiva terra di nessuno il territorio conteso o una discarica per rifiuti posizionata tra due feudi».
«E allora siamo proprio a cavallo. È un nome perfetto, comandante. Che sia l’operazione Terra di nessuno», aveva concluso Pazienza.

Terra di nessuno: il sostituto procuratore non conosceva i risvolti personali di quel nome per Ravidà che, da qualche tempo, si sentiva come un soldato costretto a muoversi nel labirinto di una trincea, fra pericoli e incognite. L’incognita per eccellenza era rappresentata dal medico legale Maria Antonietta Malerba. La loro relazione clandestina lo destabilizzava e soprattutto lo poneva di fronte al grande enigma. Si stava innamorando di nuovo della donna sbagliata?
Lasciò cadere la domanda, rinunciò a bere l’acqua di montagna e fece qualche passo verso la cucina, per approvvigionarsi da una bottiglia di plastica trasparente, oggetto che detestava con tutto sé stesso. Bevve fino a placare la sete e guardò fuori dalla finestra, per capire cosa indossare.
Si fidava più della sua capacità di interpretare la luce come manifestazione del clima che di un vecchio barometro ana- logico appeso al muro, sotto un’antica icona di San Nicola. Era fine gennaio, con i giorni della merla c’era poco da scherzare, nonostante l’alta pressione e i venti di libeccio che da qualche tempo attraversavano la penisola. “Meglio essere prudenti” e optò per qualcosa di più caldo, da indossare sotto il giaccone d’ordinanza.
Doveva uscire per tornare a una delle cave sequestrate. Ci sarebbe stato un sit-in degli ambientalisti dell’associazione Sotto lo stesso cielo, con giornalisti, fotografi e qualche cittadino appassionato alla faccenda. L’operazione Terra di nessuno aveva riportato la questione ambientale dell’altopiano al centro del dibattito politico, con echi nella cronaca nazionale. La mala del Brenta si era ripresa le prime pagine, come ai tempi di Felice Maniero.
Le indagini continuavano in altre cave dismesse, utilizzate illegalmente come discariche, e poi c’era quel cadavere mummificato che lo vedeva molto impegnato, con il brigadiere Casarotto e il maresciallo Strazzabosco, in una sorta di caccia all’uomo. Morto.

(Riproduzione riservata)

© Newton Compton Editori

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La scheda del libro: “Il delitto della montagna. Una nuova indagine di Gaetano Ravidà” di Chicca Maralfa (Newton Compton Editori, 2024)

Il delitto della montagna. Una nuova indagine di Gaetano Ravidà - Chicca Maralfa - copertinaUna piccola cittadina di montagna. Tre morti misteriose. Un’indagine complicata per Gaetano Ravidà

Due anni dopo il trasferimento ad Asiago, dove comanda la locale stazione dei carabinieri, il luogotenente barese Gaetano Ravidà comincia ad abituarsi alla sua nuova vita. Sull’altopiano vicentino, teatro delle più sanguinose battaglie della Grande Guerra e funestato di recente dalla tempesta Vaia, è alle prese con reati ambientali: un paio di cave di marmo, dismesse da tempo, vengono utilizzate come deposito illegale. Proprio fra quelle pareti di roccia, Ravidà e i suoi uomini trovano, oltre ai rifiuti pericolosi, il cadavere mummificato di un uomo. Mentre si cerca di risalire all’identità della vittima, altre due persone muoiono in circostanze misteriose e apparentemente scollegate tra loro, gettando la piccola comunità nello sgomento. Grazie alle testimonianze, incrociando varie fonti e indagando senza sosta, Ravidà e i suoi collaboratori cominciano a sospettare legami e connessioni tra le vittime e i pericolosi tentacoli della mala del Brenta. Durante i giorni della merla, con il paesaggio ammantato di neve, il luogotenente e la sua squadra dovranno riuscire a superare la coltre di apparente calma e silenzio nel periodo più freddo dell’anno per trovare in fretta la verità.

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