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ADELAIDA di Adrián N. Bravi (Nutrimenti)

marzo 24, 2024

Adelaida - Adrián N. Bravi - copertina“Adelaida” di Adrián N. Bravi (Nutrimenti): incontro con l’autore e un brano estratto dal libro

Libro presentato da Romana Petri nell’ambito dei titoli proposti dagli Amici della domenica al Premio Strega 2024.

Oggi, 24 marzo, ricorre l’anniversario del Golpe in Argentina

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Adrián N. Bravi è nato a Buenos Aires, ha vissuto in Argentina fino all’età di 25 anni, poi si è trasferito in Italia per proseguire i suoi studi di filosofia. Vive a Recanati e fa il bibliotecario all’Università di Macerata. Nel 1999 ha esordito come narratore in lingua spagnola ma poi ha scelto di scrivere in italiano. Tra i suoi romanzi: La pelusa (2007), Sud 1982 (2008), Il riporto (2011), L’albero e la vacca (2013), L’inondazione (2015), L’idioma di Casilda Moreira (2019) e Il levitatore (2020). Con Nutrimenti ha pubblicato Verde Eldorado (2022).

Per Nutrimenti ha appena pubblicato il volume Adelaida, dedicato alla figura di Adelaida Gigli. Abbiamo chiesto all’autore di parlarcene…

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«“Adelaida” è un libro nato da un’esigenza personale maturata negli ultimi anni», ha detto Adrián N. Bravi a Letteratitudine.

«In passato non avevo mai contemplato la possibilità di scrivere su di lei; poi, con il tempo, forse dovuto a una sorta di manutenzione della memoria, ho iniziato a pensare alla sua vita, al contesto in cui ha vissuto, ai suoi figli, ai suoi amici, a suo padre, il pittore di due mondi, Lorenzo Gigli; ho iniziato a leggere le sue lettere, i suoi racconti, le sue poesie, i suoi saggi, e mi sono accorto che il mondo che la riguardava faceva parte di me, della mia cultura e della mia storia. Ed è per questo che ho iniziato a raccontarla, declinando al singolare la tragedia di un paese e di un’intera generazione. Inoltre, bisogna aggiungere, Adelaida rappresenta uno spaccato del Novecento, nel senso che nella sua individualità si concentrano tanti aspetti che hanno caratterizzato il nostro immediato passato, forse anche il presente: l’esilio, la tragedia, l’arte, l’impegno politico in senso lato, la perdita della propria terra, dei figli e dei suoi affetti. Quindi, raccontare la sua vita, anche il modo in cui l’ho conosciuta, mi ha dato la possibilità di capire la storia di quel paese travagliato che è stata l’Argentina».

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Approfondimenti sulla figura di Adelaida Gigli

Nata a Recanati nel 1927 – figlia del pittore Lorenzo Gigli che, con la sua famiglia, durante il fascismo, decise di lasciarsi l’Italia alle spalle alla volta dell’Argentina – Adelaida Gigli è stata una artista anticonformista e brillante, divertente e ironica nonostante il suo passato drammatico e doloroso. Affascinante come Jeanne Moreau, piena di spirito come Wislawa Szymborska e appassionata delle sigarette come Ingeborg Bachman, Adelaida alla fine degli anni Quaranta è a Buenos Aires e si tuffa nella vita politica e letteraria della città. Insieme al marito David Viñas e ad altri intellettuali, fonda la rivista Contorno, destinata a diventare un punto di riferimento per l’Argentina degli anni Cinquanta, una esperienza dal basso e politicamente schierata con le classi più indigenti, in contrasto con la ricca e altolocata Sur di Victoria Ocampo. In quegli anni Adelaida ha due figli, Mini e Lorenzo, militanti del gruppo rivoluzionario montoneros. Entrambi ‘desaparecidos’, lei nel 1976, lui nel 1980. Subito dopo il colpo di stato del 1976 e la straziante perdita dei figli, Adelaida è costretta a lasciare l’Argentina per recarsi a Recanati, suo paese natale, dove comincia una nuova vita artistica e personale. Sempre nella città del Leopardi, muore nel 2010, in un ricovero, nel quale trascorre gli ultimi nove anni, in solitudine. Adrián N. Bravi ripercorre con amicizia e grazia le tappe della vita di una donna d’eccezione, che ha potuto conoscere e di cui è stato confidente, e mentre lo fa ci racconta gli anni della dittatura, l’impegno politico dei più giovani, il fermento culturale, la forza della letteratura argentina.

Come si può rimanere al mondo dopo la perdita dei propri figli? Come ha vissuto chi si è salvato scappando dalla persecuzione politica? In questo romanzo biografico l’umanità formidabile di una donna e di una artista emerge e commuove, mentre la scrittura racconta la potenza della memoria, dell’affetto e della resistenza contro ogni tentativo di cancellazione e oblio.

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Un brano estratto da “Adelaida” di Adrián N. Bravi (Nutrimenti, 2024)

 

Ho conosciuto Adelaida Gigli nell’ottobre 1988, quando aveva sessantuno anni. Andai a casa sua per accompagnare un mio amico che stava scrivendo una nota introduttiva per un catalogo delle sue opere. Non sapevo nulla a quei tempi della sua storia, del legame che aveva avuto con l’Argentina e con il mondo culturale di Buenos Aires, né tanto meno delle vicende che l’avevano condotta fino a quell’appartamento che si affaccia sul cortile di Sant’Agostino a Recanati; conoscevo solo lo scrittore argentino David Viñas, per averne sentito parlare e per aver letto uno dei suoi saggi, ma ignoravo che quella donna con i capelli a caschetto, gli occhiali grandi e spessi e una camicia tutta colorata fosse stata legata sentimentalmente a Viñas e che avessero anche avuto due figli insieme. Mi sembrava strano trovare quel pezzo di storia argentina nascosta dall’altro lato dell’oceano, in quel cortile noto, soprattutto, per il campanile della chiesa di Sant’Agostino, la famosa Torre del passero solitario. Ancora oggi, dopo anni riecheggia in me il rintocco delle tre campane che suonano all’unisono mentre io ascolto, al contempo, Adelaida che, senza badare al frastuono, ci parla di Buenos Aires. Quella torre, come sanno tutti coloro che hanno avuto occasione di visitarla, rappresenta il punto più alto della città e nel suo idillio, Il passero solitario, che è il canto per antonomasia della solitudine, Leopardi immagina un passero scrutare la lenta e monotona vita del borgo, come da circa dieci anni faceva Adelaida stessa, sotto quella medesima torre.
Il suo appartamento, un ampio monolocale pieno di sculture, ceramiche e quadri, era suddiviso tra librerie e vecchi mobili. Ogni parete sembrava un piccolo universo da scoprire, con le pieghe e le incrostazioni. Alcune porzioni delle pareti, dove l’intonaco cedeva al passaggio del tempo, erano coperte con le sue ceramiche o i suoi disegni; altre, invece, con i quadri del padre. Le piastre e le sculture mi facevano pensare che quando la cruda realtà si mostra nella sua nudità finisce per trasformarsi in una smorfia. Per Adelaida, me ne ero convinto, la bellezza era una ferita aperta.
Ed è per questo che oggi, quando pronuncio il suo nome, amo farlo nella lingua in cui l’ho conosciuta e in cui lei ha vissuto tutta la sua tragedia, lo spagnolo: quell’a finale di Adelaida mantiene ancora aperte le sue relazioni con la propria storia, le sue insurrezioni, perché era in questo modo che figurava nell’elenco degli assassini: Adelaida Gigli, la madre, l’artista, quella che ride in faccia al potere, che ospita e protegge i dissidenti. Adelaide, invece, vale a dire il suo vero nome di battesimo, ereditato dalla nonna paterna, l’allontana dalla lingua delle sue rivolte, nel senso che quella e finale appartiene a un vissuto italiano, che era stato mite e produttivo per la sua famiglia, sia nel periodo tra il 1927 e il 1931, quando era partita per l’Argentina e aveva mutato quella e in a, sia quando era tornata nel suo paese natale, nel 1978, scappando dalla dittatura argentina.
Fino a una certa età, che non saprei precisare, dare del tu alle persone mi ha sempre creato una grande difficoltà. A chiunque avesse avuto qualche anno più di me davo istintivamente del lei. Venivo da un periodo storico e da una famiglia in cui ancora non si erano allentate certe formalità e dunque anche con Adelaida mi attenni a questa formula, ma lei mi rimproverò subito: “No, per favore, non darmi del lei che ho appena sessantuno anni. Non farmi sentire più vecchia di quanto non sia già. Io l’unico a cui ho sempre dato del lei è stato mio padre e quando gli scrivevo iniziavo: Caro papà, ho ricevuto la sua lettera. A mia madre no, ma a mio padre… Lui non mi ha mai chiesto di cambiare registro e io non l’ho cambiato”.
Raccontò, al mio amico e a me, degli anni in cui studiava all’università di Buenos Aires, della repressione del periodo peronista, delle sue prime collaborazioni con la rivista Centro dell’università stessa: “Il primo articolo che ho scritto era su Raquel Forner, l’artista del Gruppo Florida, forse in quell’occasione, credo che fosse all’inizio del ’50 o giù di lì, sono stata un po’ critica con lei, ma era un’artista straordinaria”. Dopo aver presentato una serie di opere dedicate alla guerra civile spagnola, Raquel Forner aveva dichiarato di concepire la sua pittura come un’eco drammatica della storia, voleva che fosse al servizio della libertà e denunciasse i crimini dell’uomo. Forse in quel momento Adelaida non poteva sapere che, da lì a qualche anno, la tensione tra arte, vita e politica sarebbe diventata anche la cifra delle sue opere.
Dopodiché si fermò, non amava parlare di sé, e mi chiese, rivolgendomi un sorriso ironico: “E tu, invece, che fai in questo posto?”.
Era un periodo, quello in cui l’ho conosciuta, nel quale di stranieri in città ne giravano pochissimi, e dunque incontri del genere presupponevano sempre una giustificazione, non era abituale incontrare qualcuno che avesse lasciato una città come Buenos Aires per approdare a Recanati. Siccome non sapevo neanche io bene perché fossi lì, a parte il fatto che alcuni dei miei avi erano di Recanati e altri di Montecassiano, né quanto tempo sarei rimasto, le risposi la prima cosa che mi venne in mente: “Per ora lavoro il fine settimana insieme a lui”, precisai indicando il mio amico, “mentre durante la settimana frequento l’università, e faccio avanti e indietro con Macerata”.
“Ah, mi sembra fantastico,” esclamò.
Le sembrava davvero una notizia che valesse la pena di essere festeggiata, o forse stava semplicemente cercando una scusa per farlo; fatto sta che appena le accennai della mia esperienza universitaria andò in cucina a prendere una bottiglia di whisky con tre bicchieri e un vassoio di cubetti di ghiaccio.
In quel momento ebbi l’impressione che il tempo l’avesse solo sfiorata, lasciandole addosso molte tracce della sua giovinezza: il modo di camminare, di osservare le cose e di parlare, ma, soprattutto, la lucidità con cui riusciva ad affrontare qualsiasi argomento. Ricordo ancora il primo giorno in cui parlammo di alcuni autori sudamericani e lei mi suggerì di leggere assolutamente Paradiso di José Lezama Lima: “Ma poi dimenticalo”, concluse.
La stessa cosa valeva per Adán Buenosayres di Leopoldo Marechal, per i racconti di Julio Cortázar, per le poesie di César Vallejo e di Evaristo Carriego, persino per i saggi di Ezequiel Martínez Estrada: “Dimenticali tutti, dopo averli letti bene”.
E quando le chiesi cosa, secondo lei, dovessi invece ricordare, mi rispose senza indugio: “Juan Rulfo e Roberto Arlt”.
“Be’, allora inizio a leggere Juan Rulfo, I sette pazzi di Roberto Arlt l’ho già letto e non l’ho scordato”.
“No, no, Juan Rulfo lascialo per ultimo, prima leggi quelli da dimenticare”.
Capii che le piaceva smontare i miti e ridimensionare i miei entusiasmi letterari.
Un giorno, ormai avevo già iniziato ad andare da lei con una certa frequenza, le portai un racconto che avevo scritto e che ogni tanto tiravo fuori per un’occhiata. Lei mi chiese di leggerglielo ad alta voce (secondo Adelaida la lettura ad alta voce era la prova del fuoco per ogni scrittura) e dopo aver ascoltato attentamente la mia lettura mi guardò con i suoi grandi occhi penetranti, che gli occhiali convessi amplificavano, e mi disse: “Non so se l’altra volta ne abbiamo parlato, ma era scontato che anche Borges è da dimenticare”.
Da una parte mi divertì capire che aveva colto i miei riferimenti, dall’altra, però, era chiaro che anche quello scartafaccio di quattro o cinque pagine che avevo appena letto era da consegnare all’oblio, prima di qualsiasi altra cosa.
In una lettera scritta a Roberto Fernández Retamar, Julio Cortázar fa la seguente constatazione: Non ti sembra paradossale – si chiede Cortázar – che un argentino debba scoprire qui in Europa la sua vera condizione di latinoamericano? Ecco, la frequentazione di Adelaida, fin dal primo giorno, mi stava facendo scoprire proprio questo.
Quando, più tardi, ho iniziato a leggere le cose scritte da lei mentre si trovava in Argentina, ho scoperto che a ventisette anni aveva pubblicato un articolo nella rivista Contorno su Victoria Ocampo, la grande aristocratica che aveva fondato la rivista Sur (avvalendosi della collaborazione del mitico trio composto da Borges, Bioy Casares e Silvina Ocampo). Mentre rileggo quelle righe mi sembra che Adelaida stia parlando di sé: Riesce a ridere di sé stessa, prendendo in giro gli altri, facendo finta di aver perso l’innocenza, venerando ancora il peccato, divertendosi con i ricordi. Si guarda e si annuncia senza la disperazione della vecchiaia, della malattia, della morte. Accetta e ignora tutto.
Quando mi trovo a scartabellare i suoi dattiloscritti, la rivedo ancora in quel pomeriggio del 1988, con il bicchiere di whisky in mano, il sorriso ampio, il rimmel nero intorno agli occhi e il rossetto slabbrato sul bordo del bicchiere, mentre si soffermava sui fogli che aveva tra le mani, felice di poter contare sul testo del mio amico per il suo catalogo. E mentre loro si confrontavano su questo scritto, io ne approfittavo per guardarmi meglio intorno. Provavo a decifrare le sue sculture, quei volti contratti e deformi, appesi come fantasmi alle pareti o appoggiati qua e là: un campionario umano da cui promanavano le varianti di tutti i suoi sentimenti e stati d’animo. C’era un tavolo tondo e basso, abbastanza grande, pieno di opere, ognuna delle quali aveva un’espressione diversa, un modo proprio di riflettere la luce che attraversava la finestra affacciata sul cortile, da dove si poteva vedere il pozzo dell’antico convento degli agostiniani al centro del chiostro e alcune colonne che reggevano il porticato. Più che un appartamento, quel rifugio che la riparava dall’esilio sembrava un teatro, con i suoi angoli saturi di disordine. In ognuna di quelle piastre e di quelle sculture c’era, mi sembrava, la ricerca di un’espressione che potesse restituirle il volto dei figli o dei loro assassini.
Quasi tutta la sua opera era composta di sguardi e attraversata da una mimica costruita con pochissimi tratti essenziali. Iniziavo a rendermi conto che tra i suoi lavori e quell’odore un po’ antico, di carta e di sigarette, che mi riempie ancora di nostalgia, lei, Adelaida, custodiva con grande amore le sue assenze.

(Riproduzione riservata)

© Nutrimenti

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La scheda del libro: “Adelaida” di Adrián N. Bravi (Nutrimenti, 2024)

Adelaida - Adrián N. Bravi - copertinaUna donna, un’artista, una madre. Adelaida Gigli è stata una delle figure femminili più sorprendenti dell’Argentina del secolo scorso. Pronta a nascondere armi e dissidenti nella sua casa, a ridere in faccia al potere, a ribellarsi alle convenzioni, a mostrarsi esuberante e dissacrante, Adelaida ha espresso sempre sé stessa fino in fondo e ha dovuto pagare sulla propria pelle l’orrore della censura, della dittatura e della perdita. Il ritratto che ne fa Adrián N. Bravi è appassionato e vivo, irrinunciabile.

Libro proposto da Romana Petri al Premio Strega 2024 con la seguente motivazione:
«[…] La scrittura mirabile di Bravi è come uno specchio. Lui scrive guardandoci dentro, ma non trova sé stesso. Flaubertianamente indentificato con Adelaida è lei che fa muovere, rivivere, soffrire, ma avere ancora qualche fondamentale, fugace appuntamento di felicità nell’ultima parte della sua vita solitaria. È da quello specchio che Bravi si accorge, nei funerali di Adelaida, di come sia inutile, a volte, chiudere gli occhi dei morti. Chi l’ha detto che non possano vederci? Un’opera di rara bellezza (molto più di una biografia). Bravi, con “Adelaida”, ci offre in dono la vita di una donna unica, che nessun lettore potrà mai dimenticare.»

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