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IL CASTELLO DELLE CONGIURE di Davide Cossu (Newton Compton)

aprile 3, 2024

Il castello delle congiure - Davide Cossu - copertina“Il castello delle congiure” di Davide Cossu (Newton Compton Editori): incontro con l’autore e un brano estratto dal libro

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Davide Cossu è nato a Cagliari nel 1987. Laureato in Storia del Cinema e Filosofia, ha studiato Scrittura Creativa presso la Scuola Holden di Torino. Il quinto sigillo, suo romanzo di esordio, è stato vincitore del Premio Selezione Bancarella 2023.

La Newton Compton ha pubblicato anche il nuovo romanzo intitolato Il castello delle congiure.

Abbiamo chiesto all’autore di parlarci di quest’ultimo libro…

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«“Bella amica, così è di noi / né voi senza di me, né io senza di voi” scriveva nel XII secolo una delle più grandi intellettuali del Medioevo, Maria di Francia, poetessa dell’amor cortese e antesignana del movimento femminista. Una protagonista, al pari della ben più famosa Christine de Pizan, della metà dimenticata della Storia, quel mondo femminile nascosto volutamente dal dominio degli uomini, eppure sempre pulsante e mai incline alla sottomissione.

Image from LETTERATITUDINE (di Massimo Maugeri)

Davide Cossu

La storia de Il castello delle congiure si apre a Ferrara nell’autunno del 1442 presso la corte di Leonello d’Este. Una corte raffinata e libertina in cui si annidano segreti che l’architetto Leon Battista Alberti, legato a Leonello da un’antica amicizia, sarà portato a svelare. Due potenti famiglie ferraresi combinano un matrimonio tra i rispettivi eredi ma la ragazza, Laura Pendaglia, fugge prima delle nozze per rinchiudersi in un monastero sotto l’autorità di suor Caterina, una clarissa in odore di santità. Il mancato sposo, Folco, muore tragicamente durante un torneo in circostanze che rimandano al più famoso dei romanzi d’amor cortese, la storia di Tristano e Isotta. Leon Battista è chiamato a indagare, con l’aiuto dei fidi Parentucelli e de’ Conti e dell’irresistibile femme fatale Margherita, sulla morte di Folco e sulle ragioni della piccola Laura, mentre la tragica passione di Isotta e Tristano si specchia in un brutale delitto sepolto nel passato degli Este.
L’idea del romanzo è nata dal desiderio di raccontare un Rinascimento meno razionale di come lo immaginiamo, diverso dal sereno distacco che ci tramandano le opere d’arte o i libri di testo. Un’epoca cinica e ferocemente patriarcale raccontata dal punto di vista delle donne, a partire dalla loro resistenza nei confronti di un sistema costruito per soggiogarle. Ognuna resiste con le proprie armi: vale per la nobildonna Margherita, per la quale gli uomini perdono la ragione e che lotta, con una dirittura morale sconosciuta ai suoi pretendenti, sognando una vita realmente libera; vale per suor Caterina, che quella libertà l’ha trovata nell’estasi mistica, fuggendo la tirannia degli uomini e servendo Dio; e vale anche per la giovane Laura, che a suor Caterina si affida scegliendo una prigione diversa da quella che la famiglia le aveva imposto. Su tutte loro pesa il fantasma di Parisina Malatesta, la cui storia ricorda la tragica fine di Francesca da Rimini cantata da Dante.
L’artista-detective Alberti si troverà a scoprire suo malgrado come la seduzione più pericolosa possa celarsi ancora una volta tra le pagine di un libro. Quel romanzo di Isotta che condannò Parisina all’amore e che porta Leon Battista, il fanatico amante dei libri, a riflettere sul potere della letteratura, capace di elevare e al contempo di dannare l’anima dei protagonisti, sia vittime che carnefici. Anche Leon Battista cadrà nella seduzione di quell’amor cortese in cui, per la prima volta, la donna diventa soggetto e non più oggetto dell’amore, e per sopravvivere alla giostra di congiure della corte capirà come “le parole, anche quelle apprese su un libro, rendano gli uomini capaci dei peggiori delitti”.»

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Un brano estratto da “Il castello delle congiure” di Davide Cossu (Newton Compton Editori)

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I

 

Anno Domini 1442
7 ottobre

Il battello scivolava sull’acqua priva di increspature. Avanzava lentamente, quasi a seguire una processione al di là della bruma. Lungo la lingua di fiume apparivano isolotti bassi e spogli che affioravano in un baleno prima d’essere inghiottiti nel folto della nebbia. Destatosi dal sonno, Battista puntò il naso verso la prora e inspirò a fondo. Un sentore di cenere ed erba tagliata lo riportò a impressioni perse negli anni, come se anche la memoria si fosse incagliata nella foschia. Gli rinvennero la brezza e il calore della luce estiva, provando un sottile piacere nello scarto tra i suoi sogni e quella barca che procedeva immobile verso il nulla. Socchiuse gli occhi e si lasciò scuotere dal freddo, chiamando i compagni alla murata.
Il battelliere ritirò il remo e indicò il punto in cui la nebbia andava a diradarsi. Avevano passato le rovine del forte di Marcabò, inoltrandosi nell’ansa del fiume che guadagnava in larghezza.
«Il fondale aumenta», constatò il compagno con perizia da marinaio, sporgendosi per toccare l’acqua. «Sembra che la cosa ti dispiaccia, Niccolò», disse Battista.
«Sono uomo di fondali bassi, amico mio. Ho navigato i mari fino al limite delle terre conosciute, ma ho bevuto la prima acqua dai canali della mia Chioggia e devo ammettere che sguazzare in questo pantano mi riporta un po’ a casa».
«Casa?», squittì una figura grassoccia e rimboccata nelle coperte. «Se questa è casa, ringrazia Iddio che ti indicò la via del mare. Non è passata una settimana da quando abbiamo lasciato Venezia e già ti sciogli per la nostalgia».
«Non si tratta di nostalgia, Tommaso», rispose l’altro lisciandosi i mustacchi. «Mi piace sapere dove metto i piedi».
«Puoi sempre tuffarti e vedere fin dove arrivi in questa nebbia malefica».
«Hai paura della nebbia?», rise Niccolò.
«Non ho affatto paura! Non mi piace, ecco tutto…», e si calò la berretta sulla testa, sedendosi nell’angolo più protetto del barcone. Battista lo vide rimestare nella sua sacca in cerca delle minute da compilare.
«Abbi pazienza e risparmiaci il tuo malanimo», gli disse, «il tempo se ne andrà così com’è venuto». Mentre Niccolò discuteva col battelliere sul gioco delle correnti, Battista si sistemò su una cassa di legno accanto a Tommaso, cullandosi sulle gambe.
Il battello, dallo scafo lungo e piatto come le altre imbarcazioni che solcavano il corso del Po, era stipato di merci e gabbie per il bestiame. A poppa ruminavano due cavalli, appena distratti dallo sciabordio dell’acqua e dal chiocciare delle galline. Uno era un magnifico stallone di pelo fulvo mentre l’altro, più minuto e dal colore cinerino, era in realtà una cavalla, a ogni evidenza una fattrice. Battista prese il taccuino e cominciò a disegnare sulla carta i possenti posteriori degli animali, marcando la grossezza dei muscoli. Passò a contornare l’arco del dorso fino al capo piccolo dei due, segnando col carboncino il ciuffo della criniera e le froge che striavano di fiato la foschia. I cavalli si sfioravano placidamente il muso come due amanti e Battista smise di disegnare, ammirando quanta forza, fierezza e mansuetudine potessero riunirsi in un solo corpo secondo le precise leggi di natura.
«Mano d’artista», commentò il veneziano sbirciando i disegni, «Leon Battista, sei sicuro di essere un semplice curiale?»
«Credi che servire la Santità di Nostro Signore non renda merito?»
«Credo che i tuoi talenti meritino il palcoscenico adatto», rispose Niccolò, «secondo inclinazioni e desideri che sono solo tuoi. Sei sprecato dietro i maneggi della curia papale».
«Sarei un cattivo pittore».
«E il cielo mi è testimone, anche un pessimo prete». Sepolto sotto le coperte, Tommaso si mise a rimuginare nel suo angolo in preda alla stizza e si morse le labbra per non dar soddisfazione al veneziano. Faticava a tollerare la malalingua di de’ Conti che nel suo peregrinare sino alle Indie s’era impratichito a tal punto degli infedeli da convertirsi all’Islam, per poi pentirsi della sua apostasia e ricevere infine il perdono dal pontefice. Indispettito da quelle tirate che puzzavano di blasfemia, Tommaso tornò a compulsare la corrispondenza, levando a ogni pagina un grosso sospiro.
«Che ti prende oggi?», chiese Battista. «Basta un poco di nebbia a renderti così rancoroso?»
«È la salute di Sua Eminenza a preoccuparmi», ammise con occhi lucidi. Sia lui che Battista dovevano il proprio ruolo in curia alla protezione del cardinale Albergati, vescovo di Bologna, il quale li aveva allevati per vent’anni come membri della sua famiglia. A quanto narravano le lettere inviate a Tommaso, che del cardinale era amministratore e segretario personale, sebbene lo spirito dell’Albergati mantenesse il vigore di sempre non si poteva dire lo stesso della sua fibra, debilitata dall’amore per la buona tavola che gli aveva riservato un calvario di calcoli e attacchi di gotta.
«I medici lo hanno costretto al riposo», disse il segretario, «e fatica ormai a viaggiare».
Battista chiuse il taccuino.
«Compiango il medico che ha avuto la forza di contrastare la volontà di Sua Eminenza. Lo avrà ripagato con un paternostro e un paio di bastonate».
«Non scherzare, Battista. Stai parlando di colui che ci ha fatto da padre».
«Dio l’abbia in gloria», si intromise il veneziano, «ma hai poco da crucciarti, caro Tommaso. Quel vecchio barbagianni ha la scorza più dura della tua. Nel peggiore dei casi», ammiccò, «avrai un anello pastorale tutto per te».
Tommaso, dapprima fremente di sdegno, si barricò dietro un’espressione colpevole, spaventato dal peso di quell’allusione. Il filo dei pensieri fu interrotto dal grido del battelliere, cui rispose un richiamo nella bruma. Alla torre della Fossa la corrente contraria aumentò la sua forza e il barcone venne così fissato a una lunga catena per essere trainato da coppie di buoi che procedevano invisibili sulla riva del fiume.
Battista si sedette sulla murata a contemplare le volute disegnarsi sull’acqua, meditando su quell’insolito viaggio coi suoi compagni e sugli anni spesi al servizio di papa Eugenio, il quale riponeva nei tre la massima fiducia da quando, grazie ai loro sforzi, il concilio tenuto a Firenze aveva stabilito un’effimera pace tra i cristiani d’Oriente e d’Occidente.
«Devi ancora spiegarmi, Leon Battista, per quale motivo ci stai portando a Ferrara», chiese Niccolò.
«Credevo di averlo fatto», rispose il curiale.
«Ma non mi hai convinto. Hai strappato il sottoscritto da Venezia e il buon Tommaso dalle sue paturnie religiose. Spero solo che tu l’abbia fatto per una ragione valida e non per seguire le tue velleità artistiche…».
«Le velleità non sono mie. Il marchese Leonello d’Este ha intenzione di erigere una statua equestre per commemorare suo padre Niccolò III, che ha lasciato vita e signoria meno di un anno fa. Leonello è un patrono delle arti e desidera che il monumento sia all’altezza della gloria degli antichi. Perciò ha indetto un concorso che verrà giudicato da una commissione di saggi ed esperti d’arte».
«E tu sei uno dei giudici».
«Precisamente», affermò orgoglioso. Tommaso sollevò il naso dalle sue carte.
«Leonello è il più munifico signore d’Italia», disse quest’ultimo. «Colto, gentile e favorito dalla fortuna… Tutti i governanti dovrebbero godere della sua buona stella».
Niccolò si sgranchì le ossa.
«Lo conoscete bene».
«Lo incontrammo molti anni fa, prima che la peste costringesse il concilio voluto da papa Eugenio a muovere verso Firenze».
«È un amico», aggiunse Battista, «un vero amico. Ti consiglio, Niccolò, di trattarlo in egual modo».
«Farò del mio meglio», rispose il veneziano, «mi hanno detto che a Ferrara sanno godersi la vita», e gli occhi si accesero di bramosia. «Mentre tu farai il giudice di belle arti, io e Tommaso che dovremmo fare?»
«Trarre il massimo beneficio dal soggiorno. Si ha sempre bisogno di compagni fidati».
«Per una missione, non per un soggiorno di piacere». Niccolò osservò il battelliere intento a governare la catena e si fece più vicino. «Ditemi cosa bolle in pentola».
I due curiali si guardarono per un momento e Battista, con riluttanza, spiegò a voce bassa.
«Leonello è vedovo. La sua posizione è più precaria di quanto si immagini, in quanto figlio naturale», e a quelle parole che pesavano, essendo nato anch’egli fuori dal matrimonio, Battista fissò il banco di nebbia che sbiadiva sull’argine. «È salito al potere grazie alle volontà testamentarie del padre ma sono in molti a contestarne la legittimità. Ferrara è una preda ambita e una nuova sposa servirebbe a puntellare la sua autorità».
«Ma la curia cosa c’entra in questo affare?»
«A Roma gradirebbero vederci chiaro sulle future nozze», soggiunse Tommaso, «possibilmente con una candidata gradita al Santo Padre».
«Si tratta quindi di trovare la sposa giusta per il vostro Leonello».
«È molto più di questo, Niccolò», disse il curiale osservando l’orizzonte, divenuto palpabile alla luce rada del tramonto. «Siamo arrivati».

(Riproduzione riservata)

© Newton Compton Editori

 

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La scheda del libro: “Il castello delle congiure” di Davide Cossu (Newton Compton Editori, 2024)

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